Strike – 22

due poeti non laureati parlano di operai e lavoro nelle loro poesie, di franz

 

da “Poesie operaie”, di Luigi di Ruscio

 

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lo strazio della fabbrica risultava indicibile

chi era dentro l’inferno della condizione operaia non diceva niente

e chi era fuori della condizione poteva dire tutto però non sapeva niente

quindi il poeta doveva calarsi nell’inferno quotidiano

ungersi le mani in quaranta anni di putiferi

partire alle cinque del mattino con la bicicletta

anche con venti gradi sotto zero verso la fine del mondo

con una furibonda allegria timbro la mia presenza

che attesta l’esistere anche di codesto sottoscritto

che  iscrive anche lui i versi della nostra epigrafe.

 

64

uscire dalla fabbrica era come uscire da una guerra

dove si esce vivi solo per caso

tutto quell’unto polvere della trafilatrice

i saponi bruciati lo stridio dei ferri

il sudore che scendeva sino agli occhi

bruciava entrava nelle labbra

quest’urlo non potrà essere sentito

neppure gli urli di tutti noi messi insieme

chi non resiste verrà scaraventato

nel massimo dell’atroce

la fabbrica è l’ultima stazione

se ti licenziano è come se venissi sputato fuori nell’ignoto

in una caduta che non verrà attutita

l’operaio metalmeccanico è attaccato qualcosa di diabolico

il polacco dice che lavorare

per l’avvenire sotto i comunisti era ancora peggio

qualche macchina ferma sembra una cassa da morto

per chi sta veramente male mettersi sotto cassa malattia è difficile

di questo italiano straniero non sappiamo niente

si sa solo che puzza ed esiste.

 

Ai compagni con cui ho lavorato per quasi una vita

questa notte vi ho sognato tutti

splendidamente vivi

ritornammo a rivedere

tutti gli orrori di quel reparto ridendo

non sono riusciti ad ammazzarci

siamo ancora tutti vivi

nuovi come fossimo risuscitati

non più contaminati dalla sporca morte.

 

Cantone de sos bestidos de biancu

(Francesco Masala)

Intendide, bona zente,
dae cando mundu est mundu,
semper gìrana in tundu
gìrana semper in tundu
sos bestidos de biancu.

Semus in custa barca
dae tempus de cando mai,
in-d unu campu de trigu
ue messadore benit
ne oe ne crasa ne mai.

Amigos malefadados,
cumpagnos de malasorte,
intendide custa istória,
ch’est istória de vida,
ch’est istória de morte.

Babbu meu fit massaju,
cun sa matta unfiada
de orzattu e de abba,
messende sutta su sole
ispiga ruinzada.

Mamma mia, ojos de craba,
fit craba chena latte,
donzi notte, tota notte,
a una pupia de istratzu
cantat s’anninnia.

Bénnidos sunu poi
sos deos de Milanu:
Abbandona la terra, mi ana nadu,
lavora nella fabbrica,
diventerai operaio!

M’ana leadu sa terra
e custu mi est toccadu:
semenare mattones,
tubàmine, limbiccos,
zimineas de fogu,
óbigas e tropeas,
matraccas de inferru:
gàrriga, isgàrriga, piga,
suera, trabàglia, fala,
avvita, ispinghe, gira,
pintzas, tenazas, tira.

Sa fràbica de néula
caminat a sa sola:
non sono diventato operaio
non so pius massaju,
so unu chena tribàgliu.

Una valigia ligada a ispau,
emigradu in Germania:
fràbicas de padronos
chi donzi sero si sàmunan
su culu cun abba de rosas.

Montierenkette:
gàrriga, isgàrriga, piga,
suera, trabàglia, fala,
avvita, ispinghe, gira,
pintzas, tenazas, tira,
arbaiten… arbaiten… schlapp…
arbaiten… schlapp… arbaiten…

Una valigia ligada a ispau,
leada a ispuntadas de pê
dae sa mala fortuna.
Sa vida in pinnetas de latta,
semus in milli in cue intro,
chie drómmidi, chie màndigada,
chie fùmada, chie bùffada,
chie iscrìede, chie lèggede,
chie iscarràsciada, chie prègada,
chie frastìmada, chie tróddiada,
chie àndada a su tribàgliu,
chie tòrrada dae su tribàgliu
die e notte, notte e die.

Oe mi ada iscrittu una lìttera
sa colza ’e muzere mia:
«Proite non torras? So sola,
comente unu sulcu senza sèmene».
Isterrugiadu in-d un’anta,
penso a pramma dorada.

Mariposas de ammentu
e tràntulas nieddas
mi móssigan su coro:
no isco pius chie so…
no so pius nudda…
camicia di forza… librium…
doccia fredda… elettroshock…

Cumpresu, bona zente? So torradu
e mi che ana tzaccadu
in mesu a sos bestidos de biancu
chi giran sempre in tundu
semper gìrana in tundu
dae cando mundu est mundu
comente poveroscristos
a contare onzi die
su tempus de cando mai
in custu campu de trigu
ue messadore benit
ne oe ne crasa ne mai.

 

BALLATA DEI VESTITI DI BIANCO

(traduzione di Francesco Masala)
Ascoltate, buona gente,
da quando mondo è mondo,
sempre girano in tondo
girano sempre in tondo
i vestiti di bianco.

Siamo nella stessa barca
dal tempo di quando mai,
in un campo di grano
dove il mietitore viene
né oggi né domani né mai.

Amici malfatati,
compagni di malasorte,
ascoltate questa storia,
che è una storia di vita,
una storia di morte.

Mio padre contadino
aveva la pancia gonfia
di pane d’orzo e d’acqua,
mietendo sotto il sole
le spighe arrugginite.

Mia madre, occhio di capra,
era capra senza latte,
ogni notte, tutta notte,
a una bambola di stracci
cantava la ninna nanna.

Dopo sono venuti
Gli déi di Milano:
Abbandona la terra, mi hanno detto,
lavora nella fabbrica,
diventerai operaio.

Mi hanno preso la terra
e questo mi è toccato:
seminare mattoni,
tubature, alambicchi,
ciminiere di fuoco,
trappole, trabocchetti,
ordigni infernali:
carica, scarica, monta,
suda, fatica, smonta,
avvita, spingi, gira,
pinze, tenaglie, tira.

La fabbrica di nebbia
camminerà da sola, è cibernetica:
non sono diventato operaio,
non sono più contadino,
sono solo disoccupato.

Una valigia legata con lo spago,
emigrato in Germania:
fabbriche di signori
che ogni sera fanno la doccia
al culo con acqua di rose.

‘Catena di montaggio’:
carica, scarica, monta,
suda, fatica, smonta,
avvita, spingi, gira,
pinze, tenaglie, tira,
‘lavorare… lavorare… presto…
lavorare… presto… lavorare…’

Una valigia legata con lo spago,
presa a calci
dalla malafortuna.
Viviamo nei capannoni,
siamo in mille lì dentro,
chi dorme, chi mangia,
chi fuma, chi beve,
chi scrive, chi legge,
chi sputa, chi prega,
chi bestemmia, chi scorreggia,
chi va al lavoro,
chi torna dal lavoro,
giorno e notte, notte e giorno.

Oggi mi ha scritto una lettera
la mia povera moglie:
«Perché non torni? Sono sola
come un solco senza seme».
Sdraiato in un angolo,
penso a palma adorata.

Farfalle della memoria
e tarantole nere
mi mordono il cuore:
non so più chi sono…
non sono più nulla…
camicia di forza… librium…
doccia fredda… elettroshock…

Capito, buona gente? Sono tornato
e mi hanno messo qui
fra i vestiti di bianco
che giran sempre in tondo
sempre girano in tondo
da quando mondo è mondo
come poveri cristi
a contare ogni giorno
il tempo di quando mai
in questo campo di grano
dove il mietitore viene
né oggi né domani né mai.

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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