Sopravvivenza e Rivoluzione

Di quale forza oscura vuol essere vittima oggi, signore?

di Riccardo Dal Ferro

 

sopravvivereDi quale forza oscura vuol essere vittima oggi, signore?
Ogni giorno un uomo a una dimensione si sveglia e sceglie l’istanza malvagia della quale essere vittima per poter rimanere perfettamente immobile. Questo enorme vittimificio che chiamiamo “società” produce ininterrottamente vittime immaginarie provenienti dai più disparati campi del sapere: psicologia, politica, economia. La lezione di Vico, ovvero che “questo nichilismo che ci piove sulla testa è risultato del mondo così come ce lo siamo costruito noi” passa inosservata, inascoltata, ignorata.
Qui non si tratta solo di restituire il dubbio privilegio alle vere vittime, quelle che ogni giorno vengono realmente mutilate della capacità di raccontarsi. Qui si tratta di mettere in discussione un paradigma sociale che ha radici molto più profonde rispetto al nostro quotidiano sentimento.
Il vittimismo trascendentale risponde infatti a tre bisogni primari: l’identità (se sono una vittima so perfettamente da dove vengo), la verità (la vittima ha per statuto divino la verità in tasca e non può per nessun motivo essere contraddetta) e innocenza (se sono vittima è perché un malvagio mi ha fatto diventare tale senza che ne avessi colpa). Il vittimismo trascendentale, sia ben chiaro, esula dal concetto di “vittima della storia” così come viene proposto. Anzi, il vittimismo trascendentale è proprio ciò che favorisce la creazione di nuove vittime della storia. Infatti, da dove nasceva la fabbrica di cadaveri nazista se non dal concetto di “recuperare qualche cosa che ci hanno sottratto”? Proprio nel concetto di “vittima” si annidava la retorica hitleriana (i tedeschi umiliati con Weimar, la germanicità mutilata con l’internazionalismo, i risarcimenti iniqui dopo la Prima Guerra Mondiale). In questo modo, ogni atrocità nasce dal “sentirsi depredati da qualche cosa”, da innocenti, e dalla volontà di ricercare in quella mancanza un’identità che ha come fondamento la verità inalienabile della vittima.
Non siamo più sopravvissuti, ma vittime. In quanto tali, non vogliamo più la Rivoluzione, ma un Risarcimento.
Non è forse tutta la retorica politica contemporanea figlia di questo concetto? Ogni comizio avvenuto negli ultimi cento anni (sì, a partire dal balcone mussoliniano) è impregnato del Discorso della Vittima: “Ci hanno ingannati/truffati/defraudati e NOI siamo qui per riprenderci ciò che è nostro, da vittime!”, discorso peraltro sempre più presente nella bocca dei carnefici.
Nietzsche aveva ben chiaro questo meccanismo e proprio in questo corto-circuito si riconosce la “morale dello schiavo”, quella secondo cui non si agisce soltanto nel nome di una castrazione: “Subisco, dunque sono” sembra dire la vittima trascendentale, diffondendo il contagio che impedisce all’uomo di trovare la sua vera vocazione, ovvero: “Agisco, dunque sono”. La “morale dello schiavo” è l’atteggiamento nei confronti della realtà che ci vede eternamente succubi di un significante universale, di una legge divina, di un peccato originale e che il cristianesimo, lungi dall’averci sollevato da questo fardello con la crocifissione, ha impresso indelebilmente nella nostra anima trattandoci come i figli ritardati della creazione: “Faccio io, voi non siete capaci” sembra dire Gesù prima di spirare per i nostri peccati. Ancora una volta, la storia si dipana come la sottrazione di una sovranità, persino quella di sacrificarci per una colpa, di pagare per un debito.
Nel 2015 la retorica è rimasta la stessa. Slogan come “Riprendiamoci ciò che è nostro” sottintendono che qualcuno diverso da noi ce l’abbia sottratto (lo straniero, Satana, il cinese o il malvagio operatore di Wall Street, icone intercambiabili); “Restiamo umani” è pregno di una critica alla tecnologia, come se la tecnologia non fosse emanazione del nostro stesso essere umani; infine, “L’Italia cambia verso”, in cui ogni declinazione dello slogan è stata improntata sull’incolpare “altri” che hanno rovinato chissà quale paradiso perduto. E la lista è lunghissima, dalle motivazioni che spinsero tanto Berlusconi quanto Grillo a scendere in politica, fino ad arrivare ai casi di Corona o dell’11 settembre. La vittima trascendentale è ovunque.
La crisi economica, ultimo esempio, costantemente mitizzata come un tuono celeste voluto dagli dei dell’alta finanza dei quali noi, innocenti e ignari, saremmo le vittime. La retorica della vittima trascendentale pervade ogni discorso pubblico e ormai inizia a contagiare anche la vita privata, cosa che rende sempre più difficile ragionare con chi è intimamente convinto di essere nel giusto nonostante ogni evidenza critica ci esponga tutti, nessuno escluso, come colpevoli. La vittima non conosce contraddittorio.
Bisognerebbe ritornare a quel capolavoro inaccettabile intitolato “I sommersi e i salvati”, testamento spirituale di Primo Levi che si sottrasse, prima di gettarsi tra le braccia della morte, alla retorica della vittima, proprio lui che era stato vittima del sopruso dei soprusi, ovvero l’olocausto nazista. Bisognerebbe insegnare a scuola il concetto di “zona grigia” per evitarci l’incombenza di considerarci “bianchi” in un mondo di “neri” (o viceversa, e non solo con un connotato razziale). Bisognerebbe renderci conto che il mondo lo facciamo e lo disfiamo noi, ma che per “rifarlo” c’è bisogno di una presa di coscienza: il vittimismo trascendentale ci impedisce di agire, e l’agire è l’unico modo per rimettere insieme i pezzi di un mondo disintegrato dalla stasi.
Non siamo vittime, siamo sopravvissuti. E un sopravvissuto ha persino la possibilità di essere colpevole, inaccettabile, maledetto e forse dannato. Non abbiamo bisogno di identità, ma di Rivoluzione, perché l’identità, che sia della vittima o del carnefice, ci spinge a reiterare i meccanismi che ci rendono ciò che crediamo di essere, abbandonandoci quindi in una stasi metafisica. Non vogliamo la verità assoluta che arriva sempre troppo tardi per poter fare qualcosa, vogliamo le verità frammentarie e parcellizzate che entrano in conflitto tra loro per rimettere in movimento il discorso della storia. E se quelle verità risulteranno inaccettabili, brutte, parziali, allora ci penserà la storia stessa a ricucirle tra loro per darci un nuovo destino, una nuova immagine del mondo (ancora meglio: un’immagine del mondo nuovo). Non vogliamo l’innocenza poiché non siamo innocenti e, guardando bene a come funziona l’universo, oserei dire che l’innocenza assoluta non esiste se non nella fantasia degli scrittori. Vogliamo sporcarci le mani, vogliamo mettere le dita nei meccanismi del mondo, deviarli, vedere cosa succede dopo che abbiamo sovvertito gli ingranaggi. Vogliamo sperimentare liberamente, cambiare, mutare. Vogliamo “diventare” umani, non restare tali, perché umano non è ciò che subisce passivamente e che nel ruolo vittima re-agisce; umano è ciò che si trasforma agendo, ciò che sopravvive, che rivolge, stravolge, sconvolge.
Se davvero vogliamo fare qualcosa durante questa breve permanenza in un’epoca così disgraziata, dobbiamo smetterla col sentirci succubi di un dio onnipotente, da schiavi, guardare verso l’alto e, sentendoci figli illegittimi di un dio inconsistente, urlare: “Sono ancora qui!”
Insomma, sopravvivere e fare la Rivoluzione, prendendoci sulle spalle tutte le conseguenze che questo inaccettabile e pericolosissimo gesto comporta.
Nel frattempo, se possibile, farci una risata colpevole.

Riccardo DAL FERRO

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