Strike – 20

Bozidar Stanisic sul primo sciopero delle donne in Bosnia… e sui tempi odierni (*)

Nel racconto «Sciopero nella fabbrica dei tappeti», pubblicato nel 1950, Ivo Andrić – premio Nobel per la letteratura nel 1961 – narra la storia del primo sciopero delle donne in Bosnia, accaduto all’inizio del Novecento, quindi nel periodo della occupazione austro-ungarica. Una di loro era madre dello scrittore, Katarina, operaia di quella fabbrica. Il trama del racconto è molto semplice: le “ćilimuše” (tappetaie) chiedevano l’aumento dello stipendio, migliori condizioni di lavoro: le loro richieste furono respinte. Cominciarono a scioperare, «non sapendo nulla del senso, né dei metodi di questa lotta sociale». Sorpreso dell’accaduto, il governo ordinò al direttore della fabbrica di chiamare le operaie in riunione. Il giorno successivo le “ćilimuše” si meravigliarono non solo dalla presenza della polizia ma pure dalla decisione che prevedeva l’arresto di 15 fra loro finché tutte non sarebbero tornate al lavoro; però, le misure repressive prese dal governo rafforzarono la protesta delle donne, soprattutto di quelle messe in prigione.

Le arrestate cosa facevano? Cantavano, giorno e notte, e il capo della polizia, non conoscendo la loro lingua, chiese il significato delle parole. Con sua sorpresa scoprì che cantavano canzoni d’amore, le “sevdalinke”. E che la canzone più ripetuta, che nelle sue orecchie rimbombava come la peggiore, parla dell’usignolo che sveglia una ragazza perché è venuta l’ora del suo matrimonio. Il capo della polizia, da buon ufficiale obbediente, non riuscì a capire né la canzone, né il modo di protesta della operaie catturate.

Malgrado la lunga distanza da questa vicenda, ritengo che Andrić con questo racconto, basato su una lotta femminile, riveli implicitamente verità sociali molto più attuali che immaginiamo. Non solo ci ricorda quante vicende del genere sono state dimenticate ma che la maggior parte dei giovani europei del 21 secolo pensano che i diritti per chi lavora siano caduti dal cielo e non conquistati gradualmente, con il sangue versato nelle lotte operaie. E perché le generazioni più vecchie, sindacati compresi, non sono stati in grado di trasmettere queste memorie alle genersazioni più giovani?

Le tappetaie di Andrić, anche se lontane dal rituale dello sciopero, nel racconto furono coscienti (come lo erano nella vita stessa) della loro posizione sociale, della volontà di vivere meglio e di avere una risposta alle loro richieste. Anche se poco istruite o analfabete, avevano capito che loro e il potere non parlavano lo stesso linguaggio. Le “povere” di Andrić sanno perfettamente che sono operaie, quindi appartenenti alla classe proletaria; e allora nel mondo intero era chiaro chi è padrone e chi sono i lavoratori e le lavoratrici.

Nella nostra epoca è chiaro? Ingannata dall’aumento del potere di consumo dagli anni ottanta, fino a pensare che non esistesse problema, la classe di chi lavora, di chi è sotto i padroni oggi conta i cassaintegrati, i messi in mobilità, i disoccupati, i senza lavoro… Forse questa classe si sta risvegliando. Ed è positivo che sempre più molti diventino coscienti che avere una macchina, una casa, un lavoro qualsiasi (magari del tutto precario) non basti per una vita dignitosa e socialmente giusta nei tempi in cui è sicura solamente… l’insicurezza. Si sta riscoprendo anche nelle realtà sociali e (non)produttive di questo Paese che il proletario ha solo la sua ricchezza mentre – in un letargo di decenni – è stato derubato dai parassiti finanziari, bancari, economici e politici: nulla è suo nel settore produttivo, nel mondo disumano e osceno del neoliberismo trionfante. E torna l’antica domanda: cosa tocca a loro che producono tutto ma non posseggono i mezzi di produzione?

(*) La miscellanea di oggi – cioè 24 post intorno a scioperi, fatica, diritti e alla lunga storia delle lotte per un mondo migliore nel quale lavorare non significhi rischiare la pelle o essere sfruttate/i – è curata dalla piccola redazione di questo blog. Qui e nelle piazze lo ripetiamo: «l’unico generale che ci piace si chiama sciopero».


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