Siamo tutte Laura Massaro

di Elena Buccoliero (*)

Sta per compiere un anno di vita il comitato «Madri unite contro la violenza istituzionale» costituito da Laura Massaro, nota per aver lottato strenuamente affinche’ il suo bambino rimanesse con lei.
Aveva ritirato la querela contro l’ex partner violento convinta dal legale, e a quel punto i maltrattamenti sono scomparsi dall’orizzonte e il Tribunale per i Minorenni di Roma ha ritenuto che il figlio, restio ad incontrare il papa’, fosse condizionato in negativo dalla mamma e dovesse trasferirsi dal padre. Una decisione presa nonostante psicologi e assistenti sociali avessero descritto l’uomo «aggressivo e persecutorio» e suggerissero di proteggere il legame affettivo del bimbo con la madre. A propria volta il padre ne chiedeva l’affido esclusivo, oppure l’inserimento in una comunita’. La Corte d’Appello minorile, con sentenza divenuta definitiva, ha stabilito che il bambino deve rimanere con la mamma.
Collocare questa vicenda in un tribunale per i minorenni e’ per me molto strano. Nei miei anni bolognesi ho conosciuto un orientamento diverso, riassunto in un opuscolo che alla domanda «Se chiedo aiuto mi porteranno via i bambini?» risponde un sicuro no, per ogni donna che sia protettiva verso i figli e in grado di occuparsene.
Eppure quello di Laura Massaro non e’ un caso isolato nella giustizia italiana ordinaria e minorile. Grazie al lavoro del Comitato, la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere ha richiesto gli atti di 572 procedimenti giudiziari. Tanti sarebbero i casi documentati nei quali donne che hanno denunciato la violenza del partner rischiano l’allontanamento dei bambini perche’ ritenute alienanti, morbose, simbiotiche e via di questo passo. Il rifiuto dei figli di vedere il padre sarebbe stato interpretato come frutto del condizionamento materno, un modo per far entrare dalla finestra quella «sindrome di alienazione parentale» (PAS) che il DSM 11 – manuale diagnostico delle malattie mentali – ha fatto uscire dalla porta, negando che esista una patologia individuabile con questo nome.
Non conosco quei 572 fascicoli, da qui l’uso del condizionale, ma che questa forma di violenza istituzionale avvenga nei tribunali italiani e’ certo. E io continuo a non capire. Se un bimbo ha paura del papa’, perche’ forzare il bambino e non, invece, chiedere al padre di riconoscere i propri errori e di superarli?
Intendiamoci: negare la PAS non esclude che i condizionamenti esistano, e in fondo tutti noi basiamo i nostri convincimenti rielaborando l’esperienza che in qualche modo ci condiziona. Peraltro anche picchiare una donna davanti ai figli e’ un modo per condizionarli. Ribattono infatti le madri: i bambini non vogliono incontrare il papa’ perche’ e’ stato violento davanti a loro. Una violenza di cui gli stessi bambini sono oggetto gia’ per avervi assistito, e spesso per esserne stati colpiti direttamente.
Che cosa accade, dunque? La donna avanza una querela contro il maltrattante e questo da’ impulso ad un procedimento penale. Poi, non volendo piu’ vivere insieme, chiede – o entrambi chiedono – la separazione o di regolare l’affidamento dei figli, e da qui un procedimento civile. Sulla base della Convenzione di New York – che è legge per l’Italia dal 1991 – e delle norme successive, i bambini dai 12 anni in avanti (ancor prima se capaci di discernimento) hanno il diritto di essere ascoltati dal giudice. Per quanto ne so, nei tribunali ordinari accade raramente, e comunque ci sono gli infradodicenni per i quali prendere decisioni. Si procede affidando una Ctu (consulenza tecnica d’ufficio) a uno psicologo giuridico, affinche’ valuti la situazione e indichi il migliore affidamento dei piccoli.
Ora, se come spesso accade il giudice civile chiede al consulente di ignorare i maltrattamenti, in quanto non ancora confermati da sentenza, e’ evidente che la valutazione sara’ scollata dalla realta’. Le eventuali aggressioni non sono soltanto comportamenti da valutare in sede penale, sono un’esperienza tangibile nei pensieri e nelle emozioni delle persone coinvolte. Non capirlo e’ una miopia che conduce a decisioni violente, come concludere che il bambino ha paura del papa’ per colpa della mamma e per questo deve abitare con il papa’. E d’altra parte, che motivazione si potrebbe pensare, se non la perfidia delle donne, una volta che i maltrattamenti siano stati esclusi all’origine?
Il senatore Simone Pillon aveva tentato di fissare questo percorso mentale. Il disegno di legge non e’ passato ma, a quanto pare, tanti tribunali lo stanno applicando, con il plauso di parte dell’opinione pubblica. E’ un fatto molto grave. Da’ il segno di quanto il peso della violenza familiare sulla crescita dei bambini sia misconosciuto, nella cultura diffusa e in quella giudiziaria.
Le conseguenze sono molteplici e pervasive. Non di rado, nelle separazioni, l’avvocato suggerisce alla donna il ritiro delle querele per mostrare al giudice la disponibilita’ a non accanirsi sul passato. Del resto e’ frequente che le querele vi siano da ambo le parti: da una parte le botte, dall’altra l’allontanamento dei bambini, la sottrazione di beni o altro. Aggiungiamo il fatto che una separazione consensuale e’ piu’ rapida e meno costosa di una giudiziale, quindi piu’ conveniente per tutti.
Il ritiro della querela pero’ interrompe quasi sempre il procedimento penale (solo per le violenze gravissime si va avanti d’ufficio) e invalida la testimonianza della donna in sede civile. Quelle umiliazioni, quei lividi, quelle fratture, dal punto di vista giudiziario scompaiono: e’ come non fossero mai esistiti. Si riducono le possibilita’ di proteggere donne e bambini da ulteriori violenze; non si possono emanare ordini di protezione, o stabilire incontri protetti padre-figlio, se manca l’indizio che qualcosa di grave sia gia’ avvenuto.
Ulteriore conseguenza, questo orientamento di parte della magistratura fa si’ che le donne diventino sempre piu’ restie a denunciare per paura di perdere l’affidamento dei figli, cosi’ non si proteggono e non proteggono i loro bambini.
Leggo su Il Fatto Quotidiano un inquadramento ancora piu’ ampio, secondo cui dietro tutto questo ci sarebbe un disegno complessivo di stampo maschilista per rimettere le donne al loro posto, presumo tra cucina e camera da letto. Ancora, il settore prevalente della psicologia giuridica avrebbe sposato questo indirizzo e lo trasmetterebbe nella formazione di psicologi, avvocati e magistrati, assicurandosi la propria sopravvivenza e generosi incassi (per una consulenza tecnica, anche 8-10mila euro).
«Siamo tutte Laura» si legge sui cartelli delle manifestazioni del Comitato. Personalmente sono molto contenta che questo comitato ci sia, ritengo porti avanti una lotta necessaria, fondata, giusta. Sono sempre perplessa quando le rivendicazioni vengono urlate. Mi sembra si confezioni una griglia di lettura del reale dietro cui e’ facile nascondersi. Ho conosciuto madri maltrattate che erano anche – e indipendentemente dalle violenze subite – maltrattanti, o tossicodipendenti, non in grado di occuparsi dei figli in quella fase della loro vita. Voglio dire che niente e’ semplice e univoco: venire picchiate dal partner non significa automaticamente essere buone madri. Ogni caso va guardato volta per volta e in profondita’. Mi rendo conto, pero’, che in una campagna di comunicazione questi distinguo si perdono, e di fronte a un sistema giudiziario che trasforma la vita di tante donne in un ritornello senza soluzione lo dico anch’io: «siamo tutte Laura».

(*) da www.azionenonviolenta.it

 

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