Sterili tentativi di unificare l’opposizione fuori dal Nicaragua

La frantumazione degli anti-orteguisti.

di Bái Qiú’ēn

La realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va. (Giorgio Gaber)

Dopo cinque anni dalle proteste del 2018, l’opposizione nicaraguense è frantumata e dispersa in un ventaglio di posizioni anche assai distanti tra loro sulla via da percorrere contro la coppia regnante Ortega-Murillo e la relativa casta. Nell’intento di formarne un inizio di unità, dal 28 giugno scorso per quattro giorni si sono riuniti a Houston, in Texas, alcuni personaggi della diaspora, con l’intenzione dichiarata di costruire un percorso di creazione di un’opposizione credibile, superando le divergenze ideologiche per arrivare a «una soluzione pacifica alla dittatura». Ennesimo “esperimento” dopo i numerosi miseramente falliti per una serie di cause più che evidenti, derivanti dalla congenita dinamica autoreferenziale: dalle diatribe politiche alla lotta per la leadership.

La denominazione provvisoria di questo tentativo è «Monteverde», dal nome della località costaricana nella quale, nell’ottobre 2021, si incontrò un minuscolo gruppo di esiliati: otto, per la precisione. Da allora a oggi è sopravvissuto in forma più o meno clandestina e, stando alle scarse informazioni disponibili, attualmente i “membri” sono una cinquantina (tutti a livello individuale, per quanto con legami più o meno organici a svariate organizzazioni), essendosi aggiunte parecchie delle 222 persone scarcerate e spedite in aereo a Washington il 9 febbraio scorso.

L’incontro di Houston è stato gestito in totale segretezza, sia nella fase della convocazione sia in quella dello svolgimento. Già questo la dice lunga sull’obiettivo dichiarato di «cercare una soluzione pacifica alla dittatura e per la costruzione di una società democratica in Nicaragua». Proprio questa mentalità carbonara, che poteva avere un senso quando queste persone si trovavano nel Paese (molte di loro incarcerate), unitamente all’incapacità di articolare un credibile programma politico, indicano l’inesistenza di qualunque possibilità concreta di radicamento nella società. Dichiarando di «non pretendere al monopolio dell’opposizione o alla supremazia» e di aver discusso nella quattro giorni «della formulazione di una proposta di soluzione civica e democratica alla crisi in Nicaragua», con una notevole enfasi chiedono «ai cittadini di essere attori del cambiamento e di unirsi per costruire un Nicaragua libero, con giustizia e democrazia». A parte la notevole fumosità generica di queste parole, ci pare evidente che la strategia e il programma politico di un movimento che si dichiara democratico e plurale non possa essere tenuta segreta a coloro ai quali si rivolgono.

Sarà pure un parallelo forzato, ma la località in cui sorse questo gruppo, tra le province di Puntarenas e Alajuela, ospita una riserva naturale caratterizzata dalla costante nebulosità. Ben diverso e articolato era il Programa historico del FSLN del 1969, ma la storia non si ripete.

Le diversità politico-ideologiche tra i vari personaggi che fanno parte di questo “gruppo” sono spesso troppo profonde per raggiungere l’obiettivo sebbene, stando alle loro stesse dichiarazioni, «Monteverde» è un cammino che si sta percorrendo, non un punto di arrivo. Lungo questo percorso, però, ci pare che si dimentichi una regola fondamentale della lotta politica in qualunque tempo e a qualsiasi latitudine: nessuna avanguardia può trionfare senza il sostegno convinto e fattivo delle masse popolari. La stessa Rivoluzione Popolare Sandinista lo attesta senza ombra di dubbio.

Non è irrilevante notare che una componente fondamentale delle proteste del 2018, gli studenti, si sono rifiutati di partecipare a questo gruppo, stando alle dichiarazioni ufficiali dell’Alianza Universitaria Nicaragüense (AUN), sorta con l’obiettivo di promuovere la partecipazione e realizzare un mutamento nella cultura politica del Paese. Pur essendo stati invitati all’incontro, hanno deciso di non parteciparvi, dichiarando che «non crediamo in questo spazio» poiché «Monteverde non è un’opzione realistica», senza dubbio a causa delle faide intestine nelle varie formazioni, molte delle quali risalenti addirittura all’epoca immediatamente successiva all’Indipendenza dalla Spagna (15 settembre 1821).

Dal canto nostro, riteniamo che la via migliore per ricostruire lo Stato di diritto in Nicaragua e riprendere il cammino della Rivoluzione interrotto nel 1990 e tradito dal 2007 a oggi non sia quella degli appelli o delle chiacchierate appassionate (men che meno dei veti incrociati), bensì che passi forzatamente per l’impegno diretto degli ex combattenti storici sandinisti e della militanza di base che hanno ormai abbandonato la convinzione che la coppia presidenziale e la casta che la circonda sia realmente democratica, progressista e socialista. Dal 2007 a oggi, sono sempre più evidenti i tratti autocratici, neoliberisti e conservatori delle scelte politiche e sociali della pretesa e autoreferenziale «seconda fase della Rivoluzione», con un radicalismo basato su semplici parole che nulla hanno a che fare con un progetto di società socialista né di progresso sociale ed economico del Paese, mentre nei fatti si applicano le ricette neoliberiste del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. La cosciente tecnica della casta è quella di coinvolgere i militanti sandinisti di base, con il solo scopo di diluire le responsabilità delle scelte compiute.

Se dovesse tornare al governo la destra picapiedra non solo avrà un atteggiamento di vendetta nei confronti della casta attualmente al potere, ma è assai probabile che possa intraprendere una vera e propria “caccia generalizzata al sandinista” per raggiungere l’obiettivo della scomparsa dell’altro e tentando di distruggere ciò che fu la Rivoluzione Popolare trionfante nel 1979. È tipico e ben noto il meccanismo del bambino e dell’acqua sporca. Già nel 2018 alcuni oppositori erano passati dalla distruzione dei manifestini elettorali con i volti della coppia regnante affissi ai pali della luce e alle fermate dei bus all’imbrattamento dei cippi lungo i marciapiedi che ricordavano i caduti nella lotta antisomozista, come se costoro fossero responsabili delle scelte scellerate di Ortega e Murillo che insistono a mascherare con la retorica la svendita del passato rivoluzionario sull’altare del potere familiare.

Per questo, i tanti veri sandinisti dovrebbero iniziare un percorso politico per riappropriarsi di ciò che fu il FSLN, oggi monopolizzato da personaggi che non incarnano più il sogno libertario delle origini, per quanto continuino a diffonderne un’immagine artefatta blaterando di sovranità e di autodeterminazione, con un antimperialismo retorico e di facciata che si scontra frontalmente con gli stretti rapporti neoliberisti intrattenuti con l’Impero (primo partner economico e commerciale).

Non abbiamo dubbi che la militanza sandinista non più totalmente omologata e ciecamente obbediente preoccupi seriamente il vertice del partito-Stato: stante le tensioni irrisolte tra la base e il vertice, con una smaccata attitudine manipolativa dall’inizio del 2022 si susseguono infatti reiterati messaggi incitanti la base a mantenersi unita per «trasformare sempre in meglio il Nicaragua con Daniel e Rosario alla testa». Persino nelle istituzioni la slavina inizia a preoccupare seriamente, non essendo più sufficiente la remunerazione del consenso (in varie forme e modi): dal 2018 sono aumentate costantemente le “defezioni” all’interno della stessa Policía Nacional che, in base alla Costituzione è «professionale e apartitica» (art. 97) e soggetta soltanto alla Costituzione stessa. Con lo scopo evidente di evitare la valanga di poliziotti che sono emigrati all’estero (soprattutto negli Stati Uniti) e una possibile insubordinazione, il 5 luglio l’Asamblea Nacional ha approvato una riforma costituzionale che recita: «La Policía Nacional dipende dall’autorità esercitata dal presidente della Repubblica nel suo ruolo di capo supremo». A tutti gli effetti, si tratta soltanto della presa d’atto di uno stato di fatto, poiché da tempo la polizia non dipende più dal ministro dell’Interno. Una modifica è pure stata fatta alla legge sul funzionamento di questo organo, prevedendo non solo che chiunque «disobbedisca a un ordine dei suoi superiori sarà sanzionato con una pena dai sei mesi ai due anni di carcere» ma che «chi abbandona il servizio, ovvero diserta, sarà sanzionato con una pena dai due ai tre anni di carcere».

Mentre la realtà socio-politica interna è sempre meno gestibile è indubbio che le sfide si ingigantiscano nel momento in cui l’opposizione è dispersa in diversi blocchi con diffidenze reciproche (e pure con tratti di odio implacabile), oltretutto, al di fuori del territorio nazionale: secondo gli ultra-destri residenti a Miami, «Monteverde» è monopolizzato da personaggi di sinistra (per quanto “riformati” nell’attuale Unamos, ex MRS), nonostante che i suoi esponenti più noti siano di centro-destra, a partire da alcuni ex precandidati alla presidenza nelle ultime elezioni (Juan Sebastián Chamorro, Medardo Mairena, Félix Maradiaga e Miguel Mora).

Persino alcuni componenti ultra-destri di «Monteverde» vedono come fumo negli occhi la partecipazione al gruppo di personaggi come Luis Carrión Cruz, uno dei nove comandanti della Rivoluzione ed ex viceministro dell’Interno. Non gli negano il diritto di partecipare, ma «che lo faccia seduto nelle ultime file, non davanti, non dirigendo», ritenendo che il ruolo da lui ricoperto negli anni Ottanta «lo esclude dal processo per l’unità». Un veto a prescindere, estendibile ai militanti sandinisti di base (con la scusa delle possibili infiltrazioni).

Grosso modo la stessa posizione vale per la presunta ma non provata partecipazione di Humberto Ortega, il fratello minore di Daniel: secondo alcuni sarebbe addirittura la mente dietro la formazione di questo gruppo, mentre secondo altri l’ex ministro della Difesa non ne fa parte.

Stando a questa visione manichea e continuando a parlare di «dittatura sandinista» senza fare alcuna distinzione tra i tanti militanti critici e la casta al potere, difficilmente sarà perciò possibile trovare una minima unità, al di là di dichiarazioni come: «Il dialogo e il consenso che cerchiamo si basano su democrazia, giustizia e libertà, indipendentemente dalle ideologie politiche». La loro posizione politica nei confronti del movimento sandinista e della storia rivoluzionaria del Paese non è molto distante da quella espressa di recente dalla nostra Giorgia Meloni: «Per carità di Patria non entriamo sul tema delle autocrazie, perché le lezioni da quelli che andavano a braccetto con la Cuba comunista di Fidel Castro e con tutte le altre dittature comuniste del mondo di oggi non le accetto».

Fin da dopo le proteste del 2018, nei nostri viaggi annuali nel Paese centroamericano (facendo eccezione per il periodo pandemico), spesso e volentieri abbiamo discusso di una possibile “alternativa” con numerosi militanti di base ed ex combattenti. Trovando in loro un crescente e istintivo consenso a queste nostre ipotesi, poiché conoscono assai bene l’indole revanscista della destra locale. Esiste infatti una coscienza diffusa del disastro che rappresenterebbe il suo ritorno al governo, poiché utilizzerebbe senza scrupoli né remore le leggi draconiane emanate dal 2018 a oggi: vere armi a doppio taglio che possono condurre a una situazione speculare rispetto all’attualità (eventualità che la coppia regnante e la casta non riescono neppure a intravedere, affetti come sono da un innato cortoplazismo, ossia una visione a breve termine).

Di questo possibile e non auspicabile futuro non si rendono conto neppure i corifei nostrani che proseguono nella falsa e conveniente narrazione della seconda fase della Rivoluzione e del tentato golpe blando che dal 2018 sarebbe tuttora in corso tramite le strutture della Chiesa cattolica diffuse in tutto il Paese (ultimo atto in ordine di tempo: il 4 luglio il ministerio de Gobernación ha ordinato la chiusura della brasiliana Fundación Fraternidad Pobres de Jesucristo e la confisca dei suoi beni mobili e immobili). Senza rendersi minimamente conto che stanno facendo il gioco della destra che accomuna tutto il sandinismo e tutti i sandinisti alla casta. Non occorre la sfera di cristallo: basta sfogliare le pagine web de La Prensa per rendersene conto. La solidarietà, per essere veramente tale di fatto e non solo una facciata opportunistica, dovrebbe comprendere che nell’attualità esiste uno scollamento sempre più profondo tra la base sandinista e la dirigenza del partito-Stato: sarebbe il primo passo per sostenere concretamente il Nicaragua e la sua Rivoluzione, facendole riprendere il cammino iniziato il 19 luglio 1979.

Ascoltando in svariate occasioni le critiche e i lamenti sconsolati di militanti sandinisti rispetto alla casta, potevamo soltanto dire che essendo loro il Frente Sandinista e che senza di loro il partito non esisterebbe, dovevano ponerse las pilas per riportarlo alle origini, cacciando a pedate i tanti e troppi opportunisti che oggi si annidano al suo interno.

Nel marzo scorso, un ex combattente che da giovanissimo partecipò alla liberazione di León ci disse con tono e sguardo profondamente tristi che non solo la Rivoluzione era ormai morta e sepolta, ma che lo era pure il FSLN. Sentendosi profondamente tradito dagli attuali dirigenti, aggiunse che ormai né Daniel né ancora meno Rosario erano «santi della sua devozione». Il 20 giugno 1979 questo ex guerrigliero oggi sessantenne era al fianco di Dora María Tellez, quando la Guardia si arrese ai sandinisti, oltre un mese prima della liberazione dell’intero Paese (in alcuni libri compaiono sue foto dell’epoca, nelle quali è ben riconoscibile nonostante il passare del tempo): «La Chayo indossò la divisa verde olivo solo il 19 luglio per andare a festeggiare in piazza e non ha mai sparato un solo colpo di fucile. Per questo odia tanto Dora María, Mónica, Hugo e tutti gli altri combattenti rivoluzionari».

Mentre ascoltavamo le sue parole, per una di quelle strane concatenazioni mentali che ogni tanto avvengono, avevamo percepito un’eco lontana ma evidente del cosiddetto testamento di Lenin del dicembre 1922, con nota del 4 gennaio 1923 (reso noto solo nel 1956): «Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale [dal 3 aprile 1922]. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso, ecc. Questa circostanza può apparire una piccolezza insignificante. [Ma] è una piccolezza che può avere un’importanza decisiva».

Crediamo poco nei sondaggi, ma qualcosa alle volte dicono: l’ultimo effettuato dalla costaricana CID-Gallup tra la fine di maggio e l’inizio di giugno attesta che il sostegno all’orteguismo corrisponde oggi al 16% e oltre il 70% non esprime preferenze politiche. Ammesso e non concesso che questi numeri si avvicinino alla realtà attuale, è indubbio che dalle elezioni del 7 novembre 2021 il FSLN orteguista abbia perso per strada il consenso di oltre tre quarti dei propri sostenitori (dal 75,87% che aveva).

Quanto questa delusa e scoraggiata visione sia ormai generalizzata ci è stata confermata in modo indiretto da una carissima amica originaria di Chichigalpa, la cui famiglia è composta da una ventina di persone adulte tutte profondamente legate al sandinismo (nell’epoca somozista i genitori erano collaboratori storici del Frente e rischiavano la loro vita esattamente come i combattenti armati). Alla nostra domanda su quanti di loro avevano votato nel novembre dello scorso anno per le presidenziali, la risposta immediata in puro nicaraguense è stata: «naide» (per correttezza linguistica e ortografica sarebbe «nadie», nessuno).

Riteniamo che proprio dal coinvolgimento fattivo di questa realtà popolare sempre più diffusa di malcontento e di mugugno dovrebbe prendere le mosse il mutamento, non certo da un’élite disomogenea e distante anni luce dalla realtà quotidiana delle masse (tanto che nel sondaggio CID-Gallup sopra ricordato l’opposizione nel suo complesso ha l’approvazione da parte di solo l’8% degli intervistati).

È però sempre rischioso avventurarsi in pronostici politici.

Redazione
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