Sotto il baobab a Palermo

Cronaca di un breve viaggio: fra sudanesi tenaci, servizi igienici rotti, solidarietà e persino discussioni sullo yoga (*)  

Un novembre freddissimo. Capita persino in Sicilia.

Arrivo in via Boito, angolo via Sgambati, a Palermo. L’ex scuola pubblica occupata da qualche tempo ora si chiama Baobab.

Qui ci sono rifugiati sudanesi. Alcuni li ho incontrati anni fa. Vado a sentire le loro storie, i loro progetti.

Fuori c’è movimento. Molti sacchi di rifiuti ma anche di vecchi “doni” (che però non servono e occupano troppo posto) sono stati allineati in bell’ordine sul marciapiedi davanti a Baobab. Gli operatori della raccolta rifiuti sono stati avvisati ma finora non si sono visti; così fra gatti, cani, curiosi e vandali ora quei sacchi cominciano a ingombrare.

Arrivando a Baobab incrocio un giovane architetto venuto a verificare cosa si può fare nell’immediato per le stanze “mal messe”. C’è anche un rigattiere: chi a Palermo gira con l’Ape espone il cartello «faccio sbarazzi» cioè sgombera cantine, case, garage per pochi soldi e poi si sbarazza delle cose portate via. Lui regala alcuni mobili e tavoli ai sudanesi. «Grazie ma questo armadio è troppo grande per noi».

Oggi è qui anche un ragazzo brasiliano: anni fa è stato ospitato quando era in difficoltà. Adesso che si è sistemato “restituisce” la solidarietà e si dà da fare in ogni modo per alleviare la fatica del vivere a chi sta in via Boito (decisamente non un grand hotel) fra lavori saltuari e progetti più ambiziosi.

Sulla porta d’ingresso un cartello (intitolato «Il centro sociale») puntualizza: «volendo essere in regola con la normativa gli utenti possono stare da ore 16 a 23,30. I minori fino alle 20. Si prega di non insistere».

Fra mobili e via-vai, entro a Baobab. A sinistra un volantino. A destra un pannello: «benvenuti alla rinascita del centro sociale Baobab».

Comincio le mie chiacchiere con chi oggi è qui. Sempre interrotti per mille motivi, soprattutto da amici (sudanesi e non solo) di passaggio e italiani solidali.

«Senti, i nostri nomi non hanno importanza. Siamo come tutti i sudanesi che sono qui ma delegati a parlare con chi chiede notizie, soprattutto perché parliamo meglio l’italiano».

Dal 2003 a oggi lo spazio di via Boito è cambiato: «prima qui erano ospitati i profughi sudanesi e un collettivo di ragazzi palermitani portava avanti attività culturali e musicali. Una pacifica convivenza. Poi la richiesta degli italiani di separare i locali con un muro e di avere due ingressi separati. Noi abbiamo chiesto “perché?” e non abbiamo avuto risposta, Allora abbiamo detto: “per 10 anni qui c’è stata una sola porta e noi vogliamo continuare così oppure spiegateci”. Nessun dialogo, se ne sono andati».

Chiedo se l’esperienza in comune è chiusa.

«Non lo sappiamo, i ragazzi italiani sono andati via senza spiegazioni».

Voi ora quanti siete?

«Una ventina di fissi, quasi tutti sudanesi. Ma ci sono anche un ghanese, un iraniano e un vecchio amico italiano che non ha dove dormire. Per noi le porte sono aperte, nei limiti del possibile e dello spazio. Insomma chi ha bisogno di dormire qui trova qualcosa: non sempre un letto, a volte solo un materasso».

Chiacchierando mi mostrano tutte le stanze. Alcune a posto, un paio davvero mal messe. «E’ anche questione di igiene» dicono. «E dignità» aggiunge un altro.

Ma per voi questo non è solo un dormitorio. Che progetti avete?

«Noi da Palermo abbiamo avuto la cittadinanza, cioè è stata accolta la nostra richiesta di asilo e di questo siamo grati. Ma i diritti non li abbiamo ancora avuti. Ora chiediamo alle istituzioni di regolarizzare la nostra situazione: non è solo un problema di acqua e luce ma anche di pulire bene i locali rovinati e di aggiustare alcuni muri. Possiamo farlo noi, anche con l’aiuto di amici italiani, ma abbiamo bisogno di materiale oltre che di autorizzazioni».

Non state chiedendo la Luna o il Sole.

Tutti ridono, poi si fanno seri. «Chiediamo solo che questo posto continui a funzionare e che si aggiusti quel che negli anni è venuto giù. Soprattutto perché in questo spazio vogliamo allargare la solidarietà e l’incontro. Nel quartiere molti italiani e anche srilankesi ci chiedono di utilizzare Baobab per iniziative comuni e noi ne siamo ben felici».

Che altro?

«Per esempio un piccolo ufficio di collocamento per il quartiere: insomma chi ha bisogno di aiuti a giornata viene qui e trova qualcuno. Non è la Luna come dici tu e neppure la carta di cittadinanza ma una fratellanza concreta sì. Questo per noi è importantissimo».

Ma non potreste utilizzare anche il bar e la cucina per chi vuol mangiare?

«Il bar sì, anche se è piccolo. La cucina no, come vedi (mi mostrano i locali, uno per uno) c’è solo un piccolo fornello, non è un posto per preparare grandi pranzi. Qualche volta cuciniamo per chi viene qui alle feste o ai funerali ma è una eccezione e poi sono poche persone».

La sala grande?

«E’ lì che vogliamo fare un luogo di dialogo culturale. Dobbiamo sistemarlo ma prima è necessario chiarirci con l’istituto case popolari perché loro dicono che bisogna sistemare il tetto, così è pericoloso. E poi vogliamo fare una biblioteca, aperta a tutti».

«Alcuni sono lavori relativamente piccoli» mi conferma l’architetto “solidale”– un giovane di Palermo – che incrocio con il classico metro in mano. «Gli impianti elettrici sono a posto, basta un pannello per chiuderli. Metà di bagni e docce e un paio di stanze vanno rifatti ma sono lavori che si possono fare anche in auto-costruzione. Il tetto? Non so, non ho ancora guardato per bene».

«Il fratello qui non parla italiano ma è un bravissimo muratore» e me lo indicano: «con lui possiamo sistemare bagni e stanze da noi ma non abbiamo i soldi per i materiali».

Quanta gente gira qui?

«Dipende. Come ti abbiamo detto, di notte siamo una ventina e di giorno qualcuno in più. Ma può capitare che altri fratelli africani in giro per lavoro passino qui per dormire o lavarsi o per lasciare le loro cose. Insomma è anche un punto d’incontro, di transito e un piccolo magazzino. I tavoli e i piccoli armadi che scaricavamo prima serviranno a questo, vedi? Per non lasciare le cose personali in terra».

Cos’altro serve?

«Beh noi chiediamo un maggior coinvolgimento. Corsi di italiano ma anche educazione sanitaria e alle leggi italiane. Sappiamo che in Spagna o Francia dove si dà asilo ai profughi queste sono le prime attività. Perché qui no?».

Uno dei miei interlocutori si accalora sulla questione della lingua.

«Ma a te non sembra strano che nelle ex colonie dell’Italia si parli così poco la vostra lingua? Secondo me è lo specchio di quella mancanza di comunicazione che affligge molti italiani verso di noi».

Aggiungo «e forse difficoltà a comunicare fra noi, cioè anche fra gli italiani». Si ride insieme.

Fra le interruzioni la più sorprendente (almeno per chi, come me, qui è un forestiero) è l’arrivo di Edimar: brasiliano da anni a Palermo, maestro di yoga ma anche cantante, ballerino e per un periodo giornalista. Lavora con la Consulta della cultura di Palermo e vuole portare a Baobab corsi gratuiti di yoga. Il suo dialogo con i sudanesi presenti è sorprendente, ai limiti del “non credibile” per chi ha in testa stereotipi. A esempio due ragazzi sudanesi si lanciano in un lungo elogio della medicina naturale e dello yoga rispetto ai farmaci. Si ragiona di «azione condivisa», di «sostituire l’amore all’odio», di «fare da soli, insieme si può tutto».

La mattinata va a concludersi. Ultime chiacchiere con i miei interlocutori.

Chiedo: come vi muoverete?

«Noi vogliamo trovare il modo giusto per farci sentire, senza gridare se possibile perché siamo gente tranquilla. Vogliamo essere invitati nelle sedi dove poter essere ascoltati. Meglio se possiamo andare tutti ma altrimenti nominiamo un delegato o due».

Il nome è Baobab, perché?

«Un grande albero, è la vita. Dà ombra, cioè accoglienza. Ci si portano acqua e cibo per stare insieme per riunirsi. In concreto qui vogliamo fare qualcosa insieme con il quartiere, con la comunità ghanese, quella brasiliana, noi e gli italiani». Di nuovo sottolineano con forza: «Dialogo culturale è l’obiettivo. Un posto aperto. Anche per questo facciamo vedere a tutti come viviamo, non lo facciamo solo per te. Ma questo deve essere anche un posto per la politica: noi siamo scappati da un luogo senza libertà, capisci?».

Si accende una lunga discussione sul Sudan (anzi i due Stati in cui il Sudan oggi è diviso) che vale la pena almeno sintetizzare. Per esempio: «gli italiani credono che il Sudan sia povero ma invece è ricco; ma purtroppo la popolazione viene spogliata di tutto» è un punto condiviso. E poi: «dietro i nostri conflitti ci sono le super-potenze, Usa e Cina». Ancora: «Sudan significa 595 tribù con 590 lingue, non è facile mettersi d’accordo. Gli inglesi erano stati bravi ad avvantaggiarsi di queste divisioni e anche oggi vengono fomentate da chi vuol rapinare le nostre ricchezze». D’accordo pure che «la divisione in due Stati l’hanno calata dall’alto, senza sentire la gente».

Domando quale sia la soluzione: identità araba, africana o mescolanza?

«Melting pot senz’altro. Come negli Usa. C’è un futuro da costruire insieme: dividersi in bianchi, neri, gialli o per religioni è assurdo più che mai. Dobbiamo lavorare tanto, tutti. Ma insieme».

Ed è chiaro che parlano di Palermo, del Sudan e insieme di tutto il mondo.

(*) anche questo mio pezzo è stato ospitato, come il precedente, su «Corriere delle migrazioni» che vi consiglio di seguire con regolarità. (db)

Redazione
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