Succede a Roma: da 233 giorni

Una tragica vicenda familiare dentro una ben più lunga rete di assurdi, paradossi e illegalità che è stata creata da chi “governa” la città all’insegna del razzismo.

di Nino Lisi (*)


Roma, un tempo detta caput mundi e ancor’oggi conosciuta come “la città eterna” è capitale di un Paese, il nostro, che nella sua Costituzione si impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto libertà ed eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Ebbene – incredibile ma vero – proprio a Roma avviene che un’anziana donna dorma (a oggi che scrivo)  da 233 giorni al posto di guida di un furgone, per  consentire ai suoi due figli, un maschio e una femmina, ambedue adulti e con non lievi disturbi psichici, di dormire sdraiati sul pianale del mezzo.

Solo un paio di mesi fa, questa donna si diceva  “proprio contenta” perché, dopo essere riuscita a riportare nel furgone la figlia che in una crisi del suo male aveva girovagato dormendo in strada per diverse settimane, era riuscita a trovare un posto, sotto un ponte, da dove «nessuno li cacciava» e dove c’era anche un lampione che le dava luce di notte.

Ora però non ce la fa più. Con il  volante che le preme sullo stomaco non riesce più a dormire e nel furgone con il caldo si sta anche peggio di quando  faceva freddo.

Si dirà che casi del genere non ci sono solo a Roma e che i “senza tetto” ci sono pressoché in tutte le grandi città. E’ vero. Ma la particolarità di questo caso, come di molti altri simili che esistono a Roma, è che a ridurre questo piccolo nucleo familiare in condizioni tanto miserevoli non è stato un matrimonio finito male, un lutto grave, una malattia disabilitante né la perdita del lavoro, ma proprio l’Istituzione più prossima alla popolazione che per questo, prima e più di ogni altra, ha l’obbligo di dare attuazione al dettato dell’articolo 3 della  Costituzione, appena citato.

A “buttare per strada” questa come tante altre famiglie è stato infatti  il Comune di Roma che ha sgomberato manu militari – tanto per citare  solo alcuni casi –  la Cartiera di Via Salaria (2016) e i “campi nomadi”  – ribattezzati con scarso senso dell’opportunità – “villaggi della solidarietà” River (2018), La Monachina (2021) La Barbuta (2021)

L’aspetto paradossale di tali sgomberi è che La Cartiera di via Salaria non era stata occupata abusivamente ma era un “Centro di Accoglienza” istituito dal Comune e i suoi abitanti vi erano stati immessi dallo stesso Comune. Anche i tre “campi” erano stati istituiti dal Comune adattando container in “moduli abitativi”, ognuno dei quali, contrassegnato da un numero identificativo, era stato assegnato a un nucleo familiare con tanto di “determina dirigenziale” dell’apposito Ufficio Comunale.

Si tratta dunque di una paradossale assurdità che segna il punto di arrivo di una ininterrotta sequenza di assurdi, paradossi ed illegalità che parte da molto lontano.

A Roma i  primi “campi” furono   allestiti  negli anni Ottanta dello scorso secolo, come sosta per accogliere piccole immigrazioni  di Rom che fuggivano da condizioni di miseria.

A tali piccole immigrazioni per fame seguirono, nel ’91-’92, consistenti ondate di profughi provenienti dalla Bosnia divenuta teatro degli scontri etnici serbo-bosniaci e a partire dal  ’99 nuove ondate di profughi dalla  guerra del Kossovo.

Molti degli attuali residenti nei campi sono dunque profughi di guerra o loro discendenti, ai quali si sono aggiunti a partire dal 2000 altri profughi dalla miseria che devastava Paesi come la Romania.

La complessità e la delicatezza dei problemi nuovi posti dalla consistente presenza di queste minoranze linguistiche non fu colta dalle nostre istituzioni. La maggiore preoccupazione delle Giunte Rutelli  (1993-2001) e Veltroni (2001 -2006), per non dire delle gestioni commissariali, fu quella di spostare i “campi” fuori dal centro della città, possibilmente al di là  del raccordo anulare.

Il culmine dell’incomprensione di questo  fenomeno lo si raggiunse non a caso con il Governo Berlusconi che nel 2008 dichiarò l’esistenza di una “emergenza nomadi” ed emanò direttive ai Prefetti per fronteggiarla con misure speciali.

In ottemperanza a tale Dichiarazione, nel 2009 a Roma la Giunta Alemanno adotta il “Piano Nomadi”. Il Consiglio di Stato però nel 2011 dichiarò inesistente l’emergenza nomadi e  illegali i provvedimenti conseguenti, compresi gli stessi “campi”.

Il governo ricorse contro la sentenza del Consiglio di Stato ma la Corte di Cassazione nel 2013 dette torto al governo e ragione al Consiglio. Nello stesso anno il Tribunale Civile di Roma riconobbe a un cittadino rom di esser stato vittima di discriminazione su base etnica in occasione del fotosegnalamento e ordinò al Ministero dell’Interno di distruggere tutti i documenti contenenti i dati sensibili di quel cittadino, raccolti impropriamente.

Nel 2015, il 30 maggio, il Tribunale Civile di Roma afferma in sentenza  che i campi hanno carattere di “discriminazione su basi etniche” sentenziando che «il carattere discriminatorio di natura indiretta della complessiva condotta di Roma Capitale […] si concretizza nell’assegnazione degli alloggi del villaggio attrezzato La Barbuta» e impone da subito al Comune di Roma di far cessare gli effetti discriminatori. Ma nulla succede. I “campi” restano e con il loro progressivo degrado assumono sempre più il carattere di luoghi di segregazione. Per di più un nuovo fenomeno insorge aggravando la situazione: con la dissoluzione della Jugoslavia i documenti di molti degli abitanti dei “campi” non hanno più valore essendosi dissolto lo Stato che li aveva emanati. I loro intestatari restano senza cittadinanza e divengono apolidi di fatto. Di ciò e delle conseguenze anche per i loro figli nati nei campi non si cura alcuno.

Appare assodato dunque che a essere fuorilegge non sono i Rom, anche se a volte sono costretti a rubacchiare per sopravvivere, ma le Istituzioni.

Nal 2012 il Governo Monti prova a mettere riparo a questa incredibile situazione, approvando la «Strategia Nazionale per l’Inclusione Sociale dei Rom Sinti e Caminanti 2012-2020» che l’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio) aveva predisposto sulla scorta di direttive dell’Unione Europea. Si basa su quattro direttrici: abitare, lavoro, istruzione, salute. Purtroppo resta  un bel libro di sogni.

Le istituzioni di prossimità, Comuni e Regioni, che avrebbero dovuto attuarla vengono totalmente meno al loro compito per mancanza sia di volontà, a livello politico, sia  di competenza, a livello tecnico-amministrativo. Ai politici fa da freno l’antiziganismo di cui è pervasa l’opinione pubblica: antiziganismo che è una subdola forma di razzismo paragonabile solo all’antisemitismo. Si pensi alle persecuzioni naziste sfociate negli abomini che gli Ebrei chiamano Shoa (6 milioni di morti) e i Rom  Porrajmos (500mila morti su una popolazione di poche centinaia di migiaia di persone). Si pensi che nel Parlamento Italiano per fare approvare la legge sul riconoscimento delle minoranze linguistiche si dovette eliminare dal loro elenco quella dei Rom.

Quanto al livello tecnico-amministrativo si consideri quale cultura e quali professionalità occorrano per attivare percorsi che portino le migliaia di persone che abitano nei “campi” dalle attuali condizioni di apartheid – in cui sono state segregate per decenni o addirittura  sono nate – al godimento dei diritti di cittadinanza dai quali sono state sinora escluse. Perché è  questo che si intende quando si parla di inclusione sociale

La mancanza da una parte di volontà politica e dall’altra di cultura e professionalità ha costituito una miscela devastante portando al travisamento della Strategia di Inclusione Sociale: il “superamento dei campi” è stato inteso come obiettivo a sé stante invece che effetto dei percorsi di inclusione che, per aver inserito nella società le minoranze, avessero resi inutili quei luoghi di segregazione. E poiché la chiusura dei campi in vista della scadenza elettorale era spendibile come soluzione di problemi “di ordine pubblico e di decoro urbano” il loro svuotamento  è divenuto obiettivo da raggiungersi a ogni costo.

Per tanto gli sforzi dell’Amministrazione Comunale si sono  concentrati su uno solo dei quattro indirizzi suggeriti dalla Strategia: l’abitare. Non nel senso di realizzare un modello abitativo adatto alle circostanze, ma semplicemente come trasferimento dei nuclei familiari che rientrassero nelle apposite graduatorie dai “campi” ai casermoni dell’edilizia pubblica senza alcuna preparazione né dei trasferendi né dei contesti che li avrebbero dovuti accogliere.

Delle conseguenze  di questa improvvida operazione si sono occupati ampiamente i media e anche diverse Stazioni dei Carabinieri che hanno dovuto raccogliere le denunce delle donne Rom minacciate con i loro bambini e malmenate da coinquilini che non gradivano averle come vicine.

Ma le abitazioni di proprietà pubblica disponibili non erano sufficienti ad accogliere tutte le famiglie rom da trasferire per svuotare i campi; e allora si è fatto ricorso a un astuto stratagemma. Si è chiesto alle famiglie dei campi in chiusura di sottoscrivere il Patto di Solidarietà, un atto in cui esse si impegnavano a trovarsi un‘abitazione da fittare e il Comune si impegnava a pagarne i canoni mensili dei primi due anni. Ma chi fitterebbe a Roma un’abitazione a un Rom, per giunta privo di busta paga e spesso anche di documenti? E cosa sarebbe avvenuto al terzo anno? Il tranello era evidente: chi, firmato il Patto, non fosse riuscito a trovare un appartamento da fittare sarebbe risultato non più meritevole delle misure di sostegno in quanto inadempiente; così chi, avendo capito l’inganno, non lo avesse sottoscritto sarebbe apparso non collaborativo. In ambedue i casi sarebbe apparso che quelle famiglie Rom avrebbero rifiutato l’alternativa abitativa offerta dal Comune e gli sgomberi avrebbero avuto una parvenza di legalità.

E così è stato. Alla seconda Sezione Civile del Tribunale di Roma presso cui pendeva un ricorso contro lo sgombero del campo La Barbuta un avvocato del Comune poté affermare che nessuno dei suoi abitanti sarebbe rimasto senza un’alternativa abitativa. Il ricorso non venne accolto e  decine di famiglie alla data fatidica fissata per la chiusura del campo sono state letteralmente messe in strada, come era avvenuto  alcune settimane prima con le famiglie che ancora erano nel campo de La Monachina..

Ad alcune – le più fortunate – del Campo La Barbuta, nel mentre erano già in corso le operazioni di sgombero è stato assegnato provvisoriamente un appartamento in condizioni ininmaginabili. Per darne un’idea: 13 persone in co-housing  in tre stanze con un bagno pressoché inutilizzabile. Una mamma anziana con un figlio costretto su una sedia a rotelle, dopo un’odissea rimbalzata sulle pagine de il manifesto è stata immessa in un appartamento senza riscaldamento e acqua calda, al 7° piano di uno stabile nel cui ascensore la carrozzina non entra. Altri nuclei familiari invece per strada.

La continuità istituzionale imporrebbe alla Giunta Gualtieri di porre rimedio  ai disastri compiuti dalla Giunta Raggi, ma sinora non c’è chi se ne occupi, nonostante ripetute e documentabili sollecitazioni all’Assessorato alle Politiche Sociali e all’Assessorato alle Politiche Abitative che amministra i dirupati appartamenti assegnati per due anni.

Tutto ciò accade a Roma con buona pace della Costituzione più bella del mondo che è anche assai poco attuata.

Di fronte a tutto questo c’è da chiedersi che fa l’UNAR nel suo ruolo di  punto di raccordo e coordinamento della Strategia Nazionale di Inclusione e se, per evitare che vicende del genere continuino ad accadere, non sarebbe il caso di portarle all’attenzione della Magistratura perché indaghi se nell’accaduto non si rilevino responsabilità da perseguire sia a livello politico che a amministrativo.

Intanto l’apartheid dei Rom e dei Sinti, a Roma (e non solo) continua.

(*) ripreso da “Articolo 21

 

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