Si salvi chi può

di Giorgio Monestarolo

Sulla crisi finanziaria nella quale siamo precipitati sentiamo commenti, opinioni, G20, esternazioni, decisioni a livello nazionale, europeo, di Fmi. In realtà, la verità molto semplice è che nessuno sa come uscire da questa situazione. Quello che ormai comincia ad emergere come dato di fatto, abbastanza inequivocabile, è il grido del si salvi chi può. Scopriamo infatti che nei confronti della Grecia le politiche di Merke-sy hanno ottenuto il risultato di strangolare il Paese, ingigantendo piuttosto che riducendo i fattori di dissesto economico: la cura è stata peggiore della malattia. Scopriamo che Francia e Germania, che hanno debiti pubblici enormi, di poco inferiori a quello italiano, hanno un sistema bancario infettato da titoli spazzatura, a differenza dell’Italia dove le banche hanno principalmente bond italiani ed europei fino a “ieri” sicuri. Scopriamo che ad avviare la vendita massiccia dei titoli di Stato italiani è la Deutschebank, una delle banche più infettate del sistema finanziario mondiale. Sappiamo che in sostanza, la grande politica degli statisti franco-tedeschi, è stata un ignominioso scarica barile. Si dirà, ma almeno serve a qualcosa? Assolutamente no. La Germania è da questa estate in recessione, se si guardano le statistiche sulla produzione industriale, ormai da due trimestri negative. La Francia ha varato un secondo piano di austerità, dopo quello di luglio, con tagli al welfare e riduzione della spesa pubblica per 104 miliardi di euro. Il peggioramento dei Paesi deboli dell’euro, su cui si sono scaricate le tensioni finanziarie nel tentativo dei più forti di far pagare i più deboli (una ricetta che poi ogni classe dirigente fa propria a livello nazionale) non serve a contrastare la crisi. E’ il capitalismo nella sua versione neoliberista ad avvitarsi su se stesso e i suoi alfieri non sanno che fare se non riprodurre ricette che loro stessi sono i primi a rifiutare. Oggi l’arrogante Lagarde viene in Italia pensando di farsi una passeggiata nel Cile degli anni ’70. Ma forse ha le idee un poco confuse. Chissà se le ricette del suo Fmi avrà voglia di suggerirle al suo connazionale Sarkosy, molto preoccupato di perdere la tripla A ma forse più preoccupato di andare alle elezioni nel 2012? Chiarito che Merkel e Sarkosy non sono poi tanto meglio di Berlusconi, nel senso che prima ce ne liberiamo di tutti e tre e meglio è, cosa propone l’opposizione, quella che si chiamava sinistra? Il fronte dei riformatori di sinistra si divide

in tre orientamenti.

Il primo porta avanti la brillante idea che il problema dell’Italia è che le riforme strutturali in salsa Fmi dovevamo farle prima. Adesso ci tocca farle in emergenza. Mannaggia, sarà più doloroso, ma noi ce la faremo lo stesso! Solo noi possiamo essere impopolari, fare una politica di rigore liberista, ovviamente a senso unico contro i lavoratori, magari con qualche botta all’evasione fiscale e il ritorno dell’Ici, e salvare il Paese. E’ la linea indicata da Agnelli a suo tempo per entrare nell’euro, e poi sempre rimodellata dai vari Amato, Ciampi, Prodi (con le debite differenze). Oggi questa linea si chiama Monti. Contro questa ricetta, che ha avuto l’indubbio merito di regalare per un ventennio l’Italia a Berlusconi, anche qualcuno del Pd si pone qualche dubbio. C’è aria di riscatto socialdemocratico? Qui passiamo dalla burletta alle cose serie.

Un orientamento importante ritiene infatti possibile ripianare i conti e fare una politica di sviluppo proprio abbandonando le politiche neoliberiste, riqualificando la spesa pubblica a favore della green economy “rifinanziando il debito” italiano, e non solo, trasformando la Bce in una banca centrale tipo la Fed americana. E’ la linea che fa da ossatura all’arco che punta a costituire il nuovo ulivo da Bersani a Vendola, ma è anche condivisa dalle socialdemocrazie europee. In Italia è sostenuta da una serie di economisti che va da Prodi (eurobond) a Michele Salvati o a Tito Boeri, per arrivare a quelli più “keinesiani” (cioè di sinistra nello slang degli economisti) come Felice Roberto Pizzuti oppure Gallino.

Infine, c’è un‘area che ritiene ormai impossibile saldare il debito, e che parla di default controllato, cioè di non ripagare i creditori, di uscire dalle logiche finanziarie, e ripartire sulla base di opzioni radicalmente contrarie alla crescita infinita della produzione di merci, per orientare tutta l’economia sul modello delle energie rinnovabili, del riciclo, dei beni comuni.

Queste due ultime linee, entrambe sostanziate da buoni argomenti e sicuramente più utili della minestra neoliberista temperata da paternalismo di Monti, non fanno però i conti con l’oste, cioè il capitalismo neoliberista e la sua dimensione mondiale. Non è un caso se soltanto Roubini fra gli economisti main-stream abbia previsto la fine della bolla immobiliare americana: è significativo del fatto che oggi al neoliberismo non ci sono alternative pensabili (per le classi capitalistiche). Infatti la crisi di oggi non può semplicemente essere spiegata e quindi fronteggiata se non facendo riferimento alla crisi del 1971-1973. Mi spiego. Spesa pubblica, alti salari e deficit sono stati abbandonati dai governi centrali degli Usa e dell’Europa non solo per odioso cinismo classista (cosa che c’è stato senz’altro), ma anche perché continuare a stampare moneta non aumentava la crescita e manteneva alta l’inflazione. Insomma il keynesismo è stato abbandonato dai Paesi capitalistici perché non funzionava più per mantenere gli equilibri di classe, gli alti profitti e i rapporti di potere internazionali. Le ricette di oggi, ovviamente non sono le stesse degli anni Settanta. Resta il fatto che i riformatori neo-keynesiani intanto si trovano di fronte un ambiente politico ostile: la Bce è monetarista, il trattato di Maastricht è rigido e non riformabile, i Paesi europei non sono disposti a negoziare perdite di sovranità nazionale. Insomma, manca del tutto una base giuridico istituzionale e di consenso politico per fare una politica fondata sugli eurobond. Secondariamente, chi lo dice che stampando moneta si riattivi un ciclo economico espansivo e non si precipiti nella stagflazione anni settanta? Con tutti i limiti della sua politica, che ha oscillato schizofrenicamente fra Wallstreet e politiche espansive di welfare, Obama non sta portando fuori gli Usa dalla crisi. Il ritorno di una fase acutamente recessiva della crisi è alle porte e molte cartucce (di tipo keynesiano, intendo) sono state sparate a vuoto. Certo non si può escludere, anzi sarebbe augurabile, la riuscita di una politica capace di riportare al centro il lavoro e l’equità sociale, ma i margini sono talmente stretti e le prospettive del capitalismo inteso come sistema globale sono talmente esplosive, che non ci possiamo nascondere i dubbi sulla sua praticabilità.

Le posizioni sul default controllato, con conseguente uscita dall’euro, appaiono per certi aspetti realistiche. Riprendere la propria sovranità monetaria sarebbe senz’altro meglio che farci spremere da Francia e Germania in alleanza con la nostra borghesia compradora e cialtrona. Ma i costi economici, sociali e politici di questa soluzione sono francamente inimmaginabili.

Nella pagine di Viale, di Pianta, di Perna ci si trova largamente d’accordo, ma le loro analisi non fanno i conti con la dimensione planetaria del capitalismo, con i rapporti di potere fra gli Stati, con le resistenze dei poteri economici. L’Italia non è l’Islanda e non è l’Argentina. Siamo inseriti in un contesto totalmente differente e abbiamo un peso economico non paragonabile a questi Paesi. Oltre ai rischi di insuccesso elevatissimi, un “default controllato” aprirebbe la strada a un terremoto sociale che difficilmente chi oggi lo propone sarebbe poi in grado di orientare effettivamente alla realizzazione degli obiettivi di carattere politico, economico e sociale che muovono le teorie, condivisibili, della decrescita oppure della rivoluzione verde.

Ritorno al punto di partenza. Nessuno sa come uscire da questa situazione perché siamo di fronte ad

un momento di svolta epocale. Leggere la crisi in termini puramente economici è largamente fuorviante. Il nodo da sciogliere infatti è quello di infliggere una sconfitta senza condizioni alle classi capitalistiche europee ed americane, cioè a quell’intreccio in larga misura corrotto fra finanza, grande impresa, media e politica che le piazze hanno cominciato a chiamare con l’1%. I mezzi e le modalità non si trovano preconfezionate. La soluzione inevitabilmente la offrirà la qualità del dibattito e soprattutto la qualità dell’azione della politica di massa.

LA SOLITA NOTA

In quest’articolo viene nominato Berlusconi che chi passa da codesto blog conosce come P2-1816 dal numero della sua tessera nell’organizzazione massonica segreta (poi sciolta) Propaganda 2. (db)

Redazione
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