Sveliamo il velo ma…

l’impegno non può essere elitario

di Lella Di Marco

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In riferimento al post «Il velo nell’Islam…» (*) dico la mia: non sono araba nè musulmana, anche se scherzando – non tanto, con riferimento alle mie origini siciliane, senza rinnegare i 50 anni di permanenza a Bologna – amo definirmi arabo/normanna e ne sono fiera.

Ho accreditate frequentazioni in bottega e con donne arabe musulmane per poter dire, senza creare equivoci, che i presupposti del dibattito da iniziare non mi piacciono. Il rischio è creare ulteriore confusione culturale, ideologica, religiosa, provocare risentimenti e magari bruciare in fretta la possibilità reale di dibattito, confronto, ricerca, azioni concrete non accademiche o elitarie.

Il problema c’è, come esistono la voglia di capire e di entrare di più in un fenomeno che ci sfugge, in una cultura di cui conosciamo poco e della quale siamo noi i/le prim* a diffidare, valutando e “criticando” i comportamenti con i nostri parametri occidentali in ultima analisi neocolonialisti.

Leggiamo quanto viene pubblicato in merito, soprattutto in Italia, e in particolare le riflessioni delle femministe arabe, musulmane e non. Ciò però non basta alla conoscenza reale e ad aprire un confronto-discussione-approfondimento con le donne arabe con le quali siamo in contatto. A noi che lavoriamo in associazioni con donne migranti, fondamentalmente del Maghreb e del Medio Oriente, le richieste di contributi etno/antropologici, arrivano di continuo, dalle istituzioni e dall’Università ma questo non significa alimentare un dibattito costruttivo.

Segnalo il sito http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/ dove è comparso un nostro contributo sul senso della bellezza nell’Islam che comprende anche una riflessione sul velo, per dire che l’attenzione esiste ma da parte di un pubblico colto, non prevenuto e italiano. La scommessa è come portare la discussione fuori dai siti accademici o giri ristretti di intellettuali.

Un lettore che si occupa di formazione in scienze neurolinguistiche e comunicazione, dopo la lettura mi ha scritto «ho letto con interesse, il suo bello, interessante, lungo e documentato articolo. Un’immersione in informazioni vere, atmosfere piacevole e valutazioni opportune, ma soprattutto chiarificatrici sulle molte confusioni, volute o meno, che si fanno sull’argomento, sugli argomenti da lei trattati». Mentre le conoscenti donne, femministe e non, sottolineano in quel contributo l’importanza di alcune segnalazioni ma accentuano l’attenzione sul fatto che molte questioni culturali e in fondo politiche sono VELATE DAL VELO ma sono uguali a quelle delle donne di tutto il mondo e dell’uso politico che si fa del loro corpo.

Sono ovvie certe alleanze politiche… ma qualcuna/o ha mai pensato che i problemi dell’«altra metà del cielo» possano essere risolti da chi li crea e li alimenta ?

Mi sembra utile in questa sede – con la “ velocità” spesso praticata dal Barbieri – citare un breve commento di Antonella Selva, dell’Associazione sopra i ponti di Bologna (per contatti: sopraiponti@alice.it) attenta ai problemi che riguardano l’Islam e i Paesi arabi, impegnata in microprogetti di cooperazione internazionale con il Marocco e nel “meticciato “ auspicabile in Italia.

L’articolo, che ricalca peraltro toni e argomenti molto diffusi nella stampa occidentale e di orientamento “femminista”, presenta 2 aspetti di debolezza:

1- L’articolo confonde (consapevolmente) il contesto europeo e il contesto dei Paesi islamici, che invece presentano situazioni diverse e in alcuni punti addirittura opposte. In Francia vige dal 2004 una legge dello Stato che VIETA alle donne di indossare il velo in luoghi pubblici in nome della “laicità dello Stato”, una laicità che assume tinte paradossali nel momento in cui in nome della libertà e uguaglianza di tutt* i/le cittadin* di fatto limita la libertà individuale di alcune cittadine e rafforza le basi della discriminazione verso un’intera categoria; la Francia in questo rappresenta la punta estrema, avendo legiferato in materia, ma in tutti gli altri Paesi europei esistono simili dinamiche che anche se non si sono (ancora) espresse in modo formale agiscono pesantemente nella cultura e nella società; inoltre l’articolo ignora l’eredità coloniale che ancora pesa sulla segmentazione sociale con la “razzizzazione” e conseguente stigmatizzazione del proletariato. L’hijab day (che a me è parso una forzatura, comunque) va letto in questo contesto, non in quello rovesciato dei Paesi a maggioranza islamica;

2 – L’articolo non tiene conto delle potenti dinamiche in atto nei Paesi arabi e musulmani di empowerment femminile (dinamiche osteggiate dall’establishment al potere, ovviamente). In queste dinamiche la questione del velo è presente in modo ambivalente perché se da un lato rappresenta un’accettazione dell’ordine patriarcale di cui liberarsi, dall’altro è anche un mezzo per allargare e rafforzare lo spazio e il potere delle donne all’interno di società tradizionali e dunque introdurre cambiamenti in quelle società.

 

Diversa è la questione della lettera della ragazza che si definisce “musulmana laica” a Renzi, che avevo già letto perché è girata su fb. Quella mi sembra più una questione personale o di lobby: lei o il suo gruppo (se esiste, ma mi dà più l’idea che parli per se stessa) sperava di sfruttare il suo posizionamento musulmano per fare carriera col PD ma è stata superata dalla musulmana “ad alta visibilità” – problemi suoi. Da osservatrice esterna non posso però non constatare che Sumaya Abdelkader, la musulmana visibile, ha dimostrato in anni di lavoro una capacità di interagire con le dinamiche politiche e culturali del Paese (ha pubblicato in anni giovanili il libro «Porto il velo adoro i Queen») e un radicamento nella comunità di riferimento (è lei che ha organizzato la biciclettata delle musulmane milanesi, a cui hanno partecipato ALCUNE CENTINAIA di donne) mentre dell’altra non si è mai sentito parlare. Del resto lei stessa dice di essere invisibile come musulmana, quindi poi è un po’ contraddittorio pretendere un riconoscimento pubblico proprio per ciò che si vuole marcare come dato irrilevante.

Non ho letto «Perché ci odiano»: dai commenti mi par di capire che è una disamina in stile di pamphlet dei meccanismi del patriarcato, non credo si possano aggiungere grandi novità a quanto già chiarito dal pensiero femminista su questo tema.

(*) cfr Il velo nell’Islam, Sciences Po, il Pd, i silenzi

 

 

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