«Tante scuse» per il genocidio in Canada

di Marco Cinque (*)

a seguire una noticina di db su abusi, Chiese e omertà


Su uno striscione rosso di 50 metri, resi noti finalmente i primi 2800 nomi di bambini indigeni deceduti in «circostanze oscure» nelle Scuole Residenziali Cattoliche del Canada nate grazie alle leggi razziste dello Stato


Del Canada si ha generalmente un’idea di paese molto progredito, rispettoso dei diritti civili e umani, a patto però che non si tratti dei diritti della popolazione aborigena. In tal senso, nel 2010, furono pubblicati su
il manifesto due ampi reportage intitolati «Genocidio canadese» e «La chiesetta in Canadà» (**) dove si raccontavano le leggi razziali e le politiche di assimilazione forzata imposte al 30% dei bambini indigeni canadesi, soprattutto Métis e Inuit, strappati alle loro famiglie e internati in un sistema di scuole religiose, conosciute come Residential School.

IN QUESTE SCUOLE, istituite a partire dal 1883 e rimaste attive fino al 1996, vennero destinati circa 150mila bambini. Durante il primo ventennio persero la vita almeno il 40% di quelli internati fino ad allora, come riportava, nel 1907, la testata quotidiana Montreal Star. In seguito, secondo un rapporto del dottor Peter Bryce, riferito al periodo tra il 1904 e il 1921, un gran numero di bambini e giovani nativi venivano sistematicamente soppressi in queste scuole, dove i livelli di mortalità erano compresi tra il 30% e il 60%. Una buona parte delle morti negli istituti religiosi avvenne a causa della tubercolosi. Era infatti pratica corrente mescolare deliberatamente bambini sani a bambini malati. Una volta infettatati, agli ospiti degli istituti non venivano fornite cure ed erano lasciati morire.
Dopo reiterate proteste e denunce alle quali, nel 2008, seguirono le scuse ufficiali dell’allora premier Stephen Harper, in questi giorni è giunta la notizia che molte famiglie delle vittime aspettavano: dopo tanto silenzio sono stati finalmente resi noti i nomi di 2.800 bambini indigeni deceduti in circostanze oscure nelle scuole residenziali canadesi, a cui in seguito se ne dovranno aggiungere altri 1800. Un primo passo verso l’ammissione di un genocidio di proporzioni decisamente più ampie, rispetto al quale Ry Moran, direttore d’origine Métis del National Research Centre for Truth and Reconciliation, ha affermato: «È fondamentale che questi nomi siano conosciuti».

GRAZIE a una meticolosa ricerca durata quasi 10 anni, molti bambini nativi scomparsi sono adesso usciti dall’anonimato e i loro 2.800 nomi sono stati stampati su uno striscione rosso lungo 50 metri, pronunciati poi uno ad uno durante una commovente cerimonia tenutasi al Canadian Museum of History di Gatineau. Le immagini dell’evento sono state documentate dalla Rete televisiva delle comunità indigene, nella giornata dedicata alla memoria delle vittime delle Residential School.

Da quando la tragedia delle violenze, delle sterilizzazioni, degli stupri e degli omicidi di bambini indigeni nelle scuole residenziali religiose canadesi (su 118 Residential Schools, 79 erano cattoliche romane e dipendevano direttamente dalla Santa Sede) è stata resa pubblica, si sono espressi dubbi, ipotizzando una campagna di disinformazione o considerando la denuncia alla stregua di una strumentale esagerazione giornalistica. Basta però approfondire molti aspetti del vecchio sistema legislativo canadese per rendersi conto di come sia stato possibile per le istituzioni politiche e religiose macchiarsi di simili crimini. Ad esempio con la Gradual Civilization Act del 1857, legge che obbligava le famiglie indigene a firmare un documento che trasferiva alle scuole residenziali cristiane i diritti di tutela dei loro figli. Ma il trasferimento legale dei diritti di tutela si trasformava anche in trasferimento dei beni dei bambini deceduti, così le scuole residenziali hanno lucrato su quelle morti, appropriandosi di terre che poi rivendevano soprattutto alle multinazionali del legname. Logico quindi dedurre che i piccoli aborigeni fruttassero più da morti che da vivi. Per non parlare del proficuo traffico di cavie umane che le scuole religiose fornivano agli apparati militari per i loro esperimenti.

COME SE NON bastasse, vennero istituite anche altre leggi razziali, tra cui la Federal Indian Act del 1874, tutt’ora in vigore, che ribadisce l’inferiorità legale e morale degli indigeni. Infine, nella British Columbia, la Sterilization Law, approvata nel 1933 e tuttora attiva, che ha consentito sterilizzazioni di massa attuate nei confronti di interi gruppi di bambini indigeni quando questi avevano raggiunto la pubertà, in istituti quali la Provincial Training School di Red Deer, in Alberta, ed il Ponoka Mental Hospital.

APPENA lo scorso novembre, rivolgendosi in Parlamento al primo ministro Justin Trudeau, Niki Asthon aveva tuonato: «Si chiama genocidio, si chiama tortura», riferendosi alla tragedia nascosta delle donne indigene che ancora oggi si recano in ospedale per partorire, ma restano invece vittime di strategie subdole. Molte di loro infatti tornano a casa sterilizzate contro la loro volontà, come già denunciato da Amnesty International. Si legano le tube alle pazienti aborigene come forma di controllo delle nascite di quelle popolazioni: «Tagliato, legato, fatto. Da lì non uscirà più niente», sembra essere il grido di guerra dei nuovi generali Custer con la divisa da dottore.

È paradossale pensare che il Paese che più di ogni altro coltiva il suo giardino delle libertà, curando le piante del diritto alla procreazione in forme mai viste, sradichi invece come erbaccia infestante il diritto alla procreazione delle donne native. E sempre a proposito di donne native, un’indagine condotta dal movimento Walk 4 Justice ha rivelato la scomparsa, gli stupri e gli omicidi di almeno 4232 donne indigene dal 1980 ad oggi, come conferma anche un’inchiesta della Nwac (Native Women’s Association of Canada). Anche in questo caso il premier canadese ha solennemente promesso che avrebbe fatto luce su questa mattanza, della quale le istituzioni canadesi avrebbero gravi responsabilità.

TORNANDO alla recente cerimonia di commemorazione di Gatineau, Barney Williams, uno dei sopravvissuti degli istituti religiosi, ha affermato: «Oggi è un giorno speciale non solo per me, ma per migliaia di persone in tutto il Paese. Finalmente portiamo riconoscimento e onore ai nostri compagni di scuola, ai nostri cugini, ai nostri nipoti, che sono stati dimenticati».

QUEL LUNGO striscione rosso su cui campeggiano nomi di bambini che non vedranno mai le loro spoglie, occultate chissà dove, sembra simbolizzare la scia di sangue nativo che attraversa la memoria e il corpo di un paese e del suo razzismo genocida. Un paese ancora incapace di elaborare il proprio lutto, perché non ha mai avuto la sua Norimberga per giudicare e condannare gli assassini, i complici e i mandanti di quei crimini contro l’umanità, per i quali sembra essersi già assolto con qualche scusa di circostanza.

IL VIDEO DELLA CERIMONIA
https://www.youtube.com/watch?v=6KH6HGkYI2c&t=2s


(*) pubblicato su «Il manifesto», 8 ottobre 2019

(**) ripresi anche in “bottega”: Marco Cinque: genocidio canadese e Marco Cinque: La chiesetta in Canadà

UNA NOTICINA [di db]

Il primo dei due articoli di Marco Cinque, ripreso nel 2010 in “bottega”, suscitò molti commenti e una piccola polemica con due post: Non mi convince il «genocidio canadese» e Il «genocidio canadese» e la fabbrica delle notizie. Oggi che ne sappiamo molto di più, a me sembra significativo che dalla tragica vicenda canadese esca una triste conferma a un fenomeno purtroppo molto più esteso. Come in Irlanda, negli Usa o in Cile – per dire le tre vicende più clamorose – appena si parla di sacerdoti pedofili, di assimilazione forzata (spesso con un numero molto alto di morti) o di abusi all’interno di scuole religiose – perlopiù cattoliche – scatta sempre lo stesso meccanismo: prima tutti (o tanti) tengono chiusi gli occhi; poi si cerca di tacitare i testimoni; e alla fine quando la notizia “scoppia” iniziano le minimizzazioni (“si tratta di pochi casi”) e le promesse (“non accadrà mai più”). In Italia – un piccolo Paese tuttora succube del Vaticano – è anche peggio. Ci fanno vedere il film «Il caso Spotlight» e si traduce il libro dello staff investigativo di The Boston Globe ma la maggior parte dei media tendono a presentare questa vicenda come una faccenda solo “americana” e a strombazzare, ingigantire, acclamare il papa quando dichiara «sono profondamente addolorato» e promette giustizia… che però non arriva. Anche perchè le regole non cambiano. I nostri media non hanno ripreso e tantomeno approfondito le denunce della Rete «L’abuso» (cfr Preti pedofili: in Italia “200 casi insabbiati”) e hanno taciuto sul documentatissimo libro «Giustizia divina» dove Emanuela Provera e Federico Tulli raccontano come in Italia «la Chiesa protegge i peccati dei suoi pastori» (vedi: Non lasciate che i bambini vadano a loro). Così intorno a questo groviglio di crimini, omertà e bugie a livello di media sappiamo solo quel che dice (e quasi sempre NON fa) il papa. Qui in “bottega” ne abbiamo scritto spesso ma è sempre troppo poco. Quello che succede in Canada – e altrove – ci deve incoraggiare a rompere il tabù e a indagare su quel che è successo (e succede) in Italia. Ci riguarda tutte e tutti. Il silenzio è complice.

Redazione
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2 commenti

  • Stefano ginottistefa oe

    Per quanto riguarda il Canada lo apprendo solo ora ed ancora una volta di più la dimostrazione che l’uomo bianco è la razza peggiore del mondo. Per quello che riguarda i preti pedofili sembra che ne prendano atto ora.

  • Daniele Barbieri

    Storie scomode che i massmedia ignorano; in Italia poi fare un dispiacere al Vaticano non si può … e chi se importa dei bambini italiani fiiiiiiguriamoci di quelli nativi in Canada.
    Fortuna che c’è Federico Tulli e che il settimanale “Left” rilancia. Sul numero un edicola (fino a domani) trovate il suo articolo “Le scuole della vergogna” dove riprende e amplia la storia raccontata da Marco Cinque, riportando anche la testimonianza di un sopravvissuto agli abusi delle Residential School.

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