«Si riconosce quello che già si conosce»

di Giorgio Chelidonio

Molti anni fa, ad un convegno internazionale di paletnologi, mi ha colpito (e perciò mi sono segnato) questa massima che ho messo nel titolo: venne citata da un caposcuola della ricerca archeo-sperimentale francese per sottolineare quanto l’archeologia tipologica [LINK 1] possa essere fuorviante: pretende di definire manufatti prodotti in passati anche lontanissimi senza capirne la «catena operativa» [LINK 2] cioè la storia dei gesti che li hanno prodotti, usati e, alla fine, abbandonati. Molte volte ho cercato di individuarne l’autore (doveva essere un antico filosofo), purtroppo senza risultato. In compenso ho trovato un paio di “frasi celebri” assai simili:
– «L’occhio vede ciò che la mente conosce» attribuita a J. W. Goethe;

– «L’occhio vede solo ciò che la mente è preparata a comprendere» di Henri Bergson [LINK 3].

Per parte mia, avevo fatto esperienza diretta di questa fenomenologia diversi anni prima: accompagnando alcune classi di scuola primaria a visitare, a Trento, una unità museale dedicata alla preistoria mi ero accorto dell’incapacità di molti studenti di riconoscere i reperti più antichi come manufatti. La sequenza espositiva iniziava, come nella gran parte delle esposizioni museali, «dal più antico al più recente» pensando di far ripercorre la stessa evoluzione culturale antropica: nonostante didascalie e spiegazioni orali gli alunni “vedevano solo sassi” fino alle vetrine che esponevano manufatti litici ma di forma riconoscibile, cioè le punte di freccia.
Questo loro “
gap” cognitivo [LINK 4] che consisteva nella grande difficoltà di proiettarsi in mondi talmente “primitivi” [LINK 5] da risultare incomprensibili, cessava davanti a un esperimento di riprodurre, con stesse arcaiche tecniche, manufatti più antichi di 40.000 anni fa.
Oppure la suddetta sequenza diventava meno ostica facendo visitare l’esposizione “alla rovescia”, cioè dal più recente al più antico: dopo gli utensili dell’età dei Metalli (così simili, ad esempio, a quelli dei contadini storici) incontravano i reperti del Neolitico dove i manufatti erano sì di pietra ma la forma di cuspidi e lame risultava in qualche modo familiare. E poi era associata a vasellame. Nelle vetrine “evolutivamente precedenti”, la sparizione di queste forme tipologiche riconoscibili segnava una scansione evolutiva: la dimensione “nomadica” delle facies culturali paleolitiche, ma la differenza percettiva trovava già introita
to, tramite il laboratorio sperimentale, l’idea di manufatti in pietra scheggiata, anche se le loro forme erano profondamente diverse da quelle tardo-preistoriche e/o storiche.

Erano queste le esperienze didattiche che mi avevano permesso di cogliere lo spessore di quella “massima”, ma solo recentemente ho potuto coglierne la profondità neurologica: «la percezione non è mai una finestra diretta su una realtà oggettiva» [LINK 6].  Come dire che le nostre percezioni sono solo le “ipotesi migliori” che il nostro cervello formula, con una rapidità strabiliante, sulla base delle esperienze precedentemente acquisite.
Ho così incontrato il concetto di “
percezione predittiva”. Provo a semplificarne la profondità del significato: i nostri occhi percepiscono insiemi di luce / forme / movimenti però non li “leggono”, ma li trasmettono solo al cervello che li interpreta sulla base delle “banche dati” esperienziali già acquisite. Evitando di improvvisarmi tuttologo mi limito a riportare un paio di sintesi scientifiche-divulgative [LINK 6]: «la percezione normale è una forma controllata di allucinazione» mentre «quella che chiamiamo allucinazione è una forma di percezione incontrollata».
A questo proposito mi è tornato in mente un episodio percettivo accadutomi alla fine degli anni ’70. Allora avevo affittato una vecchia casetta contadina posta sulle colline a Est di Verona e, per pura coincidenza, in quello stesso periodo ascoltavo spesso «
Radici», una canzone di Guccini: «La casa sul confine della sera, oscura e silenziosa se ne sta, respiri un’aria limpida e leggera e senti voci forse di altra età…». In un tardo pomeriggio, mentre stavo all’esterno della casa, improvvisamente “vidi” davanti al pianoterra una piccola, anziana contadina: vestiva i tipici abiti d’inizio XX secolo e guardava verso un punto distante. La visione durò un istante ma fu così intensa da interrogarmi sulla sua natura: parlando, subito dopo, con la mia compagna e, in seguito, con alcuni amici che frequentavano quel luogo furono valutate persino ipotesi esoteriche. Qualcuno ipotizzò persino che avessi tendenze medianiche: la presenza di una antica padrona di casa aveva “intriso” il luogo come fosse una specie di “spirito del luogo” ?
Solo recentemente – dopo la pubblicazione del suddetto articolo sulla «percezione predittiva» – ho ripensato a quella “visione”, concludendo che forse l’associazione di pensieri e percezioni sensoriali aveva stimolato il mio cervello. Nel suo
data base c’era già tutto: la canzone, la casa, il suo micro-cosmo si sono interconnessi a livello della mia neuro-memoria e hanno “vestito” l’apparizione con una “immagine d’archivio fotografico”, facendomela percepire in forma di “allucinazione incontrollata”.

Aggiungo, però, un altro flash, recentissimo: sull’ultimo numero de «Le Scienze», a pagina 21, è stata pubblicata l’immagine di un meteorite caduto 50 anni fa circa in Australia. Confesso che, nell’istante prima di leggere il titolo dell’articolo che la trattava, l’ho “visto” come una faccia scolpita nella roccia ! Ma la ragione mi è stata subito chiara: più volte, anche ultimamente, ho avuto occasione di riflettere su alcuni casi in cui, archeologi dilettanti o anche semplici curiosi hanno interpretato forme naturali (su rocce o, talvolta, su ciottoli) come sommarie sculture preistoriche. Insomma il nostro cervello – che si è evoluto fra mille necessità vitali di dover interpretare istantaneamente scene o presenze – ha specializzato il suo neuro-archivio per poter “riconoscere ciò che già si conosce” e valutare presenze e/o situazioni se pericolose o meno: la «percezione predittiva» serve ad essere iper-prudenti o, comunque, molto accorti nel “che fare”.

LINKS

  1. https://it.qwe.wiki/wiki/Typology_(archaeology)
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Andr%C3%A9_Leroi-Gourhan#Leroi-Gourhan_e_i_metodi_di_ricerca_preistorica
  3. http://www.treccani.it/enciclopedia/henri-louis-bergson/
  4. http://www.treccani.it/vocabolario/gap/
  5. primitivo” è una parola colonialista che, antropologicamente, non ha alcun senso se non razzistico.
  6. Seth A., 2020: Il creatore della realtà, in «Le Scienze», n. 615, pp. 42-49, Milano.

LE IMMAGINI: la prima (in alto) è un’opera di Salvador Dalì, la seconda è la citata pseudo-faccia nel meteorite Murchison

 

Giorgio Chelidonio

5 commenti

  • Molto interessante. Volevo aggiungere due brevi commenti.

    1. Non è sempre semplice distinguere, ma attenzione che “percezione predittiva” è una terminologia che può essere fuorviante. “Predire” non richiede una qualche forma di “interpretazione”/elaborazione cerebrale complessa? La “percezione” in sé non è “soltanto” l’insieme dei dati “raccolti” dal mondo esterno e “trasmessi/filtrati” senza particolari elaborazioni interpretative?

    2. Mi domando quale sia il vantaggio evolutivo della “iperprudenza” — cioè se la iperprudenza comporti senza eccezioni maggiori probabilità di sopravvivenza (quindi un “vantaggio evolutivo”). Immagino dipenda dalla situazione. È meglio (Piaget) “assimilare” l’esperienza (a cui le varie percezioni contribuiscono) collegandola a una struttura cognitiva ben collaudata (“prudente”) oppure è meglio essere pronti ad “accomodare” un’esperienza in una struttura cognitiva modificata (“riformata”) che (forse) sarà in grado di liberare meglio il potenziale cognitivo della data esperienza? O forse è ancora meglio “rivoluzionare” la struttura piuttosto che accontentarsi di una “riforma”? Secondo me alla fine ci troviamo di fronte all’eterno confronto tra “conservazione/prudenza”, “riforma” e “rivoluzione”. Quale approccio ha il maggiore “vantaggio evolutivo”? Secondo me dipende dalla situazione, e a volte approcci radicalmente diversi possono convivere in determinate situazioni — perché la realtà spesso è molto complessa.

  • Giorgio Saglietti

    Non pretendo di avere preparazione in argomento ma ho due cose da dire:
    primo, ho avuto l’impressione di riconoscere il fenomeno descritto quando mi è capitato di vedere da lontano una persona o una cosa e di riconoscerla, salvo che avvicinandomi mi accorgevo che era altra;
    secondo, il fenomeno descritto ha una corrispondenza con l’animismo che permette una difesa spontanea nell’uomo primitivo, avvertendo di un pericolo anche se inesistente?
    Grato se mi risponderà.

    • Giorgio Chelidonio

      Su questo genere di “impressioni” (es. il cosiddetto “dejà vu”) ci sono probabilmente due diversi tipi di approcci:
      – quello neuro-ottico (al quale ho cercato di introdurre con la mia riflessione, ma da semplice lettore
      dell’articolo apparso su “Le Scienze” che ho citato;
      – quello etno-magico che può sfumare nei fenomeni sciamanici (es. il cosiddetto “volo”), “visioni” etc.
      Il suo primo esempio può ricadere nel primo caso: ricordo un interessante schema sul “riconoscimento dei visi” inserito in un bellissimo libro: “I gesti dell’uomo” di Desmond Morris. Però è una pubblicazione degli anni ’80, un tempo precedente agli studi sul cervello avviati negli ultimi 20 anni.
      Consiglio, comunque di provare a leggere con attenzione l’articolo de “Le Scienze”: è stato anche per me sorprendente, perché dava una dimensione neuro-cognitiva a delle percezioni empiriche che avevo avuto in passato. Insomma, senza l’approccio neuro-ottico molte di queste “impressioni” resterebbero confinate nel secondo ambito, quello etno-magico.

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