Su «Il ciclo di vita degli oggetti…

software» di Ted Chiang

Fantascienza per educatori-educatrici, per chi si è fatto inquietare dal test di Turing, per animaliste/i, ma in definitiva per chiunque ami la letteratura di idee. Un premio Hugo meritatissimo quello dato nel 2011 a «Il ciclo di vita degli oggetti software», il primo romanzo di Ted Chiang – che pure scrive eccellenti racconti da un ventennio – edito a ottobre da Delos Book (142 pagine per 10 euri) nella traduzione di Francesco Lato e con la prefazione di Salvatore Proietti.

Fra i molti protagonisti (umani e non) se ne possono privilegiare due.

Ana Alvarado, dopo la chiusura dello zoo nel quale ha lavorato per 6 anni, vorrebbe lavorare ancora con gli animali ma è messa così male che alla fine accetterà qualsiasi impiego: ha da poco completato «un corso di abilitazione nel collaudo di software» però con sorpresa scopre che la Blue Gamma vuole assumerla per occuparsi di «digienti», cioè «organismi digitali che vivono in ambienti come Data Earth» (un passo oltre Second Life, per capirsi) che progetta di commercializzare come «animali domestici con cui si può parlare e a cui si possono insegnare esercizi realmente nuovi». Quando i digienti avranno imparato «le nozioni base», Ana dovrà aiutarli ad «apprendere il linguaggio e le interazioni sociali». Proposta accettata: avrebbe preferito seguire le orme di Diane Fossey e Jane Goodal ma «istruire scimmie virtuali» sembra interessante.

Derek Brooks invece disegna gli avatar di questi digienti ma gli viene chiesto di prepararne «una maggior varietà, qualcosa di diverso dai cuccioli», in pratica robot: è assai perplesso ma deve eseguire gli ordini della Blue Gamma. Così incontra Ana e per tutta la storia (circa 12 anni) scorrerà fra loro una sotterranea, complessa storia d’amore. Intanto Derek si troverà anche a progettare avatar per un gruppo di «appassionati di vita artificiale» che vuole «una specie intelligente aliena» per Data Mars, «un continente privato».

Co-protagonisti ovviamente i digienti: Lolly, Tibo, Zaff, Drayta e soprattutto Jax, con il duo Marco e Polo, «due dei campioni». Ma sulla loro personalità non potrò svelare granchè come sulla trama: toglierei a chi legge il piacere di scoprire la bravura di Chiang che con poco – un paio di nodi scientifici e pochi personaggi – sa costruire tantissimo.

All’inizio i digienti sono un successo. Non mancano i problemi: Blue Gamma a esempio deve trovare il modo per «minimizzare gli abusi» in modo da rendere i digienti «poco allettanti per i sadici». Dopo 4 anni le vendite rallentano. Uno dei problemi è che quando “crescono” i digienti «diventano troppo impegnativi». Per evitare che i digienti finiscano nei magazzini alcuni proprietari (ma anche Ana e Derek) li adottano. Si apre la discussione – o meglio inizia una nuova variante sul tema antico – su come si sviluppi un intelletto, su cosa si intenda per maturità. Se «l’idea di un plateau evolutivo» possa basarsi solo su un modello biologico.

La maggior parte delle persone che ha adottato i digienti continua ad educarli («una miscela improvvisata di istruzione casalinga, tutoring di gruppo e software didattico») ma c’è chi vuole andare oltre.

Un mucchio di domande, che Chiang sa come rendere vive e intrecciare a vicende quotidiane, attraversano il romanzo. I digienti sono macchine? Sono animali? Per loro c’è solo un mondo virtuale o esiste un’altra possibilità? Quanto sono grandi le differenze tra loro? Hanno desideri? «E’ più rispettoso trattarli come essere umani o accettare che non lo sono»? Devono lavorare? Possono imparare da soli? Giocare? Amare? Ma qual’è l’idea di «un sesso sano»? Quando (o se) potranno rendersi indipendenti? «L’abilità dialettica non equivale alla maturità»? E se il raziocinio deriva da vivere nel mondo reale – «l’esperienza è algoritmicamente incomprimibile» pensa Ana – quanti anni devono passare per una loro completa evoluzione? E quando incontrano il dolore è giusto spegnere un interruttore, riportarli a “prima” in modo da annullare le esperienze negative?

Domande pedagogiche, filosofiche, etiche e scientifiche. Ma c’è un risvolto concreto per chi li ha adottati: seguirli quanto costa? Non solo in denaro ma in tempo e relazioni. Lo si fa per amore?

Solidamente asimoviano (un’idea ottimistica su scienza e progresso) Chiang si mostra qui, come già nei tanti racconti pubblicati, autore di parabole; «discende direttamente da Kafka, Lem e Calvino» azzecca Proietti che collega questo romanzo al racconto «Umano è» di Philip Dick

C’è un altro collegamento possibile fra questo romanzo e Dick. Chi ha letto «Gli androidi sognano pecore elettriche?» (che ha circolato in italia anche con il titolo «Il cacciatore di androidi» e poi, dopo il film di Scott, come «Blade Runner») ricorderà che gli animali artificiali – dopo l’estinzione di quelli naturali – diventano uno status symbol e oggetto di sperimentazioni. E’ come se quello che Dick lì accennava appena adesso Chiang lo raccontasse dall’inizio a… un passaggio cruciale però senza una conclusione. E se stesse lavorando (part time visto che Chiang non è uno scrittore a tempo pieno) al seguito?

UNA BREVE NOTA

Se questo romanzo vi piace il mio consiglio è di recuperare l’antologia di Ted Chiang «Storie della tua vita» pubblicata nel 2008 da Stampa Alternativa; con il titolo Ted Chiang: 8 storie impossibili… trovate in blog la mia recensione dell’aprile 2009. Sul numero 64 della rivista «Robot» (che presto recensirò) c’è una lunga e interessante intervista di Avi Solomon a Chiang, «scrittore part-time» appunto (eppure capace di vincere una quindicina di premi importanti fra il 1990 e oggi). L’intervistatore verso la fine dice a Chiang: «il tuo romanzo mi fa vedere sotto una luce diversa la mia esperienza di allevare due figli, il che credo voglia dire che la storia há raggiunto il suo scopo». Confermo: questo è un romanzo che chi si occupa di formazione dovrebbe leggere… e non solo per il piacere della storia. (db)

Redazione
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