«Stiamo vincendo» dice Pirro-Pinocchio Zelensky…

…e ce lo fanno credere

articoli e video di Vittorio Rangeloni, Fabrizio Salmoni, Enrico Vigna, Laura Tussi, Ugo Bardi, Giuseppe Masala, Vladimir Volcic, Manlio Dinucci, Stefano Orsi, Giacomo Gabellini, Alexander Belik, Vladimir Putin, Angela Merkel, Valerio Magrelli, Tonio Dell’Olio, Vittorio Giacopini, Nora McKeon, Luigi Ferrajoli, Laura Pennacchi, Francesco Masala, Domenico Gallo, Serge Halimi, Franco Astengo, Proletari Comunisti, Gregorio Piccin e un appello per una tregua umanitaria

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Siamo disposti a morire per l’Ucraina? – Fabrizio Salmoni

Questa è la domanda che dobbiamo porci di fronte alle pressioni mediatiche della propaganda atlantista.

Abbiamo letto le ennesime dichiarazioni di Zelensky: “Almeno sei regioni sono al freddo e al buio, non abbiamo più generatori (infatti li chiediamo alla Nato), i russi ci stanno distruggendo tutte le infrastrutture e le fonti energetiche, MA STIAMO VINCENDO”. L’evidente contraddizione è un segno paradossale che quell’uomo è malato di fanatismo e prigioniero del suo ruolo di propagandista della causa e del regime ultranazionalista che rappresenta. Forse addirittura comincia a denunciare qualche scompenso mentale.

 

Tutti coloro che seguono la situazione bellica tramite le più svariate fonti indipendenti sanno che i russi stanno lentamente riprendendosi i territori nell’est che avevano perduto con la controffensiva ucraina di settembre-ottobre e che il ripiegamento tattico sulla riva sinistra del Dnieper aveva senso dal punto di vista militare per rafforzare la difesa dei confini dei territori di congiunzione alla Crimea e quindi per avere un fronte solido garantito dalla barriera naturale del fiume e posizioni da cui inchiodare gli ucraini sulle macerie di Kherson.

 

Da pochi giorni sappiamo inoltre che la Nato sta esaurendo le scorte di armi, (potete solo immaginare la quantità di armi inviate in Ucraina fin dal 2014, cioè da ben prima dell’invasione russa?), che gli americani cominciano a innervosirsi per le continue imperiose richieste, e che per bocca della Von der Layen (notizia del 30 novembre) le perdite militari ucraine ammontano a OLTRE 100.000 uomini (svista o autorevole soffiata?) (1). Sappiamo anche che è in corso un’evacuazione da Kherson di quelle poche migliaia di ucraini (10-15.000) che non hanno seguito i 120.000 oltre le linee russe, che il regime sta “incoraggiando” i cittadini a evacuare le zone invivibili (almeno sei regioni e mezza Kiev), esodi che, dicono gli analisti, potrebbero interessare almeno cinque milioni di persone verso un’Europa già sofferente per le sanzioni autoinflitte che non è pronta ad accoglierle; sappiamo che l’Ucraina è un Paese semidistrutto e già fallito finanziariamente come Stato, e avrebbe già perso la guerra a giugno se non fossero arrivate ancora armi dall’Occidente. Be’ se questo è un Paese che sta vincendo lasciamo al senso comune di giudicare.

 

Quella dello “stiamo vincendo” è una litania che i media mainstream ripetono da quando si erano eccitati per la controffensiva nell’est. A sentire loro, gli ucraini non hanno mai smesso di “controffendere”. E’ un discorso amaro quello sui nostri media (talk show compresi) che appaiono completamente asserviti all’ala bellicista della Nato e dedicati alla propaganda di guerra. Lo dimostrano diffondendo solo le veline degli ucraini, richiedendo a ogni interlocutore di premettere sempre che “C’è un Paese invasore e uno aggredito” , un mantra dovuto per avere dignità di parola, e interrompendo a ripetizione le risposte non gradite; naturalmente è vietato contestualizzare con la narrazione dei 14.000 morti nel Donbass dal 2014 provocati dalla soldataglia neonazista o dell’estensione della Nato oltre qualsiasi assicurazione precedente ai confini della Russia. Si parla della propaganda russa contrapponendola alla nostra “libera stampa” ma di fronte alle performance dei vari Mentana, Merlino, ecc. viene spontaneo pensare che la differenza sia minima tra i due sistemi di informazione. Provate voi a dire pubblicamente che forse la Russia non ha tutti i torti. Orsini ne sa qualcosa pur avendo uno status che parzialmente lo protegge. Provate a ricordare pubblicamente che la Nato nel 1999 ha bombardato la Serbia, Paese sovrano, per ben 90 giorni costringendola ad accettare l’indipendenza di una sua provincia secessionista, tanto per dirne una (2).

 

In realtà, ciò che salta agli occhi è che la guerra in Ucraina sancisce la rottura del capitalismo globalizzato e prefigura la creazione di un sistema capitalistico alternativo con l’abbandono del dollaro, la separazione delle risorse energetiche, la differente gestione delle risorse umane (leggasi sfruttamento), con conseguenti ricalibrazioni dei “valori” e perdita di influenza e potere economico dell’Occidente (Usa in testa).

Questo è quanto si vuole impedire cercando la sconfitta della Russia. Questa è la vera posta di un gioco sulla pelle degli ucraini. Un obiettivo difficilmente realizzabile nei confronti di una nazione, la Russia, che ha ampia capacità di aggregare interessi e soprattutto è una potenza nucleare che non accetterebbe una capitolazione senza reagire. Questo lo sanno tutti ma la lobby militarista europea e atlantica sembra ancora decisa a sostenere le farneticazioni di Zelensky e a tentare la carta militare fino in fondo.

E Zelensky fa di tutto per trascinarci alla guerra mondiale con le sue provocazioni (il missile in Polonia, l’interferenza in Bielorussia, i droni esplosivi sulle basi aeree strategiche russe). Fino a quando i suoi militari sono disposti a sostenerlo? Qualcuno ci potrebbe dire se c’è un qualche dissenso nel gruppo dirigente ucraino? Quanto sostegno sociale rimane al regime con un paese distrutto e la gente al freddo e alla fame (trapelano notizie di proteste popolari a Odessa)? Quanto siamo disposti noi a pagare o a morire per quel regime? Sarebbe opportuno costringerlo alla resa prima che ci pensino i suoi con altri mezzi

(1) Affermazione subito cancellata dai file del discorso a seguito di rimproveri ucraini che non hanno mai divulgato le cifre delle perdite ma che si affrettano a correggere in 10.000/13.000 perdite, cifra che nessun analista condivide. Smentendo lo stesso Zelensky che nei giorni della controffensiva aveva accennato a numeri “da 500 a 1000 al giorno”. Facendo la media con i giorni di guerra, la cifra della Von der Leyen si avvicina per difetto alla realtà. Del resto, un riscontro indiretto proviene dall’analisi delle rispettive tattiche delle due parti avversarie: gli ucraini attaccano a folate di mezzi misti pesanti e leggeri insieme alla fanteria (battaglioni tattici) mentre i russi ne fanno strage con l’artiglieria per poi eventualmente contrattaccare quando l’attacco si sfalda o rifluisce. La prossima probabile caduta di Artemiosk (Bakmut) potrebbe essere un colpo fatale per il morale del paese.

(2) A chi è attento non può sfuggire la preoccupante sequenza di manipolazione mediatica che con il governo Draghi e la pandemia ha alzato il livello di manipolazione e controllo massifico sull’opinione pubblica. Nel nostro “libero Paese” chi si sottrae al “pensiero unico”, a torto o a ragione, viene in qualche modo penalizzato o punito.

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Donbass. La lista completa di tutti i massacri con armi NATO sui civili

La NATO ha dato il via libera alla distruzione mirata degli obiettivi civili e degli abitanti delle Repubbliche mediante le sue armi ad alta precisione

Il primo utilizzo dell’Himars MLRS sul territorio del Donbass è stato documentato il 28 giugno nell’insediamento di Pereval’sk (LNR).

Da quel giorno fino al 10 dicembre 2022 (5 mesi), sono stati effettuati un totale di 185 attacchi missilistici dall’Himars MLRS esclusivamente su obiettivi civili:

  • 34 attacchi mirati a obiettivi d’infrastrutture sociali, industriali e civili sul territorio della DNR
  • 151 attacchi mirati a obiettivi d’infrastrutture sociali, industriali e civili sul territorio della LNR..

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La superiorità morale dell’Occidente – Francesco Masala

Tutto il mondo che critica l’Occidente ha molto da imparare.

I paesi occidentali sono un esempio per tutti e certe cose che succedono nei paesi sottosviluppati (Trump userebbe un’altra parola) in Occidente non potrebbero mai succedere.

Solo due esempi.

Nei paesi occidentali un presidente non potrebbe mai avere un figlio invischiato in affari poco chiari (Trump userebbe un’altra parola) in paesi specchio della trasparenza e della democrazia. Non potrebbe mai, ma se così fosse si dimetterebbe da qualsiasi carica istituzionale, per vergogna, per onestà, per dare un esempio morale.

Nei paesi occidentali un ex presidente non potrebbe mai raccontare che l’Occidente, la Nato, l’Europa, gli Usa non rispettano gli accordi di pace (di Minsk), di cui erano garanti, ma anzi hanno fatto di tutto per costringere la Russia a fare qualsiasi cosa, magari un’invasione. Non potrebbe mai, ma se presa dalla sindrome di Cossiga, per cui qualche verità esce fuori, per togliersi qualche macigno dalla scarpa, allora, se così fosse, la guerra dell’Occidente contro la Russia terminerebbe domani, per la vergogna, per decenza, perché il mondo morale dell’Occidente è superiore a qualunque altro, addirittura nella galassia.

L’Occidente è il migliore dei mondi.

Finché dura.

 

 

Accordi di Minsk e ruolo della Germania. La risposta di Putin ad Angela Merkel

Il presidente russo Vladimir Putin ha definito “deludenti” le dichiarazioni dell’ex cancelliere tedesco Angela Merkel, che ha recentemente affermato che gli accordi di Minsk del 2015 sono stati “un tentativo di dare tempo all’Ucraina”.

“È deludente. Francamente, non mi aspettavo di sentirlo dall’ex cancelliere, perché ho sempre pensato che i leader della Repubblica federale [di Germania] fossero in dialogo sincero con noi. Sì, certo che hanno sostenuto l’Ucraina, ma mi sembrava che i leader [tedeschi] volessero sempre risolvere [il conflitto] sulla base dei principi che avevamo raggiunto, compresi gli accordi di Minsk”, ha sottolineato il leader russo dopo un vertice con i leader dell’Unione economica eurasiatica.

In tal senso, ha ribadito che Mosca “ha fatto tutto bene” in relazione all’avvio dell’operazione militare in Ucraina. Ha anche ricordato che i membri del formato Normandia (Germania, Francia) ” hanno mentito” sulla loro disponibilità a rispettare quanto concordato, mentre l’Ucraina ha ripetutamente rifiutato di attenersi alle disposizioni che cercavano di porre fine al conflitto.

“L’idea era solo quella di riempire l’Ucraina di armi e prepararla per il combattimento. Vediamo, forse ce ne siamo resi conto troppo tardi. Forse dovremmo iniziare tutto questo prima [dell’operazione]. Speravamo solo che avremmo potuto concordare il quadro degli Accordi di Minsk”, ha sottolineato.

In questo contesto, ha sottolineato che si pone la questione della fiducia che attualmente “è quasi a zero”. “Come raggiungere un accordo? Cosa negoziare? È possibile negoziare con qualcuno? E dove sono le garanzie?”, sono le domande che ha posto il capo dello Stato russo. Tuttavia, ha sottolineato che alla fine ” sarà necessario raggiungere accordi” e ha assicurato che Mosca è “aperta” a tali scenari.

Cosa ha detto la Merkel?

In un’intervista pubblicata mercoledì scorso al quotidiano Die Zeit , l’ex capo del governo tedesco ha assicurato che gli accordi in questione non solo hanno dato tempo a Kiev, ma le hanno anche permesso di ” rafforzarsi, come si vede oggi”.

“L’Ucraina del 2014/15 non è l’Ucraina di oggi. Come si è visto nella battaglia per Debaltsevo [un importante nodo ferroviario nella Repubblica popolare di Donetsk] all’inizio del 2015, Putin avrebbe potuto facilmente invadere allora. E dubito fortemente che gli stati della NATO  avrebbero potuto fare tanto quanto stanno facendo ora per aiutare l’Ucraina”, ha detto.

“Era chiaro a tutti noi” che il conflitto era congelato e la questione rimaneva irrisolta, ha proseguito l’ex presidente, aggiungendo che “è stato proprio questo a dare tempo prezioso all’Ucraina “.

Vale la pena ricordare che non è la prima volta che la Merkel si esprime in questo senso. Alla fine di novembre, ha affermato in un’intervista per la rivista  Der Spiegel  che il congelamento del conflitto raggiunto con gli accordi di Minsk ha permesso all’Ucraina di diventare “più forte e più resiliente “.

  • Angela Merkel era alla guida del governo tedesco nel 2014, quando in Ucraina ebbe luogo un colpo di stato che fece precipitare il Paese in un conflitto interno. Gli accordi di Minsk sono stati firmati nel febbraio 2015 con la sua partecipazione.
  • Il 22 febbraio di quest’anno il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che gli accordi in questione non esistono più, dopo il riconoscimento delle repubbliche del Donbass, che a settembre sono entrate a far parte del Paese eurasiatico. Secondo il presidente, gli Accordi di Minsk “sono stati uccisi” dalle autorità ucraine.

(traduzione AD)

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Per la Serbia, la situazione intorno al Kosovo “si sta avvicinando ad un punto di non ritorno” – Enrico Vigna

Il cappio intorno alle scelte del governo serbo, sta stringendosi sempre più. Pressioni, ricatti, minacce ed ora le provocazioni sempre più conflittuali e incalzanti sul terreno, in una spirale che lascia intravedere due possibilità: o l’accettazione dello status quo relativo al “Kosovo indipendente” o scenari di una nuova guerra, non certo voluta dalla parte serba.

I burattinai sono i soliti: NATO e potenze occidentali, le motivazioni sono molteplici, ma il nodo centrale porta anche in questo caso alla crisi ucraina. Da un lato si vuole far cedere la Serbia sulla questione delle sanzioni alla Russia (è l’unico paese veuropeo a non averle adottate), dall’altro c’è la questione dell’entrata del paese nella NATO, finora respinta dal governo serbo. Senza dimenticare la ricerca di una rottura della fraternità identitaria storica slava, che spianerebbe la strada per inglobare completamente i Balcani nell’alveo avvelenato degli interessi occidentali e atlantisti, che  indebolirebbe pesantemente la Repubblica Srpska della BH, dove le forze nazionali e indipendenti hanno vinto le elezioni e dichiarato apertamente la scelta di rifiuto della NATO, di amicizia con la Russia, di una strategia interna ad una visone multipolare del mondo e di integrazione con il progetto della Via della Seta cinese.

 

Che ci si trova ad un momento storico e dirompente, lo dimostra il fatto che, per la prima volta dal 1999, anno dell’aggressione alla Repubblica Federale Jugoslava, un esponente politico istituzionale serbo ha “osato” chiedere il ritorno delle forze di sicurezza serbe nel Kosovo MethoijaNon era mai successo in 23 anni

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Qual è la prossima cosa che ci arriverà addosso? Preparatevi, perché potrebbe essere una gran bella botta – Ugo Bardi

Nonostante io abbia antichi veggenti come antenati (gli “aruspici”), non pretendo di essere in grado di prevedere il futuro. Ma credo di poter proporre degli scenari per il futuro. Quale potrebbe essere il prossimo disastro che ci arriverà addosso? Suggerisco che sarà lo sconvolgimento del mercato petrolifero causato dalla recente misura di un tetto al prezzo del petrolio russo.

Vi ricordate quante cose sono cambiate negli ultimi 2-3 anni, e sono cambiate in modo incredibilmente veloce? C’era uno schema in questi cambiamenti: una parte dello schema era che dovevano essere solo temporanei, un altro era che erano per il nostro bene. Ci è stato detto che erano necessarie“due settimane per appiattire la curva“, che “le sanzioni faranno crollare l’economia russa in due settimane” e molte altre cose. Poi, i nostri problemi saranno risolti e il mondo tornerà alla normalità. Ma questo non è successo. Al contrario, il risultato è stato una “nuova normalità”, per nulla simile a quella vecchia.

Ora, la domanda più ovvia è “e adesso?” Più esattamente,“con cosa ci colpiranno la prossima volta?”. “C’è l’idea che possa esserci una nuova pandemia, un nuovo virus o il ritorno di quello vecchio. Ma no. Sono più intelligenti di così: finora sono sempre stati un passo, forse due, avanti a noi. Sono maestri di propaganda, sanno che la propaganda si basa sui memi e che i memi hanno una durata limitata. I vecchi memi sono come i vecchi giornali, non sono più interessanti. Un particolare spauracchio non può spaventare la gente per troppo tempo, e l’idea di spaventarci con un virus pandemico ha superato la sua utilità. Potrebbero averci sondato con la pandemia del “vaiolo delle scimmie”, e hanno visto che non ha funzionato. Era comunque ovvio. Quindi, ora che si fa?

Permettetemi di suggerire un possibile nuovo modo di colpirci. Forse ne avete sentito parlare ma, finora, si pensava che fosse qualcosa di marginale, non destinato a creare un’altra “nuova normalità”. Ma potrebbe. È enorme, è gigantesco, sta arrivando. È il il tetto sui prezzi del petrolio russo. L’idea è che un cartello di Paesi, soprattutto occidentali, si mettono d’accordo per vietare l’importazione di petrolio russo a meno che non abbia un prezzo inferiore ai 60 dollari al barile. Inoltre, renderà più difficile per la Russia esportare petrolio all’estero, anche nei Paesi che non aderiscono all’accordo.

Questa idea è, come al solito, promossa come un modo per aiutarci. Non solo danneggerà il malvagio Putin, ma ridurrà i prezzi del petrolio, quindi tutti in Occidente dovrebbero essere felici. Ma funzionerà davvero? A dir poco difficile, ed è probabile che i promotori lo sappiano molto bene.

Pensateci: negli ultimi cento anni non è mai successo che un cartello di Paesi intervenisse per imporre un certo prezzo del petrolio a livello mondiale. Anche durante la “crisi petrolifera” degli anni ’70, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) non ha mai fatto ciò che viene spesso accusata di aver fatto, fissando un prezzo elevato del petrolio. L’OPEC può solo fissare quote di produzione o sanzionare alcuni Paesi, ma non ha alcun potere, e non l’ha mai avuto, sui prezzi, che sono stabiliti dal mercato internazionale.

Quando i governi si intromettono nei prezzi, i risultati sono sempre negativi. In genere, i prezzi dei beni vengono fissati troppo bassi e ciò produce due effetti: la nascita di un mercato nero e la scomparsa dei beni dal mercato ufficiale. Era una caratteristica tipica dell’economia sovietica, dove i prezzi erano spesso fissati a livelli bassi per dare l’impressione che certi beni fossero alla portata di tutti. Ma non era così: in teoria, la maggior parte dei cittadini sovietici poteva permettersi il caviale venduto ai prezzi stabiliti dal governo. In pratica, questo caviale non si trovava quasi mai nei negozi. Ma, naturalmente, era possibile trovarlo al mercato nero, se si potevano pagare prezzi esorbitanti.

Oggi, intervenire per fissare un prezzo per il petrolio russo equivale a gettare una chiave inglese negli ingranaggi di una macchina enorme. Nessuno sa esattamente come reagirà il mercato petrolifero globale. L’unica cosa certa è che i russi si rifiutano di vendere il loro petrolio ai Paesi che hanno sottoscritto l’accordo. Il risultato complessivo dell’eliminazione di un grande produttore dal mercato può essere solo uno: l’aumento dei prezzi del petrolio. Esattamente l’opposto di ciò che il price cap dovrebbe fare. Ma questo è il minimo che possa accadere: gli effetti del tetto sono imprevedibili su un mercato già instabile e soggetto a oscillazioni selvagge dei prezzi. L’Europa potrebbe perdere completamente l’accesso al petrolio e andare in crisi. Le carestie sono state un evento fisso nella storia europea, potrebbero ripetersi. Cose del genere: non piccoli cambiamenti, ma cambiamenti enormi…

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L’obiezione all’industria bellica – Laura Tussi

Mio nonno materno Luigi Belluschi è un esempio di obiezione professionale all’industria bellica. Durante il ventennio fascista e sotto l’occupazione nazifascista ha lavorato come operaio specializzato, ossia gruista sugli altiforni, presso la Breda di Sesto San Giovanni. Lavorava in produzione bellica per il regime nazifascista, ma da varie fonti, come l’archivio Aned di Sesto San Giovanni, è riemerso che veniva licenziato e in seguito riassunto più volte. Era infatti un sabotatore: rallentava la produzione bellica oltre a sabotare i tralicci del telefono con i suoi compagni. I fascisti venivano a cercarlo e mia nonna rispondeva che era in “produzione bellica”. Da varie fonti, da mia madre e da mio zio,

risulta che non l’abbiano mai deportato nell’oltralpe e nei lager nazifascisti perché serviva a produrre le armi. Un lavoro estremamente faticoso e logorante sugli altiforni: lo hanno schiavizzato in Italia. Non lo hanno mai deportato, sebbene fosse comunista e avesse partecipato a Milano agli scioperi del 1943 e 1944. Era del 1904. Non apparteneva a formazioni partigiane, era un “cane sciolto”. Un Resistente e ha contribuito alla Resistenza antifascista.

Esempi di obiezione all’industria bellica

Caso significativo di obiezione all’industria bellica nel nostro Paese è quello degli 805 lavoratori delle officine Moncenisio di Condove vicino a Torino che il 24 settembre 1970 approvano all’unanimità in assemblea una mozione contro la produzione di armi dell’azienda. Il documento dice:

“I lavoratori delle officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e del disarmo li chiama in causa come lavoratori coscienti e responsabili e che la pace è supremo interesse e massimo bene del genere umano, preoccupati dei conflitti armati che tuttora lacerano il mondo, diffidano la direzione della loro officina dall’assumere commesse di armi, proiettili, siluri o altro materiale destinato alla preparazione o all’esercizio della violenza armata di cui non possono e non vogliono farsi complici. Chiedono alle organizzazioni sindacali di appoggiare la loro strategia di pace. Invitano caldamente i lavoratori italiani in tutto il mondo a seguire il loro esempio di coerenti e attivi costruttori di pace”.

Un’iniziativa che ebbe larga eco e contribuì a dare nuovi impulsi alle lotte per le conversioni a fini pacifici delle industrie belliche.

I lavoratori pacifisti obiettori alla produzione di armi

Noti sono poi i casi di singoli lavoratori che si sono rifiutati di produrre armi: Maurizio Saggioro si rifiuta di produrre componenti per armi presso la Metalli Pressati Rinaldi di Bollate vicino a Milano. Nel gennaio 1981 chiede il trasferimento ad altro reparto, ma viene licenziato.

Nel 1983 Gianluigi Previtali si dimette dall’Aermacchi di Varese contro la produzione di armamenti.

Negli ultimi anni, i portuali del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) di Genova si sono più volte rifiutati di caricare le navi di armi.

E ancora dal comitato di riconversione RWM – azienda che produce ordigni bellici e bombe – in Sardegna è nata l’idea di ridare speranza al territorio attraverso un modello di impresa sostenibile, con un’economia pulita e posti di lavoro, dove la pace si mette in rete. Come l’operaio della RWM Giorgio Isulu che circa un anno fa ha iniziato il suo nuovo lavoro nell’azienda agricola “l’Agrumeto”.

L’antagonismo sindacale all’interno dell’Aermacchi di Varese

Intorno agli anni Ottanta del 1.900 nacque, nel contesto della Aermacchi di Varese, un gruppo di attivisti antimilitaristi grazie al sostegno della FLM in un primo momento e della Fim – Cisl in un secondo momento; un gruppo informale che promosse collette di solidarietà con popoli e movimenti vittime del fuoco delle armi italiane attraverso tecniche di conflittualità non convenzionali come scioperi, digiuni e collettivi di fabbrica per giungere nel 1986 alla disobbedienza civile attraverso l’aperta adesione di alcuni suoi componenti all’obiezione di coscienza congiunta all’uso del digiuno di cinque giorni contro gli euromissili, contro la corsa al riarmo e per denunciare nel 1988 l’Aermacchi in quanto industria violatrice degli embarghi Onu contro Iran e Iraq…

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Intervista ad Alexander Belik del Movimento obiettori di coscienza russo

Arriva in Italia il leader degli obiettori russi. Insieme al Movimento Nonviolento abbiamo ospitato in queste ore la conferenza stampa di Alexander Belik, coordinatore del Movimento degli obiettori russi. Un appuntamento voluto fortemente al fine di far conoscere la voce dell’altra Russia, quella che rifiuta di imbracciare le armi.

A 50 anni esatti dall’approvazione della legge Marcora, che introdusse il diritto all’obiezione di coscienza in Italia, si è tenuta in queste ore la conferenza stampa di Alexander Belik, coordinatore del Movimento degli obiettori di coscienza russo. Un movimento nato in Russia nel 2014. L’appuntamento è stato organizzato in sinergia con il Movimento Nonviolento, compagni/e di strada di questi mesi nel sostegno e nella difesa degli obiettori russi, ucraini e bielorussi. Il diritto di obiezione alla leva militare è stato riconosciuto in Russia nel 1993, eppure la realtà è molto diversa. Secondo Alexander Belik sono circa 20.000 le persone arrestate in Russia per attivismo contro la guerra, «alcuni finiscono nei campi costrittivi per obiettori, in condizioni disumane, molti altri rimangono nascosti per paura di arresti e persecuzioni. Nel tempo i “campi di prigionia” – presenti nei territori ucraini occupati, secondo l’attivista ndr – sono aumentati. Nonostante siano illegali secondo il diritto interno russo e quello internazionale».

Oggi Belik è fuggito in Estonia ed è ancora in attesa di una decisione definitiva rispetto al suo status di rifugiato politico.

Alexander Belik, partiamo dalla sua esperienza personale: era già un obiettore prima dell’invasione russa dell’Ucraina?

Sono il coordinatore del Movimento degli obiettori di coscienza russo dal 2016 e da allora do consigli alle persone su come evitare la leva militare. Personalmente però sono un po’ come il figlio del calzolaio che gira in strada con le scarpe bucate. Neanche la mia obiezione è stata mai formalmente riconosciuta. Sono andato al comando militare diverse volte per presentare i motivi medici per cui non ero idoneo alla leva, ma ogni volta mi è stato detto di lasciare il comando perché, secondo loro, ero troppo provocatorio…

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Le armi NATO dirottate e le verità indicibili sui nazisti ucraini che verranno fuori: così finirà la guerra – Vladimir Volcic

Stiamo pur certi che se si verificherà questo scenario: improvvisamente Zelensky diventerà un criminale e verrà accusato di essere la principale causa della sconfitta avendo tradito la fiducia in lui riposta dal popolo ucraino e dalla NATO. Improvvisamente ritorneranno di attualità tutti gli articoli e le inchieste giornalistiche pubblcate fino agli inizi del 2021, riguardanti il suo network criminale finanziario offshore e scopriremo anche l’esistenza di potentati neonazisti, suoi complici…

Intanto una quantità incredibile di armi NATO giunte in Ucraina non sono arrivate al fronte ma dirottate sul mercato nero e vendute a chiunque: dalle mafie europee, ai gruppi islamici dell’Africa Occidentale persino al regime dell’Iran. Furto e vendita sono organizzati dal governo e dallo stesso Presidente Zelensky facilitato da una motivazione tecnica non di poco conto. Le sofisticate armi che la NATO invia in Ucraina non sono compatibili nell’esercito ucraino abituato ad usare armi sovietiche e russe.

Per le armi tecnologiche NATO occorrono periodi di addestramento troppo lunghi rispetto alle necessità del loro impiego sul fronte. Di conseguenza il regime di Kiev usa le armi e munizioni di modello russo provenienti dalle aziende statali dei Paesi dell’Est e in minima parte le armi NATO. La maggioranza di esse viene venduta attraverso i canali del mercato nero internazionale della armi.

Questa pratica, che fa ulteriormente arricchire l’oligarca tossicodipendente ex attore comico e la sua ristretta cerchia di fedelissimi, è conosciuta dai vertici della NATO, Unione Europea e Pentagono fin dallo scorso aprile ed è fonte di tensioni con l’alleato ucraino che il delirio guerrafondaio di Washigton e Bruxelles ha reso una figura indispensabile per la loro guerra di procura contro la Russia. Nel luglio scorso l’Interpol aveva sollevato l’allarme rispetto alla destinazione degli armamenti: nessuno aveva il controllo di dove potessero finire. Intanto nel dark web è stato possibile rintracciare lanciamissili Javelin in vendita a prezzi stracciati, prodotti dall’azienda statunitense Raytheon. Notizia ampiamente riportato da FarodiRoma.

La Russia ha sottoposto al Consiglio di Sicurezza ONU vari rapporti sul traffico di armi NATO da parte del regime di Kiev. Rapporti che sono stati ignorati mentre i media atlantisti presentavano queste denunce come “propaganda russa” tesa a screditare sia il governo ucraino che gli alleati occidentali.

Tuttavia il deep State e i politici americani hanno riscontrato sempre più difficoltà a spiegare all’opinione pubblica americana perché le armi assegnate all’Ucraina stanno affiorando a Idlib in Siria o presso le organizzazioni criminali europee. Ma soprattutto, la Casa Bianca ha inziato a temere che i sistemi tecnici avanzati statunitensi finiscano nelle mani dei principali avversari degli Stati Uniti – Russia, Iran e Cina – uno scenario molto probabile considerando il riavvicinamento senza precedenti tra questi Paesi.

Nonostante le evidenze l’Unione Europea ha dato indicazioni ai media di non toccare questo argomento al fine di non compromettere il già scarno supporto popolare a questa folle impresa militare. Questi «consigli », accettati immediatamente dalla maggioranza dei giornalisti europei, applicando forme di autocensura finanziariamente convenienti, sono anche tesi a proteggere i colossali affari delle industrie belliche europee che dall’inizio del conflitto riescono a concludere contratti milionari pagati in anticipo.

Le diverse indagini svolte sul furto e vendita di armi condotte da giornalisti e media indipendenti sono state sistematicamente ignorate per i motivi sopra descritti. Ignorata anche la denuncia di questo affare sulla pelle dei soldati ucraini da parte dei media ucraini, in particolar modo dal quotidiano Kyiv Independent .

La denuncia dei media ucraini coinvolge Zelensky indirettamente in quanto non é saggio accusare direttamente l’attuale regime filo nazista di Kiev al fine di evitare ripercussioni che potrebbero arrivare anche a compromettere la incolumità fisica dei giornalisti. Per poter parlare del scottante argomento si è data la colpa agli alti ufficiali ucraini che comandano la Legione Internazionale creata da Zelensky il 27 febbraio 2022.

Trattasi di un battaglione dell’esercito ucraino composto da volontari di tutto il mondo. Una manovra per legalizzare l’invio di soldati NATO sotto copertura di volontari (sopratutto polacchi, inglesi e americani) e di arruolare migliaia di giovani neonazisti europei compresi i neofascisti di CasaPound. Arruolamento che il governo Draghi e ora il governo Meloni hanno deciso di ingorare nonostante che rappresenti un reato secondo il codice penale italiano che può comportare fino a quindi anni di reclusione (Articolo 244 Codice Penale).

Particolarmente dettagliata l’inchiesta del quotidiano Kyiv Independent, svolta in collaborazione con il programma Superwizjer in onda sul canale TVN polacco, e basata sulle denunce e testimonianze di oltre 30 soldati mercenari – volontari stranieri che hanno presentato anche rapporti ufficiali, foto, video e file audio a sostegno delle loro accuse.

Diversi legionari affermano che le armi leggere, comprese le armi fornite dall’Occidente, sono scomparse. I legionari sospettano specifici comandanti ucraini di appropriazione indebita che non avrebbero esitato di minacciare a mano armata i volontari stranieri che ponevano troppe domande. In alcuni casi questi ufficiali ucraini avrebbero rubato anche l’equipaggiamento militare personalmente comprato dai mercenari. Alcuni testimoni affermano che, per aver segnalato le malefatte degli ufficiali ucraini sarebbero stati espulsi dalla Legione con pretesti inventati come essere spie o disertori.

Messe insieme, queste prove evidenziano che le leadership ucraina della Legione internazionale, della intelligence militare e dell’esercito ucraino sono implicate nei traffichi di armi. Le accuse di appropriazione indebita di armi sono una questione controversa in Ucraina, che dipende dagli aiuti militari occidentali per contrastare con successo l’operazione speciale di denazificazione condotta dalla Russia. La questione è emersa in dichiarazioni contrarie alle forniture di armi all’Ucraina, anche in Occidente, probabilmente nel tentativo di offuscare l’immagine dell’Ucraina e minare le forniture di armi.

I media ucraini nel denunciare questo traffico di armi cercano di minimizzare il fenomeno criminale, facendo credere che sia limitato solo alle armi leggere mentre i principali sistemi d’arma NATO donati sarebbero ben curati e utilizzati con buoni risultato contro l’aggressore russo. Affermazioni comprensibili visto il livello di censura e di pericolose ritorsioni esercitate dal regime di Kiev dove le fazioni politiche e militari neo-naziste assumono sempre più forza ma sconfessate dal Wall Street Journal in una inchiesta di Bojan Pancevski e Alistair MacDonald pubblicata il 10 dicembre scorso.

Kyiv Independent e gli altri media ucraini che si addentrano in questo argomento estremamente pericoloso devono stare ben attenti di non essere accusati di aver diffuso notizie allarmanti che potrebbero causare la sospensione anche parziale delle consegne di armi da parte della NATO. Tuttavia Kyiv Independent fornisce una notizia molto interessante. Le indagini del regime di Kiev sul traffico di armi sono condotte in collaborazione a investigatori britannici che stanno controllando in Ucraina la destinazione e l’uso della armi NATO ricevute.

I vertici della Casa Bianca, Pentagono, Unione Europea e NATO sono a conoscenza del fenomeno della vendita di armi che non si limita ad armamenti leggeri avendo a disposizione notizie più dettagliate rispetto a quelle in possesso ai media ucraini, come sanno che i furti e le vendite non sono opera di singoli ufficiali dell’esercito o dei servizi segreti ma rientrano in una vasta operazione criminale che coinvolge direttamente lo Stato Maggiore dell’esercito ucraino, il Ministero della Difesa, il governo e il Presidente Zelensky.

Al momento tutte le prove a disposizione dei paladini della Democrazia Atlantica sono tenute al sicuro dentro al cassetto. Torneranno utili qualora Unione Europea e Stati Uniti dovranno cercare una via d’uscita onorevole dinnanzi ad una eventuale vittoria militare della Russia.

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Armi italiane in Ucraina. Il “segreto di stato” aggirato dall’annuncio dell’ambasciatore francese a Kiev – Giuseppe Masala

Il governo italiano ha posto il segreto di stato sulle nuove armi che verranno inviate in Ucraina. Per fortuna l’ambasciatore francese a Kiev Etienne de Ponsin non è tenuto a rispettare il segreto di stato italiano e ha dichiarato ieri che uno dei due sistemi antiaerei SAMP-T in arrivo in Ucraina sarà inviato dall’Italia.

Il sistema antiaereo SAMP-T è un sofisticatissimo sistema missilistico dal costo (cadauno) di circa 800 milioni di euro (circa 3 ospedali, di primissimo livello) prodotto dalla francese MBDA e dall’italiana Thales Leonardo. Anche gli USA si apprestano ad inviare due sistemi Patriot per dire.

Io spero che qualcuno non abbia la pretesa che se inviamo per esempio armi nucleari all’Ucraina la Russia non ci consideri “non belligeranti” tanto a spararle sarebbero gli ucraini. No, perchè tra i nostri politici “sacchettisti” (riempitori di banconote in sacchette) ci sarebbe qualcuno in grado di sostenerlo.

Del resto, sempre più soldati appartenenti ai Paesi NATO stanno combattendo contro i russi in Ucraina. Si tratti di mercenari o di truppe regolari poco importa. L’Occidente è direttamente coinvolto nel conflitto che, ogni giorno, appare sempre più indirizzato verso l’internazionalizzazione. Il metodo per assuefare l’opinione pubblica europea all’inevitabilità e alla normalità dell’innesco di un conflitto mondiale NATO-Russia è, come al solito, quello della rana bollita.

L’asticella dell’escalation viene alzata gradualmente, poco alla volta, per fare in modo che non ci si accorga di stare irrimediabilmente scivolando nel baratro senza possibilità di ritorno. Spero di sbagliarmi ma l’impressione è che solo un miracolo possa riportare indietro le lancette della Storia. L’obiettivo della NATO è quello di smembrare la Federazione Russa in vari protettorati etnici da porre sotto controllo occidentale. I media europei e americani parlano apertamente di un futuro smembramento della Russia e sono già state pubblicate delle bozze di carte geografiche con la Russia divisa in 6-7 tronconi. La NATO non rinuncerà a questo piano, che coltiva da molti decenni e che, nel 1991, con lo smembramento dell’URSS, è riuscita in parte a realizzare. Il 1991 è stato il primo tempo, il 2022 il secondo. Naturalmente, la NATO ha fatto i conti senza l’oste. Vedremo come andrà a finire…

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La guerra in Ucraina e la “crisi alimentare”: cosa accade davvero? – Nora McKeon

Il cibo è un diritto e un bisogno umano fondamentale. Non è un caso che molti sconvolgimenti politici, nella storia, siano stati accompagnati da proteste intorno al cibo, dalla marcia su Versailles, con le donne che protestavano contro il prezzo del pane, che ha innescato la rivoluzione francese, alle rivolte del cibo nelle primavere arabe del 2011, fino a oggi, con lo spettro della crisi alimentare connessa con la guerra in Ucraina. Il cibo, inoltre, è un terreno in cui sono in gioco enormi interessi economici e geopolitici. Il cibo viene utilizzato come un’arma, dunque anch’esso è fortemente legato al tema della guerra. È sufficiente pensare agli aiuti alimentari, inviati dagli Stati Uniti a partire dal 1956, apparentemente per “far del bene”, ma in realtà per creare dipendenza da parte dei paesi destinatari e spingere al consumo di cibi non prodotti localmente, un processo di cui ancora oggi vediamo i risultati. E vedremo più avanti come oggi il tema del cibo venga strumentalizzato in relazione alla guerra in Ucraina.
Il cibo è un terreno ricco di minacce – in particolare gli interessi geopolitici di paesi potenti e lo strapotere delle corporation multinazionali dell’agribusiness. Ma è anche un punto di incontro e di pace tra popoli, società, cultura, ambiente, un terreno ricco di promesse, come i sistemi del cibo alternativi e il modello della sovranità alimentare. Queste due opzioni si confrontano drammaticamente oggi, ulteriormente complicate dalla guerra in Ucraina, intorno alla quale si scontrano interpretazioni e ricette diametralmente opposte. Per questo, con l’obiettivo di decolonizzare i nostri immaginari, provo a distinguere due narrazioni, una che ritengo falsa e l’altra che ritengo corrisponda alla realtà.

Le multinazionali dell’agribusiness e le reti alimentari locali
Da un lato, c’è il sistema alimentare globale delle corporations. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una concentrazione impressionante delle multinazionali agroalimentari, tale che i cinque più grandi commercianti di cereali, già nel 2015, controllavano il 75% del mercato internazionale. Vediamo oggi con la guerra in Ucraina le conseguenze nefaste di una tale concentrazione. Le catene globali di approvvigionamento del cibo sono sposate indissolubilmente con un modello di agricoltura industriale – vaste monocolture e grande impiego di input chimici – perchè necessitano di una grande quantità di prodotti primari tutti esattamente uguali e consegnati in tempi prevedibili: commodities, non cibo. Ci viene raccontato che questa evoluzione rappresenta il tragitto inevitabile e automatico del progresso, dal tradizionale al moderno. Ma questa è una narrazione falsa: le imprese multinazionali e questo sistema non avrebbero mai raggiunto il grado di potere che detengono senza la complicità di governi che hanno fallito nel loro compito di regolamentare le imprese e tutelare gli interessi della gente. Un solo esempio: i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale, che permettono la brevettazione di cibi industriali geneticamente modificati, premiando i prodotti artefatti dei laboratori delle multinazionali e penalizzando i contadini, che sono i veri produttori e i guardiani dei semi, senza i quali le multinazionali non avrebbero niente con cui “giocare”. Regole come queste hanno favorito le imprese e penalizzato l’altro approccio all’approvvigionamento alimentare, quello della sovranità alimentare.
Nello stesso periodo abbiamo assistito, e qui vorrei suonare una nota di speranza in mezzo a questa situazione disperante in cui stiamo vivendo, anche alla crescita di reti sempre più robuste di contadini e altri attori sociali, mal serviti dal sistema alimentare globalizzato guidato dalle imprese, i quali, dal locale al regionale al globale, hanno reagito alle conseguenze negative delle politiche globali di libero mercato. Questi movimenti si sono impegnati nella costruzione di modalità di approvvigionamento alimentare integrate nel territorio, basate sul paradigma della sovranità alimentare, cioè il diritto dei popoli a optare per sistemi agricoli e alimentari che forniscono cibi sani, prodotti da imprese familiari, utilizzando metodi di produzione che proteggono il suolo e l’ambiente e che trattengono il valore creato nell’ambito dell’economia territoriale. Questi approcci non sono teorie o sogni, bensì realtà che sono assolutamente dominanti nel Sud del mondo e che si stanno estendendo anche nei paesi ricchi e industrializzati.
Ecco allora alcune narrazioni vere, che sono riconosciute da tutti i governi del mondo, nel Comitato per la Sicurezza Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, ma che sono volutamente ignorate dai poteri forti: circa il 70% del cibo nel mondo è prodotto da agricoltura familiare, per lo più dalle donne, e non dall’agricoltura industriale; l’80% del cibo non transita attraverso le catene globali, come le narrazioni globalizzanti ci vorrebbero far credere, ma arriva al consumatore attraverso mercati territoriali diversificati, radicati in sistemi alimentari locali e nazionali. Inoltre, l’impatto di questi approcci alternativi, rispetto alle sfide più importanti di oggi – il cambiamento climatico, la conservazione della biodiversità, la salute umana –, è molto più positivo rispetto a quello del sistema globale delle corporations. Un solo esempio: l’agricoltura industriale e le catene globali del cibo sono responsabili per circa il 50% delle emissioni di gas serra, mentre l’agroecologia contadina aiuta a fissare il diossido di carbonio nel suolo. Se il costo per la società degli effetti negativi del sistema alimentare delle corporation fosse incluso nei prezzi degli alimenti che vediamo sugli scaffali dei supermercati, questi costerebbero molto di più dei prodotti freschi venduti nei mercati contadini. Dovrebbe essere chiaro che sono i cosiddetti approcci alternativi che debbono ricevere i sostegni dei governi, cioè il contrario di ciò che avviene oggi.

La narrazione dominante su guerra in Ucraina e sicurezza alimentare mondiale
Adesso vorrei illustrare quanto appena detto riferendomi allo scontro delle narrazioni intorno all’impatto della guerra in Ucraina sulla sicurezza alimentare mondiale. La narrazione dominante dell’agroindustria e dei governi e delle agenzie internazionali che li appoggiano lancia l’allarme di un terribile deficit di cibo causato dalla guerra. Per affrontarlo – dicono – si deve tenere aperto il commercio mondiale a tutti i costi e si deve aumentare rapidamente la produzione di cereali in Europa e negli Stati Uniti per far fronte a questo deficit. A costo di annullare gli standard di tutela dell’ambiente, della biodiversità e del clima introdotti negli ultimi anni. Difatti, l’Unione Europea ha già preso iniziative, spinta anche dalle lobby dell’agribusiness, ad esempio per rimettere in coltivazione i terreni messi da parte appunto per motivi ambientali…

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Tutto è guerra – Vittorio Giacopini

Vogliamo capire dove siamo? Bè, siamo in guerra (e in guerra è più che normale che il pensiero sia
considerato sospetto, la complessità quasi un crimine, l’autoritarismo una manna, e via dicendo). Siamo in guerra, cari Asini, e dobbiamo partire da qui, non se ne scampa.
Questo non è un articolo ma un tentativo di illuminazione che non fa luce su un bel niente; è un’elaborazione del lutto, una messa a punto. Poi scriveremo articoli e analisi e faremo discussioni e torneremo a parlare, criticare, sognare, organizzare, immaginare. Ma oggi dobbiamo soltanto prendere atto del clima in cui viviamo, dell’aria (guasta) che respiriamo. Con un unico imperativo, naturalmente.
Dalla guerra bisogna disertare e l’unica guerra giusta è la guerra alla guerra. Ma prima bisogna capire.
Anzi: accettare. La famosa “rosa nella croce del presente” evocata da Hegel è ormai appassita: siamo in guerra in termini metafisici, totali. Nel 1650 circa, dopo la guerra dei Trent’anni, dopo la guerra civile Inglese, Hobbes pubblica il testo-matrice della politica moderna, il Leviatano. E qui c’è un brano decisivo, che ci riguarda.

“Quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto di combattere, ma in uno spazio di tempo in cui la volontà di affrontarsi in battaglia è sufficientemente dichiarata: la nozione di tempo va dunque considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti,
come la natura del cattivo tempo non risiede in due acquazzoni, bensì nella tendenza verso questo tipo di situazione, per molti giorni consecutivi, allo stesso modo la natura della guerra non consiste nel combattimento in sé, ma nella disposizione dichiarata verso questo tipo di situazione, in cui per tutto il tempo in cui sussiste non vi è assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è PACE.”

L’idea che l’unica ragione della politica stia nel timore della morte violenta, nella paura di un conflitto interminabile e letale, stava al cuore del progetto stesso della modernità e tutta l’esperienza democratica, tutte le lotte del movimento operaio internazionale, qualsiasi progetto di emancipazione, l’alleanza complicata ma profonda tra Illuminismo e Socialismo e, in una parola, tutto ciò che abbiamo chiamato Sinistra, sono state un tentativo grandioso di correggere questa falsa partenza, o di attenuarla.
Forse oggi dovremmo ammettere che è una storia arrivata al capolinea, proprio finita. Il ricatto ontologico di Hobbes – o Potere o morte – è tornato di stretta attualità a partire dalla sua stessa premessa implicita o latente: fuori dall’ombra dello scettro del Sovrano-Leviatano tutto è guerra. Hobbes lo diceva proprio senza mezzi termini: la guerra non è lo scontro in battaglia, è tutto il tempo in cui c’è desiderio, pretesto, disposizione, tentazione alla guerra. Il suo “ogni altro tempo è pace” suona beffardo. La guerra è ovunque: in una “disposizione dichiarata”, in un’intenzione, diciamo anche in un semplice sospetto,
nell’ombra di un dubbio. Nel giugno scorso, quando la riunione della Nato a Madrid ha sancito i termini della Nuova dottrina strategica dell’Allenza Atlantica, il fantasma del filosofo inglese è uscito dagli scantinati della memoria e si è ripreso il proscenio: tutto è guerra. Bisogna leggere gli articoli 16 e 17 di quel documento: la natura della guerra non sta nel combattimento in sé, o nella battaglia campale, nel bombardamento assassino, nell’assedio logorante, nel blitz micidiale, nell’incursione, ma in ogni sintomo o avvisaglia o mossa o segnale o crampo o segno o alito o fiato di vita che promani dal campo avverso, che sia dichiarato o sotto mentite spoglie, indifferente. TUTTO E’ GUERRA, e ogni cosa è guerra o promessa di guerra, e non se ne scampa…

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Lo spot del cannone – Tonio Dell’Olio

Il servizio di Repubblica si apre con un giornalista con tanto di elmetto e giubbotto antiproiettile con la scritta Press ben visibile come di ordinanza.

Ha ottenuto il permesso straordinario di seguire le truppe al fronte. Siamo tra le linee del fronte ucraino di Zaporizhzhia che ha il compito di fermare l’avanzata nemica colpendo le basi e i blindati russi. La telecamera indugia dapprima sul camion Iveco, orgogliosamente di produzione italiana, e poi si sposta sugli obici Fh70 che “il governo italiano ha donato all’Ucraina”. E qui inizia lo spot vero e proprio con l’intervista al giovane e valoroso artigliere ventiquattrenne comandante della truppa che esalta la potenza di fuoco, la precisione di quello strumento e la sua capacità di colpire fino a più di 30 km di distanza. Le riprese si soffermano più volte sul momento in cui parte il colpo. Insomma se non si trattasse di uno strumento di morte e se non fossimo su un fronte di guerra, avremmo pensato di trovarci dentro il più macabro dei caroselli possibili. Ora di quel cannone sappiamo tutto. E lo sanno anche i potenziali acquirenti che ne sono improvvidamente sprovvisti. Non sappiamo se fosse un video realizzato all’interno di un accordo commerciale con la Rheinmetall e la OTO Melara ma di certo tende a persuaderci della generosità del governo italiano e dell’efficienza di quell’arma che anche le massaie di Voghera vorrebbero d’ora in poi nel proprio garage.

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La guerra nella pioggia – Valerio Magrelli

La guerra nella pioggia
è un doppio schifo.
Fa freddo e sei bagnato,
ma l’ombrello è vietato:
si è mai visto un soldato con l’ombrello?
Potremmo addirittura definire “soldato”
chi non porta l’ombrello.
Perché l’ombrello si usa in tempi dolci,
dove ci si protegge dalla pioggia.
In guerra, invece, nessuna protezione,
nessuna cura, nessuna attenzione.

(da La guerra, la pace)

 

(immagine di Alessandro Sanna)

 

Appello per una tregua umanitaria

I contendenti sospendano le ostilità nel periodo fra il Natale cattolico (25 dicembre) e il Natale ortodosso (7 gennaio).

Tutti gli europei che si riconoscono operatori di pace vedono con angoscia aggravarsi in Ucraina la catastrofe umanitaria e l’estendersi del conflitto verso scenari devastanti, come dimostra il recente incidente in territorio polacco che ha sfiorato un confronto diretto fra la Nato e la Russia.

Ribadiamo quindi che la via diplomatica va perseguita con ogni mezzo e ci appelliamo alla saggezza di chi – governi e personalità influenti – sia in grado di mediare fra le parti in conflitto. La strada verso la pace richiede anzitutto un cessate il fuoco.

Perciò, i cittadini che aderiscono all’appello, auspicano che i contendenti sospendano le ostilità nel periodo fra il Natale cattolico (25 dicembre) e il Natale ortodosso (7 gennaio).

Se è una tregua simile fu possibile durante la Prima guerra mondiale fra nemici storici, non si vede perché sia irrealizzabile oggi tra popoli slavi uniti dalla storia, dalla cultura e dal credo religioso.

Anche se gli armati di entrambe le parti potrebbero sfruttare quelle due settimane per rafforzarsi sui vari fronti di guerra, la tregua consentirà almeno ai civili inermi di vivere questo periodo – sacro a entrambi i contendenti – nel segno della pace natalizia.

Nulla impedisce, infine, di immaginare che un cessate il fuoco temporaneo persuada i contendenti a esperire ulteriori riduzioni delle ostilità, in modo da alleviare le inaudite sofferenze dei civili vittime incolpevoli di un conflitto fratricida.

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L’economia di guerra insidia le carte dell’Europa – Laura Pennacchi

Generato dalla guerra in Ucraina, il ridimensionamento attuale della ripresa economica avviatasi a livello globale nel 2021, ai primi segni di allentamento della pressione del Covid, ha implicazioni profonde. Quantità e qualità del lavoro, cioè “piena e buona occupazione”, si ripropongono come assi dirimenti, a fronte di minore numero di ore lavorate, part time involontario zavorrante la condizione femminile, crescita del tempo determinato e del lavoro somministrato, calo dell’apprendistato, criticità sempre maggiori per giovani e donne.

Invece, Stati già molto provati per sostenere durante l’epidemia l’economia e la società dirottano ora gran parte delle loro risorse verso gli armamenti e gli sforzi bellici, la precarietà e le difficoltà occupazionali si accrescono, i servizi sociali vengono ristretti.

La povertà torna ad aumentare, l’esclusione sociale si incrudelisce, si allargano le disuguaglianze, si rafforzano le mafie, la corruzione, la zona grigia intorno alla criminalità organizzata. Ma vengono anche distrutti interi ecosistemi, aumentano le ingiustizie ecologiche e ambientali, ai danni, ancora una volta, dei ceti sociali più fragili e disagiati.

Quest’ultimo è, anzi, uno dei terreni su cui più si fanno sentire le conseguenze della guerra, la quale rischia di ritardare se non di interrompere la transizione “verde”, visto che si parla di “ecologia di guerra”, e anche quella “digitale”, vista la crescente militarizzazione, per esempio, dell’intelligenza artificiale.

DIETRO TUTTO CIÒ sono all’opera forze profonde. Al centro della contesa c’è l’energia che non è mai stata così intrecciata alla geopolitica. Le tecnologie sono l’altro fondamentale campo della competizione e dei conflitti: microchip sempre più piccoli, batterie per la mobilità elettrica e per l’accumulo di energia rinnovabile, nuovi materiali, robotica, intelligenza artificiale. Il tutto nell’ambito di mercati globali che si riassestano verso livelli di “globalizzazione selettiva”, cioè per aree continentali e per ambiti più delimitati.

TUTTI GLI ATTORI in campo sono spinti, paradossalmente, più da fattori di debolezza che non da fattori di forza: Russia certo, ma anche Usa e Cina. Il groviglio più intricato, però, riguarda l’Europa. I paesi mediterranei, tra cui l’Italia, sono sempre più periferici. La Francia, che ha perduto pezzi interi della propria industria e ha visto peggiorare il proprio sistema educativo e ridursi la propria forza lavoro, ha oggi meno margini di manovra. La Germania, il cui modello di base è fondato sull’industria del carbone e su settori inquinanti come l’auto e la chimica, deve contrastare la sua alta dipendenza dal gas russo e al tempo stesso ricalibrare intere filiere produttive e catene di subforniture – in cui è elevata la presenza dell’Italia – altamente proiettate verso Est e verso la Cina, sulla scia della pur geniale Ostpolitik di Willy Brandt.

A MAGGIOR RAGIONE l’Europa mantiene un ruolo fondamentale da svolgere, a dispetto di tutte le sue contraddizioni, esitazioni, arretramenti. Non vanno sottovalutati lo spirito rivoluzionario che ha animato il Next Generation EU, le opportunità contenute nella rinegoziazione delle regole della governance europea e del “Patto di stabilità e di crescita”, la possibilità di dotare l’Europa di una fiscal capacity destinata a finanziare beni pubblici europei e di creare nuovi soggetti pubblici a scala europea che si dotino di un portafoglio di progetti primariamente nei campi della ricerca biomedica, dei Big Data, delle tecnologie per la transizione ecologica, della fissione nucleare a fini di pace…

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GOVERNO MONDIALE O DEMOCRAZIA INTERNAZIONALE? – Luigi Ferrajoli

Ci sono due modi di intendere il futuro dell’Onu e di prospettare la futura integrazione giuridica della comunità internazionale: il primo è quello espresso dalla formula “governo mondiale”; il secondo è quello espresso dalla formula “democrazia internazionale”. Questi due modelli, benché entrambi basati su di una limitazione della sovranità degli Stati, non solo non coincidono, ma possono risultare per molti versi opposti. Il governo mondiale suppone un accentramento delle decisioni in tema di relazioni internazionali presso un vertice mondiale, non necessariamente democratico né necessariamente vincolato da limiti e garanzie. La democrazia internazionale corrisponde invece a un ordinamento basato sul carattere democratico-rappresentativo degli organi sovra-statali e, soprattutto, sulla loro esclusiva funzionalizzazione alla garanzia della pace e dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli.

Io credo che la mancata distinzione tra questi due modelli è fonte di molti equivoci e malintesi, sia a destra che a sinistra. Se per un verso le grandi Potenze perseguono oggi la costruzione di un governo mondiale contrabbandandolo come strumento di pace, per altro verso, nel timore di un governo mondiale di tipo puramente imperialistico, molte forze democratiche guardano con diffidenza all’intero diritto internazionale, svalutandone l’insostituibile valore strategico quale sistema di garanzie.

Di fatto, la situazione attuale della comunità internazionale assomiglia assai più a quella di un governo mondiale, controllato dalle cinque Potenze che siedono in permanenza nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e principalmente dagli Stati Uniti, che non a una democrazia internazionale. Ma questa situazione contraddice in maniera vistosa i principi di diritto dettati dalla Carta dell’Onu e dalle diverse dichiarazioni e convenzioni sui diritti umani e sulla pace, i quali esprimono semmai il progetto di una democrazia internazionale di diritto finalizzata alla pace e alla tutela dei diritti fondamentali.

L’obiettivo di qualsiasi movimento per la pace è allora la trasformazione dell’attuale governo mondiale di fatto in una democrazia internazionale, strutturata secondo il paradigma dello Stato costituzionale di diritto già disegnato dalla Carta dell’Onu e fondata, come scrive Fabio Marcelli nel suo intervento introduttivo a questa discussione, sui “principi della solidarietà e dell’autogoverno dal basso, in una prospettiva mondiale al tempo stesso globale e policentrica”. Ciò vuol dire puntare a partire dalle carenze di garanzie poste in evidenza dai fallimenti del passato sulla riabilitazione e sul rafforzamento delle dimensioni universalistiche dell’Onu quali sono espressi, essenzialmente, dai suoi due principali elementi normativi. Il primo di questi elementi è il divieto della guerra, solennemente sancito dal preambolo e dai primi due articoli della Carta dell’Onu, nonché dal suo capitolo VII, ove si prevede la regolazione giuridica del l’uso della forza quale mezzo coercitivo alternativo alla guerra. E questo divieto della guerra il principio costitutivo della giuridicità del nuovo ordinamento internazionale formatosi con la nascita delle Nazioni Unite, Prima dell’Onu questo divieto non esisteva, e perciò non esisteva neppure un ordinamento giuridico internazionale in senso proprio. Lo ius belli era al contrario un elemento essenziale della sovranità dello Stato, e le relazioni tra stati erano ancora quelle sregolate dello stato di natura descritte da Hobbes nel Leviatano, ove la sovranità statale viene configurata come l’equivalente della libertà selvaggia. È con il divieto di guerra introdotto dalla Carta dell’Onu che la comunità internazionale passa dallo stato di natura allo stato civile e si subordina al diritto, divenendo un “ordinamento giuridico” sia pure sommamente imperfetto per la carenza di garanzie idonee ad assicurarne l’effettività. Se è vero che il diritto è per sua natura uno strumento di pace, cioè una tecnica per la soluzione pacifica delle controversie e per la regolazione dell’uso della forza, diritto e guerra sono infatti una contraddizione in termini, mentre diritto e pace si implicano a vicenda: la pace è l’intima essenza del diritto, e la guerra la sua negazione o. quanto meno, il segno e l’effetto della sua assenza nei rapporti tra gli uomini e del loro carattere pregiuridico, sregolato e selvaggio.

Il secondo elemento è la consacrazione dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli quali fonti di legittimazione non più solo politica ma anche giuridica degli ordinamenti statali. Anche questa è una limitazione delle sovranità statali, giacché la Dichiarazione universale del ’48 e poi gli altri patti e risoluzioni in tema di diritti sono ius cogens, cioè diritto immediatamente vincolante per gli stati membri. Una limitazione non solo negativa, come quella prodotta dal divieto di guerra, ma anche positiva: nel senso che gli stati membri sono in base ad essa vincolati alla tutela dei diritti fondamentali, ossia di bisogni e interessi primari degli uomini e dei popoli: il diritto alla vita, le libertà fondamentali di carattere politico e civile, l’habeas corpus e le immunità da torture e da trattamenti disumani e arbitrari, ma anche i diritti economici e sociali, il diritto all’autodeterminazione e quello allo sviluppo. Con due conseguenze. Innanzitutto che oggi il diritto internazionale non tutela più solo gli stati ma anche i popoli e le persone in carne ed ossa, i quali sono divenuti anch’essi, in aggiunta agli stati, soggetti di diritto internazionale. In secondo luogo che i diritti fondamentali hanno un fondamento non più solo nelle costituzioni dei singoli stati, ma anche in quelle carte costituzionali internazionali che sono la Carta dell’Onu e la Dichiarazione universale del ’48, sicché il diritto internazionale è divenuto fonte di regolazione, e criterio di legittimazione e delegittimazione non solo dei rapporti internazionali tra stati ma anche degli ordinamenti interni degli stati e dei rapporti tra gli stati e i loro cittadini.

Ebbene: in forza di questi due elementi normativi, tra loro connessi l’uno come condizione dell’altro, l’Onu è già oggi non solo un’istituzione giuridica internazionale ma anche, come ho detto, un ordinamento giuridico sovra-statale: qualcosa di simile, pur con la diversità di funzioni, a ciò che è lo Stato rispetto all’ordinamento giuridico statale, ove pure convivono norme di fonte statale e non statale; ma anche qualcosa di profondamente diverso dal governo mondiale di fatto che si sta oggi profilando. Purtroppo come ben sappiamo, e come la guerra del Golfo ha drammaticamente evidenziato questi due elementi restano ancora in gran parte sulla carta. Per quanto valido e vincolante, l’ordinamento internazionale è insomma privo di effettività. Ovviamente questo non basta a decretarne il fallimento. E proprio di qualunque ordinamento giuridico un grado più o meno elevato di ineffettività delle norme che regolano l’esercizio dei poteri e un corrispondente grado di illegittimità del loro concreto funzionamento. Basti pensare all’Italia, ove assistiamo da anni (Gladio, stragismo, tentativi di eversione costituzionale dall’alto, collusioni tra mafia e politica. Tangentopoli) a uno sfascio generale della legalità repubblicana. Del resto gli ordinamenti giuridici non nascono a tavolino dall’oggi al domani sulla semplice base di carte statutarie. Essi sono il prodotto di processi storici epocali. E se pensiamo alla lunga, travagliata e non luminosa storia degli Stati nazionali, dobbiamo ammettere che l’ordinamento internazionale è un ordinamento relativamente giovane, del quale sarebbe assurdo pronosticare il fallimento sulla base dei suoi tragici ma certo non definitivi insuccessi.

Se non ha senso abbandonarsi a sterili pessimismi, dobbiamo tuttavia riconoscere che le continue violazioni delle regole fondamentali dell’Onu e del suo stesso ruolo di pace hanno messo allo scoperto la fragilità dei principi, provocata dalla carenza delle garanzie. Ed impone perciò alla riflessione giuridica e politologica l’elaborazione di efficaci garanzie, idonee a riempire le lacune dell’ordinamento internazionale. Ciò che manca al diritto internazionale non sono infatti le norme sostanziali, di cui abbondano la Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del ’48 e le molte altre convenzioni e risoluzioni. Ciò che manca è un adeguato sistema di garanzie capace di assicurarne l’effettività. Si tratta, secondo un’espressione di Spinoza, di “leges imperfectae” perché prive di sanzioni e delle procedure per applicarle. È per questo che la divaricazione tra normatività ed effettività, che negli ordinamenti statali si mantiene entro limiti relativamente accettabili, nell’ordinamento internazionale è massima, per la prevalenza che sempre, a causa della già rilevata mancanza di garanzie, tende ad assumere la forza sul diritto…

Da GIANO N. 13 – gennaio – aprile 1993

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COME L’ITALIA HA FOMENTATO LE GUERRE DELLA NATO – Domenico Gallo

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gallo al libro “La NATO nei conflitti europei: ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi” (Biagio di Grazia & Delta 3 Edizioni, 2022) del Gen. Biagio di Grazia che ha servito nella NATO ed è stato addetto militare presso l’ambasciata italiana a Belgrado.

 

  1. Un mondo impazzito.

Nel volgere di sei mesi l’orizzonte di vita dei popoli europei è cambiato bruscamente. Il 24 febbraio 2022 si è fatto buio all’improvviso. Una guerra feroce e catastrofica è scoppiata sul confine orientale dell’Europa, travolgendo i destini di milioni di persone e riverberando i suoi effetti nefasti, a cominciare dall’Europa, in tutto il mondo. La guerra fra l’Ucraina (armata e diretta dalla NATO) e la Russia ha superato i 200 giorni e all’orizzonte non si intravede alcuna possibilità di porre termine ai combattimenti con un accordo di pace. La guerra, le tensioni geostrategiche e la conseguente corsa al riarmo stanno rendendo ancora più acuta la crisi ecologica prodotta dal riscaldamento del pianeta. Le timide misure per la riconversione dell’economia miranti alla riduzione delle emissioni da fonti fossili si stanno trasformando nel loro contrario con la programmata riapertura delle centrali a carbone. La siccità e la crisi energetica prodotta dalla guerra stanno provocando un’impennata dell’inflazione ed una penuria di beni essenziali, destinata ad incidere profondamente sulla vita di milioni di persone. Ci stiamo preparando ad un inverno di razionamenti, di freddo e di fame, come non avveniva dalla Seconda Guerra Mondiale. Dal 1945 gli orizzonti non sono mai stati così cupi. Durante la guerra fredda, anche nei periodi di maggiore tensione, sono sempre entrati in vigore dei meccanismi di raffreddamento, sono scattati dei freni d’emergenza, che adesso non ci sono più. In quel periodo la speranza della distensione non è mai venuta meno, è stata sostenuta da robusti movimenti popolari di massa ed ha consentito a paesi di frontiera come l’Austria, la Svezia e la Finlandia di prosperare mantenendosi indipendenti dai blocchi militari contrapposti. Adesso quei movimenti popolari che si battevano per espellere la guerra dall’orizzonte della politica non ci sono più, i sindacati tacciono, i diversi partiti politici europei fanno a gara ad indossare l’elmetto e a recitare litanie di fedeltà alla NATO e alla sua politica volta ad alimentare la guerra in Ucraina, fino alla vittoria (?). Quello che ci prospettano gli architetti dell’ordine mondiale è un futuro spaventoso, fatto di riarmo, di disastri climatici ed economici, di sfide continue nei confronti della Russia e della Cina, in fondo alle quali l’unica via d’uscita è una nuova guerra mondiale.

E’ questo il volto del nuovo ordine mondiale annunciato dal Presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, nel settembre del 1990, preconizzando un nuovo ruolo degli Stati Uniti destinati a modellare l’ordine internazionale grazie alla loro superiorità economica, tecnologica e militare?

L’opinione pubblica internazionale si è resa conto del deteriorarsi irrimediabile delle relazioni internazionali soltanto quando la TV ha mostrato i lampi delle prime esplosioni, ma l’orizzonte di guerra in cui siamo immersi ha avuto una lunga incubazione, è frutto di una politica a guida USA che ha cercato tenacemente la costruzione di un nemico: alla fine, dopo un processo durato oltre venti anni, il nemico si è materializzato e la parola è stata affidata alle bombe.

Superato lo stupore per questo brusco cambiamento degli orizzonti internazionali, dobbiamo chiederci dove questo processo ha avuto inizio e quali sono le cause che lo hanno determinato, quando si è determinata la svolta nella storia che ci ha fatto imboccare il sentiero in discesa che ci ha portato ai drammatici avvenimenti di questi ultimi mesi.

A questi interrogativi, offre una risposta sensata e autorevole il generale Biagio di Grazia, avvalendosi della sua esperienza professionale maturata in Germania nel Comando della Forza di Reazione Rapida della NATO, e poi a Bruxelles, a Zagabria, a Sarajevo e infine a Belgrado, come addetto militare dell’ambasciata italiana.

L’autore è stato testimone privilegiato di quell’inspiegabile evento che è stata la campagna di bombardamento condotta dalla NATO per 78 giorni, diretta a disgregare quello che restava della ex Jugoslavia, “guerra umanitaria”, la cui memoria è stata velocemente rimossa e cancellata dall’immaginario collettivo.  Eppure è in quell’evento, come ci avverte il generale di Grazia nella prefazione, che vanno ricercati gli antecedenti di quello che sta succedendo oggi nel teatro di guerra dell’Ucraina.

Con l’intervento armato della NATO contro la Jugoslavia sono state poste le basi per un cambiamento della Storia, è stato introdotto un nuovo paradigma nella vita della Comunità internazionale, di cui adesso raccogliamo i frutti velenosi.

Per comprendere la portata di questo cambiamento della Storia bisogna risalire ad un altro evento che convenzionalmente viene considerato un momento di passaggio da un’epoca ad un’altra: il crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

  1. Il crollo del muro: l’annuncio di una nuova epoca.

Fu una notte di festa straordinaria a Berlino quando i vopos si ritrassero ed una folla sterminata si precipitò a scavalcare quel muro che per 28 anni aveva diviso in due il cielo dei berlinesi; diviso le famiglie; separato i destini di chi si trovava al di là o al di qua del muro. Una barriera luttuosa non solo in senso metaforico, se si considera che furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest; una ferita sanguinosa inferta nel corpo vivo del popolo tedesco che, improvvisamente, spariva nel corso di una sola notte.

Il crollo del muro di Berlino fu lo sbocco di un processo di distensione dovuto allo straordinario rinnovamento delle relazioni internazionali introdotto dalla perestroika quando l’Unione Sovietica guidata da Gorbaciov depose le armi del confronto militare facendo franare la reciprocità violenta dell’equilibrio del terrore e restituendo la libertà di autodeterminazione ai popoli che teneva assoggettati al suo controllo. Il crollo del muro fu vissuto in tutto il mondo come l’epifenomeno che annunciava la fine di un’era, quella della guerra fredda che aveva ingessato l’ordine pubblico mondiale. L’epoca dei muri, del confronto brutale fondato sulla forza, della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore franava sotto i nostri occhi come sotto l’effetto del terremoto della storia. Al suo posto nasceva la speranza di una nuova epoca in cui si potesse avverare la profezia della Carta della Nazioni Unite, di un’umanità liberata per sempre dal flagello della guerra, dove le relazioni internazionali ed interne agli Stati fossero regolate dal diritto e dalla giustizia.  In quell’epoca furono stipulati accordi sul disarmo impensabili fino a qualche anno prima, furono delegittimate le alleanze militari contrapposte, fino al punto che si arrivò allo scioglimento del patto di Varsavia. In quell’epoca si riducevano in tutto il mondo le spese militari e i popoli confidavano di ricevere i dividendi della pace ristabilita. In questa breve stagione l’Onu, finalmente scongelata, cominciò a svolgere efficacemente il ruolo per il quale era stata istituita e riuscì a risolvere alcune delle più incancrenite situazioni di conflitto (come quelle della Namibia, della Cambogia, del Salvador) e il suo segretario generale Butros Ghali concepì un’ambiziosa Agenda per la pace. In altre parole, si respirava un clima di euforia che vedeva l’umanità finalmente sottratta al ricatto della violenza bellica e incamminata lungo quel binario, prefigurato dalla carta dell’ONU, che portava alla pace attraverso il diritto. Questa speranza di un futuro radioso e pacifico è stata smantellata rapidamente dagli architetti dell’ordine mondiale che hanno agito coerentemente per porre fine al clima di cooperazione pacifica generato dalla fine della guerra fredda.

  1. Le speranze tradite.

Nei circoli occidentali la fine della guerra fredda venne interpretata come una vittoria e il ritiro dell’Unione Sovietica dalla competizione militare come il frutto di una sconfitta determinata dalla forza delle armi dell’Occidente. La lezione che gli architetti dell’ordine mondiale trassero dagli eventi del 1989 fu che dal mondo bipolare si potesse passare all’avvento di un mondo monopolare in cui un’unica superpotenza avrebbe garantito la pace e l’ordine pubblico internazionale. E fu proprio questa l’interpretazione ufficiale di quegli eventi che anche in Italia il ministro degli esteri dell’epoca, Gianni De Michelis, fornì alla camera il 20 marzo 1990. In quest’ottica la logica di potenza non subiva nessun ripensamento, anzi veniva esaltata, la NATO non perdeva la sua ragione di essere, malgrado lo scioglimento del patto di Varsavia, gli strumenti militari non correvano il rischio di essere condizionati dalla spinta globale al disarmo. In questo contesto intervenne il discorso del Presidente Bush che, nel settembre del 1990, reagendo all’invasione irachena del Kuwait annunciò la nascita di un “nuovo ordine mondiale”, basato, non sui principi della convivenza pacifica dettati dalla Carta dell’ONU, bensì sulla capacità della superpotenza americana, non più contrastata dall’Unione Sovietica, di assicurare in tutto il mondo un “ordine” confacente ai propri interessi. Il documento più significativo a questo proposito appare quello pubblicato dal New York Times l’8 Marzo 1992, Defense Planning Guidance for years 1994-1999, redatto da uno staff di funzionari del dipartimento di Stato e del ministero della difesa, presieduto dal sottosegretario alla difesa Paul D. Wolfowitz. Il documento parte dal riconoscimento che gli Stati Uniti, a seguito della scomparsa del blocco sovietico, hanno acquistato lo statuto di superpotenza unica: “tale statuto deve essere perpetuato attraverso un comportamento costruttivo ed una forza militare sufficiente per dissuadere qualunque nazione o qualunque gruppo di nazioni dallo sfidare la supremazia degli Stati Uniti”. Il rapporto si sofferma a lungo sull’esigenza di privilegiare la potenza militare come strumento per garantire la preponderante egemonia internazionale americana. La preoccupazione fondamentale di conservare agli Stati Uniti lo statuto di superpotenza unica non valeva soltanto per gli antichi o i potenziali avversari ma anche per gli alleati: “Noi dobbiamo agire – recita il documento – in vista di impedire l’emergere di un sistema di difesa esclusivamente europeo che potrebbe destabilizzare la NATO.”

La prima guerra del Golfo (16 gennaio-28 febbraio 1991), fu l’occasione per imporre un cambio di passo nelle relazioni internazionali e rilegittimare il ricorso alla violenza bellica come strumento di tutela degli interessi di alcune nazioni e di riaffermare il ruolo egemonico degli Stati Uniti, come unica potenza dotata di una indiscutibile superiorità militare e della volontà di usarla, senza remora alcuna, per perseguire i propri obiettivi.

Tuttavia, l’esperienza della prima guerra del Golfo presentava ancora un tasso di ambiguità perché la coalizione a guida USA aveva agito dopo aver ricevuto il consenso di quasi tutta la Comunità internazionale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva autorizzato l’uso della forza per ottenere la liberazione del Kuwait con la Risoluzione 678 del 29 novembre 1990. In quest’esperienza fu osservato che gli USA avevano utilizzato l’ONU come un negozio di abbigliamento giuridico per ammantare di legalità   il ricorso al linguaggio della guerra che, nel clima del dopo guerra fredda, veniva pur sempre considerato un tabù da una gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Da più parti venne osservato che si trattava di una guerra di “sdoganamento” della guerra.

Questo processo di rilegittimazione della guerra come strumento ordinario della politica di potenza (dell’Occidente), e di delegittimazione dell’ordine giuridico fondato sulla Carta dell’ONU, per realizzarsi compiutamente aveva bisogno di compiere un balzo in avanti. L’occasione propizia fu offerta dal conflitto che portò alla dissoluzione della ex Jugoslavia…

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Verità e giustizia per le vittime di uranio impoverito – Gregorio Piccin

Il Partito della Sinistra europea porterà all’attenzione del Parlamento Ue la questione delle morti di militari e civili causate dagli armamenti contenenti il metallo pesante e usati nei teatri di guerra e nei poligoni di tiro dalla Nato. Una strage silenziosa al centro di una battaglia giudiziaria in Italia

La trentennale questione dell’uso bellico dell’uranio impoverito, che per diversi aspetti investe anche l’Unione europea, verrà finalmente portata all’attenzione del Parlamento europeo. Lo ha deciso il Partito della Sinistra europea (The Left) che ha chiuso l’11 dicembre 2022 il suo congresso a Vienna.

«I crimini di guerra non vanno in prescrizione», si legge nelle conclusioni della mozione presentata al congresso dal Partito della rifondazione comunista e approvata dal 90% dei delegati e delle delegate dei partiti rossoverdi europei. «Il Partito della sinistra europea si impegna a portare la questione delle vittime civili e militari dell’uranio impoverito all’attenzione del Parlamento europeo e ad individuare un percorso che possa impegnare il Parlamento sulla strada della verità e della giustizia per tutte le vittime e per la messa al bando di queste armi dentro e fuori il perimetro dell’Unione europea…».

Il consenso quasi unanime ottenuto da questa mozione lascia ben sperare sull’impegno che le delegazioni di europarlamentari metteranno in campo nel prossimo futuro. Un percorso che sarà supportato concretamente anche dall’Italia con la giurisprudenza prodotta in vent’anni di battaglie legali e dalle conclusioni inequivocabili della IV Commissione d’inchiesta parlamentare sull’uranio impoverito il cui presidente, l’ex senatore Gian Piero Scanu, aveva già inviato a suo tempo alla presidenza del Parlamento europeo.

Nel nostro Paese ci sono almeno 8mila veterani gravemente ammalati per l’esposizione a vari metalli pesanti come l’uranio impoverito mentre circa 400 sono morti. Tutti tornati dai teatri di guerra dove i bombardamenti effettuati dalla Nato hanno causato una “pandemia tumorale” che continua a mietere migliaia di vittime sia civili che militari. Oppure rientrati dal servizio presso poligoni dell’Alleanza come Capo Teulada o Quirra in Sardegna

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Mozione operaia 

 

NO alla guerra imperialista

NO alla partecipazione italiana alla guerra

NO all’aumento delle spese militari

No al carovita

Noi lavoratori e lavoratrici esprimiamo la netta opposizione al nuovo decreto del governo Meloni e alle mozioni del parlamento che supportano l’invio di armi, equipaggiamenti al teatro di guerra dell’Ucraina. Una decisione che alimenta la guerra, la corsa al riarmo e prosegue nella politica di violazione dell’Art. 11 della Costituzione, con cui l’Italia ripudia la guerra come mezzo di soluzione delle controversie tra Stati.

Noi lavoratori e lavoratrici condanniamo fermamente l’invasione imperialista di stampo neozarista della Russia di Putin dell’Ucraina, cos come l’azione guerrafondaia dei governi Usa/Nato/Ue, Italia compresa, volta a portare le truppe occidentali e Basi militari ai confini della Russia, usando l’Ucraina di Zelensky, nel cui governo ed esercito sono presenti i nazisti, come ‘cavallo di Troia’ e pedina di guerra; una situazione che può sfociare in una terza guerra mondiale e nell’uso del nucleare.

Siamo contro questa guerra tra banditi capitalisti per il profitto e per il controllo mondiale delle materie prime, le fonti energetiche, le vie geostrategiche.

Siamo solidali con le masse ucraine sotto le bombe e in fuga e con chi in Russia si oppone all’invasione e alla guerra.

Siamo contro ogni scaricamento dei costi e degli effetti di questa guerra sui lavoratori e le masse popolari già colpite dalla crisi economica.

Siamo contro l’uso delle Basi militari italiane come basi di guerra e presenza di armi nucleari.

Chiamiamo tutti i lavoratori e lavoratrici e tutte le organizzazioni sindacali a sottoscrivere questa mozione e a scendere in campo con assemblee, manifestazioni, fino allo sciopero generale, per mettere fine alla partecipazione italiana alla guerra ed essere al fianco di tutti i proletari e masse popolari che si oppongono alla guerra interimperialista in tutti i paesi del mondo.

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SINISTRA : LA PACE TRA NATO ED EUROPA – Franco Astengo

 

Organizzato dall’Associazione “Il rosso non è il Nero” e dal gruppo dei “Partigiani per la Pace” si è svolto a Savona il 13 dicembre un incontro sul tema “La Sinistra e la pace” nel corso del quale si è sviluppato un ampio dibattito dove, tra i diversi elementi oggetto d’analisi, è stata affrontata anche la questione del tentativo in atto di far coincidere NATO e UE all’interno del quadro determinato dal conflitto in corso a causa dell’aggressione russa all’Ucraina: una coincidenza quella tra NATO e UE che si propone anche in un quadro più vasto afferente il rideterminarsi della logica dei blocchi, sia pure in forma e dimensione diversa da una sorta di ritorno al bipolarismo d’antan ( “Limes” nel numero di Dicembre scrive di “Triangolo della Guerra Grande”).

Il governo italiano sta usando il sillogismo NATO = UE per giustificare il proprio riferimento atlantico e nello stesso tempo la propria vicinanza ai regimi dell’Europa dell’Est con l’allineamento al gruppo di Visegrad in funzione della propria vocazione verso le cosiddette “democrature” o “democrazie illiberali” e nel frattempo il proprio allineamento agli USA (elemento quest’ultimo molto discusso all’interno della destra italiana, in settori della quale collegamenti con le democrazie illiberali vanno oltre il confine dell’Oder-Neisse”).
A quale NATO allora si sta allineando il governo italiano?

Per rispondere è necessario partire dal vertice dell’Organizzazione Atlantica svoltosi a Madrid nel giugno di quest’anno, nel corso del quale è stato stabilito un nuovo concetto strategico.

Concetto strategico che tiene conto della complessità delle dinamiche in atto: si riscopre la Russia come nemico principale, si considera ancora in gioco la sfida del terrorismo internazionale, sono ritenuti fragili gli equilibri in Africa e nel Medio Oriente e valutate le minacce che derivano dal dominio cibernetico e – ancora le ambizioni cinesi di maggiore influenza a livello globale.

La strada tracciata sembra quella di mettere da parte l’Europa e di tornare alla guerra fredda.

In questo quadro si inserisce l’obiettivo di realizzare un legame imprescindibile tra NATO e Unione Europea facendo in modo che entrambi gli attori riconoscano l’importanza di una coincidenza di obiettivi nel rafforzamento reciproco considerando ormai come il presente la guerra multi – dominio (non solo terra-mare-cielo ma spazio e fibre ottiche).

Questa ultima considerazione è quella che affida a una piena battaglia politica per la pace la necessità di non considerare Nato e UE come la stessa coincidente struttura politico – militare (ne accennava qualche giorno fa Sergio Romano scrivendo di esercito europeo sul “Corriere della Sera”).

La distinzione NATO/UE e la necessità da parte della Sinistra di considerare l’Europa come spazio politico di riferimento appaiono come le priorità del momento nella nostra riflessione politica. Va impedito che si consideri la situazione come inevitabilmente destinata a una fase di guerra fredda nella corso della quale si prepari il conflitto globale.

Debbono essere avanzate da subito alcune proposte di politica estera sulla base delle quali portare avanti la mobilitazione pacifista dopo il buon successo dell’iniziativa del 5 novembre scorso.

Per rompere il quadro disegnato a Madrid servono proposte di smilitarizzazione e denuclearizzazione poste in zone neutre al centro del Vecchio Continente, serve soprattutto la internazionalizzazione dei movimenti pacifisti: un obiettivo da porre ai socialisti europei (viene sempre in mente l’esempio delle conferenze di Zimmerwald e Kienthal svolte dai socialisti pacifisti durante la prima guerra mondiale).

 

 

Impérialisme de la vertu – Serge Halimi

La coexistence d’un Sénat contrôlé par les démocrates et d’une Chambre des représentants où les républicains seront majoritaires ne bouleversera pas la politique étrangère des États-Unis. Elle pourrait même révéler à ceux qui l’ignorent une convergence entre le militarisme néoconservateur de la plupart des élus républicains et le néo-impérialisme moral d’un nombre croissant de démocrates.

La chose n’est pas nouvelle. En 1917, le président démocrate Woodrow Wilson engage son pays dans la première guerre mondiale, caractérisée par des rivalités impériales, en prétendant qu’il entend ainsi « garantir la démocratie sur terre ». Ce qui ne l’empêche pas d’être simultanément sympathisant du Ku Klux Klan. Plus tard, au cours de la guerre froide, républicains et démocrates se succèdent à la Maison Blanche pour défendre le « monde libre » contre le communisme athée, « empire du Mal ». L’Union soviétique disparue, vient le temps de la « guerre contre le terrorisme » dont le président George W. Bush garantit qu’elle mettra fin à la « tyrannie dans le monde ».

Corée, Vietnam, Afghanistan, Irak, ces croisades démocratiques font plusieurs millions de victimes, s’accompagnent d’une restriction des libertés publiques (maccarthysme, persécution des lanceurs d’alerte) et associent Washington à un bataillon de grands criminels qui n’ont pas toujours lu Montesquieu. Toutefois, dès lors qu’ils appartiennent au camp américain, aucun d’entre eux, ni le général Suharto en Indonésie, ni le régime d’apartheid en Afrique du Sud, ni Augusto Pinochet au Chili, ne perdra le pouvoir (ni la vie) à la suite d’une intervention militaire occidentale.

La présence d’un démocrate à la Maison Blanche tend à faciliter le maquillage de l’hégémonisme impérial en combat pour la démocratie. Même face à un adversaire aussi rebutant que le président Vladimir Poutine, la gauche atlantiste eût sans doute rechigné si elle avait dû mobiliser ses ouailles derrière Richard Nixon ou MM. George W. Bush et Donald Trump. En son temps, la colonisation française avait également été présentée comme l’accomplissement d’une mission civilisatrice inspirée par les Lumières, ce qui lui valut le soutien d’une partie de l’intelligentsia progressiste. Dorénavant, le combat contre l’autoritarisme russe, iranien, chinois permet de réarmer moralement l’Occident (1).

Le 24 octobre dernier, une lettre de trente parlementaires démocrates a salué la politique ukrainienne du président Joseph Biden tout en réclamant que des négociations concluent la guerre. Ce plaidoyer assez banal déclencha un tel hourvari belliciste sur Twitter que la plupart des courageux signataires se rétractèrent sur-le-champ. L’un d’eux, M. Jamie Raskin, démontra sa virtuosité dans l’exercice d’aplatissement général qui caractérise les périodes d’intimidation intellectuelle : « Moscou est le centre mondial de la haine antiféministe, antigay, antitrans, et le refuge de la théorie du “grand remplacement”. En soutenant l’Ukraine, nous nous opposons à ces conceptions fascistes. » Bien qu’il y manque encore la lutte contre le réchauffement climatique, une redéfinition aussi trompeuse des buts de guerre américains constitue le cousu-main de la gauche impérialiste qui vient.

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Redazione
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