Storie di lei

di Maria G. Di Rienzo

Tra fine novembre e inizio dicembre 2012 si è svolta a Londra una rassegna di film femministi – http://londonfeministfilmfestival.com/ – che ha mostrato un po’ di verità e di varietà di corpi e menti femminili altrimenti assenti dal grande schermo. Alcuni registi odierni pensano che per far andare la gente al cinema ci vogliano tecnologie avanzatissime e mirabolanti effetti speciali, io continuo a pensare che ci vogliano innanzitutto una buona storia e la capacità di raccontarla. Fra le diverse sezioni del festival ho trovato particolarmente interessante «Herstories», quella dedicata ai “corti” (in maggioranza documentari), per le questioni affrontate e per la brillantezza delle protagoniste.

E allora cominciamo con «Taxi Sister» ( http://www.youtube.com/watch?v=mGf6pVRRui0) prodotto da Theresa Traore Dahlberg. La vicenda è quella di un gruppo di donne di Dakar, Senegal, che grazie a un programma governativo di sostegno (ora cancellato, ci dice il film nel finale) sono diventate autiste di taxi. Sono le prime, nel Paese, e sono in 15: i tassisti uomini sono circa 15.000. Pure, questi ultimi sono convinti che siano davvero troppe e che non dovrebbero neppure esistere. Boury, la protagonista seguita dal documentario, sogna di diventare la prima donna che metterà in piedi la propria compagnia di taxi a Dakar. Boury è solare, determinata e positiva, ma non importa quanto bene lavori o quanto bene sostenga e depotenzi le aggressioni verbali da parte di sconosciuti e di colleghi: oltre a sentirsi dare dell’indecente, perché «i clienti maschi vorranno andare a letto con te», viene continuamente messa a rischio da tamponamenti e scontri intenzionali da parte delle auto dei tassisti maschi. Non dimenticherò mai il suo volto che si gira verso la camera da presa, dopo uno di questi episodi, per dire: «Come mi trattano, così li tratto. Se mi insultano, li insulterò cinque volte tanto. E questo vale per tutto il resto».

Dall’Argentina, grazie alla regista Nadia Benedicto, viene invece «Como una guerrera». E’ la storia di Laura, la cameriera di una famiglia ricca il cui unico eloquio permesso nell’ambiente è «Sì, signora/ sì, signore/ sì, signorina» mentre sfacchina con addosso il classico (e orripilante) vestitino nero con grembiulino e crestina bianchi. Ma Laura sogna. Sogna di cavalcare uno splendido destriero fra deserti e foreste, e nel sogno il suo abbigliamento è quello di una guerriera e il suo viso non esprime che fierezza. Nella realtà, la vediamo andare a casa dal lavoro con un uomo violento e scalmanato, e tornare il giorno dopo ferita fisicamente ed emotivamente distrutta. Tuttavia, Laura continua a sognare e il sogno si fa via via più nitido e pressante, sino a che la donna decide di diventare davvero quella “guerriera” e denuncia alla polizia il suo aggressore. La questione della violenza domestica è chiarita in quello splendido passaggio in cui noi spettatori non la vediamo direttamente: perché in effetti è un abuso nascosto, a meno che noi si decida di riconoscerne l’esistenza e di affrontarlo. Nadia Benedicto ha detto nelle interviste: «La verità è che io sono nata e cresciuta in una famiglia dove le donne erano disprezzate e tutte le decisioni erano prese dagli uomini. Penso che “Como una guerrera” sia il primo passo che ho fatto per recuperare quella voce, la mia propria, e la voce di tutte le donne che vivono in situazioni in cui non sono in grado di far valere i propri diritti».

Il terzo breve, anzi brevissimo (sono poco più di due minuti), chiamato «Seating Code», potete vederlo all’indirizzo: http://vimeo.com/30182700

La regista Hong Yane Wang esamina in esso una rispettabile tradizione cinese, a cui ovviamente dobbiamo il massimo rispetto nel nome del multiculturalismo, che consiste nel non permettere alle donne di sedersi sulle custodie metalliche che si usano nell’industria cinematografica. Potete ridere, ma il risultato è che in tutta la Cina, in omaggio a questa “tradizione”, c’è una sola camerawoman. Il cinema non esiste da abbastanza tempo per far risalire tale idiozia alla dinastia Qing e nessuna delle persone che ne parlano nel film è in grado di dire con esattezza quando e come sia nata, ma una tradizione è una tradizione, diamine, per cui va seguita senza farsi troppe domande… La regista, di diverso avviso, le fa. E le risposte sono allucinanti: «E’ perché non è pulito» spiega un uomo. Un secondo uomo esplicita: «Le donne hanno le mestruazioni, potrebbe accadere un sanguinoso disastro». Un terzo reagisce seccato: «E’ maleducato che una donna si sieda su una di quelle custodie. Gli uomini stanno lavorando duro, le donne non lavorano: perché dovrebbero sedersi?».

E poi, continuano: «In Cina non si abbandonano le tradizioni, perché dovremmo farlo? Non è una cosa ingiusta, siamo già molto civilizzati». Con un sorrisino delizioso, una ragazza aggiunge: «Credono che se una femmina si siede su qualcosa di fallico questo qualcosa si affloscerà. Il focus della ripresa diventerà blando». Okay, non sono un’esperta di anatomia umana, e forse è questo il motivo per cui non riesco a comprendere cos’hanno a che fare le custodie metalliche (cubi e parallelepipedi) con i genitali maschili cinesi. L’unica cosa che capisco è questa: qualsiasi mezzo per ricordare alle donne che sono inferiori e sporche è buono, non importa quanto stupido sia e quanto stupido renda chi lo usa.

Tutt’altro paio di maniche con il documentario «Sari Stories» dove la camera da presa è uno strumento di liberazione e conoscenza per le donne che la usano (http://www.aljazeera.com/programmes/witness/2009/08/200981914759478896.htm).

Un’associazione umanitaria, i “Video Volunteers”, ha messo in mano le cineprese a donne comuni di Andhra Pradesh, nell’India del sudest e ha detto loro: raccontate ciò che vi sta più a cuore. E le donne hanno prodotto un documentario sui loro matrimoni forzati. Notate bene: tutte sono state date in mogli da bambine. Latha, una delle protagoniste, ci racconta di essere stata venduta a suo marito a 12 anni. «Una volta mi ha picchiata tanto che non si credeva sarei sopravvissuta. Se è di cattivo umore mi costringe a mangiare sterco di mucca». Per quanto i volontari benefattori cerchino di mettere una pezza “tradizionale” su tutta la violenza che emerge, con frasi del tipo «Le differenze volute da dio fra uomini e donne…», la chiarezza della verità non ne viene offuscata. La verità è che di tutte queste donne si è abusato, che tutte hanno patito flagranti violazioni dei loro diritti umani e che tutte ne sono consapevoli. Una di loro dice nel film: «Qualche volta penso di divorziare. Ma mio marito non farebbe che risposarsi. Un’altra donna sarebbe venduta. Un’altra donna soffrirebbe». Il documentario ha comunque avuto un impatto positivo su chi ha partecipato al progetto e su chi ha visto il risultato finale. In parecchie assicurano che «Sari Stories» ha cambiato le loro vite.

Il London Feminist Film Festival si terrà anche il prossimo anno. Mano alla camera, ragazze, e sedetevi dove vi pare.

CONSUETA NOTA

Gli articoli di Maria G. Di Rienzo sono ripresi, come le su etraduzioni, dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/.  Il suo ultimo libro (non smetto di consigliarlo) è “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo”. (db)

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Interessantissimo. 15 taxiste su 15mila a Dakar:”Cara mia, qui non siamo a New York, qui siamo a Dakar”, ma anche a Roma…. E i rimandi che si trovano a filmati sulle varie situazioni della donna… Ci sono analoghi festival di corti sulla situazione italiana? Ora diventa imbarazzante il mio rinnovato ringraziamento a Di Rienzo..

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *