Sulla «Trilogia steampunk» di Paul Di Filippo

Alla fine anche il sospettoso db incontrò lo steampunk, anzi un’intera trilogia. Ma prima di «disambiguare» (come direbbe santa Wikipedia, protettrice dei velocisti, degli smemorati e dei pigri) è il caso di spiegare cosa designi il termine steampunk. Il termine – inventato o quanto meno reso popolare dallo scrittore Karl Jeter – rimanda a un ramo del fantastico che propone un Ottocento alternativo. Per l’appunto wikipediando si può così sintetizzare: «un mondo anacronistico – a volte una vera e propria ucronia – in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam in inglese) anziché dalla energia elettrica; dove i computer sono completamente analogici […] . Un modo per descrivere l’atmosfera steampunk è riassunto nello slogan “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima” […] Concepito per descrivere la fantascienza ambientata in epoca vittoriana, steampunk è diventato d’uso comune per molte forme analoghe di speculative fiction ambientate in secoli anche successivi all’Ottocento, o in mondi diversi dalla Terra, ma pur sempre con fortissimi riferimenti al Lungo XIX Secolo, alla rivoluzione industriale e al romanzo scientifico ottocentesco».

Fatta questa promessa, vado a “disambiguare”: non parlerò del movimento (avendo finora solamente sfogliato qualcosa come potrei?) ma della «La trilogia steampunk» di Paul Di Filippo che ho appena letto nella traduzione di Salvatore Proietti il quale, al solito, regala anche una succosa introduzione. Il volume esce da Delosbooks nella collana Odissea ma essendo triplo (318 pagine) rispetto alla solita foliazione costa un po’ di più (14,90 euri).

Il primo (e il più breve) dei tre romanzi è «Vittoria». Il titolo rimanda ovviamente alla ottocentesca regina inglese ma anche all’omonimo tritone, trasformato in un essere femminile quasi umano da un «deplorevole gioco scientifico» del giovane scienziato (e «gentiluomo» va da sé) Cosmo Cowperthwait che poi la spedisce in un bordello dove è molto apprezzata perché fornisce «un’esperienza sessuale innovativa». Per una serie di intricate vicende, che qui non è il caso di svelare, la Vittoria destinata al trono e l’altra che si nutre di mosche sembrano destinate a scambiarsi di ruolo. Prima della fine quasi lieta incontreremo lady Ottoline Cornwall («una donna di nome Otto»), «l’uomo dal naso d’argento» (lord Chuting-Payne), un melanconico primo ministro e intrighi a go-go.

Nel lungo «Ottentotti» il protagonista è Louis Agassiz, un mediocre scienziato svizzero (e fanatico razzista) che, mentre si trova negli Usa, viene trascinato in un pasticcio magico-erotico-politico. Lo stesso Agassiz dice: «Fatemi riassumere: uno stregone ottentotto, in possesso di una reliquia magica è inseguito da un mezzosangue polacco-irlandese e da un Crociato medioevale e noi dobbiamo aver la meglio su di loro per arrivare per primi alla reliquia». Proprio così. Ma lo scienziato si può fidare di Jacob Cezar e della (per lui disgustosa, «una scimmia») Ng!datu, detta Dottie Baartman, figlia della famosissima «Venere Ottentotta»? O sarà meglio accordarsi con Feargus Kosciusko, esponente del «messianesimo polacco»? Magari il terzo (o quarto?) incomodo può risultare vincente: è Hans Bopp, «ultimo superstite dei Cavalieri Teutonici». Strada facendo bisognerà fare i conti con gli effetti della canapa (indiana), con un certo Marx e altri illustri personaggi del tempo, con gli abolizionisti e le suffragette, sino a un finale pirotecnico, con nemesi sessuale e scientifica. Se leggete troppo di fretta vi scapperanno alcune battute geniali, in particolare quando entra in scena (per subito uscirne) Melville.

La terza vicenda concerne «Walt ed Emily» che di cognome fanno nientepopodimenoche Whitman e Dickinson, ovvero le vette della poesia in quel grande Paese che (la cattiveria è di Oscar Wilde non di Paul Di Filippo) arrivò alla decadenza senza passare dalla civiltà. I due si trovano coinvolti in una tipica truffa parapsicologica con molte sorprese erotiche, cronologiche (cosa ci fa Allen Ginsberg nel 1860?), poetiche e naturalistiche (a esempio una montagna ermafrodita e un’erba generatrice). Nei dialoghi l’autore ricicla, in chiave per lo più ironica, i versi di Walt e soprattutto di Emily. Alto «virtuosismo letterario» annota Proietti nell’introduzione ma anche una dolce dissacrazione dei mostri sacri della poesia detta “americana” (in realtà statunitense).

I tre libri sono uniti da molti fili ma abbastanza differenti. Proietti li definisce, a ragione, così: «più rabbioso il primo, acido il secondo, intenso il terzo».

In definitiva? La copertina strilla che questo è «uno dei libri cardine del più affascinante tra i generi letterari». Io preferisco di gran lunga la fantascienza ma riconosco a Di Filippo di aver costruito tre storie godibilissime. Dovessi suggerire una morale (che non c’è) mi affiderei al vecchio Walt: «Schiodate i catenacci dalle porte! Schiodate le porte stesse dai cardini! Se siamo a un’ora sola dalla pazzia e dalla gioia, allora non mi imprigionate!». L’esclamativo va usato con discrezione ma con Whitman è d’obbligo. (anzi: d’obbligo!)

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