Su «La memoria del vento»…

un romanzo di Mark Mustian.

«Per un istante pensò di essere tornato laggiù», nel 1920. Ovvero di essere un turco di 22 anni, Ahmet Khan: ha perduto la memoria, è «il paziente non identificato a-17», ferito nei Dardanelli, «il viso, la testa e l’uniforme ridotti così male da essere scambiato per un soldato inglese». Un anno per rammentare il suo nome, la lingua e poco altro: tutti gli altri ricordi perduti per sempre.

Invece è un vecchio statunitense, Emmett Conn: nel 1990 cade – «un ictus o un cerebro… qualcosa» – e quando si sveglia inizia ad avere visioni.

I sogni di Emmett sono tremendi. Su tutto il vento. E una lunga fila nera di esseri umani. Peggio di un gregge: «strisciano», marciano e muoiono. Lamenti, gemiti. Ma «loro» sono profughi, deportati, in definitiva «mandria» o «marciume». E’ ovvio che ragazze e donne possano essere stuprate dai «guardiani». Giusto disprezzarli: sono «infidi tutti quanti», bestie, in definitiva «se la sono cercata». «Siamo pastori (…) proteggiamo queste persone, le spostiamo per il loro bene. Se fossimo disumani le avremmo semplicemente massacrate tutte» pensa uno dei guardiani: «che alcuni dei più vecchi e dei più giovani muoiano è la naturale conseguenza di un viaggio così lungo». Tutto puzza intorno a loro, forse «l’odore di carne marcia» è il peggiore. Pidocchi e vermi. E gli avvoltoi, «spazzini spudorati» a banchettare con i corpi. Neanche 300 dei duemila di quel gregge arriveranno in vita. Ma qual è la metà? Non c’è chi possa dire se giunti in Siria saranno salvi o se inizierà un nuovo calvario.

Visioni o ricordi? Cosa ha a che vedere Emmett con il guardiano? Forse è una invenzione anche Araxie? Strana ragazza, con «gli occhi di colore diverso, uno scuro e l’altro chiaro, come se sua madre non avesse potuto scegliere uno solo di quei due geni tanto perfetti».

«La memoria del vento» è un riuscito romanzo storico, magnificamente scritto. Una vicenda d’amore dentro il primo genocidio («non devi credere a chi ti dice il contrario: è stato e rimane un genocidio») del ‘900: quello dei turchi contro gli armeni, un milione di persone che scompaiono, uccisi o lasciati morire di stenti. Una razza da disprezzare: «altezzosi, inclini alla compiacenza, sempre a vantarsi della loro cultura, spilorci e isolati, venerano il loro dio in piccole chiese rotonde» e poi, all’inizio della guerra, si sono alleati con i russi, «i nostri nemici» – o almeno così vien detto e dunque sarà vero. «Infidi tutti quanti, subdoli, astuti (…) Per quanto possa essere dolorosa, la separazione è la soluzione migliore (…) E in tempo di guerra è normale che le persone, persino gli innocenti, muoiano». Queste parole affiorano alla mente di Emmett. E’ lui – uno degli assassini – a ricordare? O assurdamente si confonde con altri, magari con suo fratello? Anche chi legge «La memoria del vento» (Piemme, traduzione di Velia Februari: 336 pagine per 17,50 euri) di Mark Mustian resterà a lungo incerto. Se pure il vecchio Emmett Conn è Ahmet Khan, davvero fu un mostro o, fosse pure solamente per amore, ha potuto riscattarsi? Ed è poi sempre così netto il confine? Una sopravvissuta dice, molti anni dopo, con un misto di sconcerto e ironia: «ho sempre trovato interessante che non esistano esami clinici per distinguere gli armeni dai turchi, i cristiani dai musulmani, i santi dai peccatori, i buoni dai cattivi. Alla fine, nessuno conosce la verità; tranne Dio, forse».

Non sa se, a 92 anni, è «pronto a morire» Emmett. Quel che più lo spaventa è fare la fine di Carol, la moglie, «vivere senza accorgermene, schiacciato non dal dolore ma dal nulla». Due figlie ma rapporti non facili. Qualche amico forse. Una vicina gentile: è anziana ma sembra “corteggiarlo”. Eppure si sente ancora «lo straniero, il reietto», riaffiora la memoria degli insulti («stupido, scuro»). Ricordi: «Le due file di lavoro, una per i bianchi e una per la gente di colore. Io vengo spostato da una fila all’altra. Sono di colore? Non lo sapevo. Le suddivisioni in America sono diverse, e io appartengo alla metà scura».

Oggi non si sente più straniero Emmett. Ha accettato i valori americani. «Ripenso a quando sono diventato idraulico, a quanto ero affascinato dai gabinetti e dagli scarichi. Così moderni! Così igienici! Sembravano incarnare l’americanità: i rifiuti, rimossi, dirottati, nascosti. Igienizzati». Non lo pensa Emmett e non lo scrive Mark Mustian ma lo sottintende: questa ossessione tutta americana del nascondere i rifiuti cammina di pari passo con la paura di affrontare la zona d’ombra di ogni vita, non posso, non voglio averlo fatto e dunque lo nego, lo “spazzo” via.

«Strani gli spazi vuoti» nella memoria, 20 anni perduti per sempre. Più sconcertante ancora per Emmett è però «questa storia che continua a fuoriuscire come da un rubinetto che perde, poco a poco». Lui decide di affrontarla e, a 92 anni, si mette in viaggio. Insegue ricordi o fantasmi? Forse non è troppo tardi per sapere la verità.

UNA BREVE NOTA

Capita ogni tanto, per le più disparate ragioni, che alcuni miei articoli o recensioni non escano sulle testate alle quali collaboro. Ovviamente mi dispiace… ma ho la soddisfazione di poterli recuperare – e ampliare – in blog. (db)

Redazione
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