Terre rare, tecnologie, schiavismo e padroni del mondo

Un dossier di Saverio Pipitone (*) fra l’Africa rapinata, la Cina, Dubai, gli Usa e l’Europa del “corri e getta”

Terre rare – in inglese rare earth elements e in sigla REE – è un termine che deriva dalla scoperta nel 1787 del chimico e militare svedese Carl Axel Arrhenius di un minerale nero estratto in una cava nel villaggio di Ytterby in Svezia che chiamò itterbite ma oggi è noto anche come gadolinite. Fino all’inizio del Novecento furono trovati altri minerali affini, da cui vennero sintetizzati ossidi non comuni classificandoli come terre rare per la limitata diffusione: riempirono le caselle vuote della tavola periodica inventata nel 1869 dal chimico russo Dimitri Mendeleev, trattandosi in particolare di 17 elementi: scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, lutezio e itterbio.

Sono sostanze che servono a produrre elettronica e tecnologia per smartphone, tablet, computer, monitor, schede madri, stampanti, televisori, magneti, catalizzatori, laser, fibre ottiche, lampade, pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, batterie per veicoli elettrici, missili Cruise e altro.

Il più importante possessore di terre rare è la Cina con riserve minerarie per 44 milioni di tonnellate e una produzione annua di oltre 105.000 tonnellate. Le risorse sono concentrate per il 70% nella regione della Mongolia Interna, specialmente nella zona di Baotou che il giornalista Tim Maughan in un reportage del 2015 per l’emittente televisiva BBC ha definito «un inferno sulla Terra», descrivendo uno scenario apocalittico di inquinamento ambientale e di lavoro schiavista: «È il tipo di paesaggio industriale – afferma – che l’America e l’Europa hanno in gran parte dimenticato».

Nell’ultimo trentennio il capitalismo ha rivoluzionato l’economia mondiale con una metamorfosi dei Paesi ricchi da “solidi” produttori a “fluidi” consumatori da spremere e indebitare per non interrompere il circuito di fruizione di merci con un ciclo produttivo, dalla materia prima al prodotto finito, eseguito prevalentemente nei Paesi poveri o in via di sviluppo che rappresentano la nuova “classe proletaria”.

Le multinazionali statunitensi, europee e giapponesi fanno costruire in Cina la maggior parte dei prodotti elettronici, materiali elettrici e apparecchiature d’ufficio, per poi commercializzarli nel mercato globale. Per supportare il processo di produzione, le imprese cinesi, oltre alle terre rare presenti nei loro territori, necessitano di altri minerali che si trovano in Africa e per accaparrarseli investono ingenti capitali: nel 2016 la China Molybdenum del miliardario Yong Yu ha acquisito dall’americana Freeport-McMoRan per 2,65 miliardi di dollari il giacimento di Tenke Fungurume nella Repubblica Democratica del Congo che produce 1/4 del cobalto nazionale; nel 2018 la svizzera Glencore ha stipulato un accordo con la cinese Gem Co per fornirle – sino al 2020 – 52.800 tonnellate di cobalto congolese.

Un’industria cinese a cui occorre cobalto è la BYD, acronimo di Build Your Dreams, con sede a Shenzhen che costruisce veicoli elettrici, dalle auto agli autobus. Il fondatore Wang Chuanfu (un imprenditore), in collaborazione con il cugino Lu Xiangyang (ex dirigente della Bank of China), scommise sulla green business per un progetto di elettrificazione della mobilità futura e ai dubbiosi investitori che chiedevano dove avrebbe preso il cobalto per le batterie, rispondeva: «Andremo a cercarlo in Congo, sono nostri amici». Convinse persino Warren Buffett, l’oracolo di Wall Street che non ha mai sbagliato un investimento, possedendo azioni BYD per il 24% negoziate alla Borsa di Hong Kong.

Il cobalto serve pure a Tesla, Volkswagen e BMW per le automobili ibride, come ad Apple e Samsung per gli smartphone. Questi colossi ne domandano sempre più e nel 2017 quello congolese ha coperto il 67% della richiesta mondiale, determinandosi un’impennata del prezzo che da gennaio 2016 a luglio 2018 è triplicato passando da 10 a 32 dollari la libbra, con ingenti guadagni che in Congo vanno a vantaggio di governanti o signori della guerra in combutta a corporation straniere e a svantaggio di almeno 100.000 lavoratori, di cui 40.000 bambini – dato Unicef del 2014- che lo estraggono a mano o con strumenti rudimentali per 12 ore al giorno alla misera paga di 2 dollari. (**)

Il presidente del Paese africano Joseph Kabila – succeduto nel 2001 al padre Desiré Laurent Kabila (ucciso in una congiura) – è al secondo e ultimo mandato. Le elezioni sono state finora più volte rimandate perché lui non vuole lasciare il potere e, nel frattempo, ha promulgato una nuova legge che incrementa la tassazione dal 2 al 10% sulle sostanze strategiche minerarie allo scopo di riempire le casse governative. L’accaparramento dei minerali è dal 1994 una delle cause dei tremendi conflitti nazionali, regionali e locali di “tutti contro tutti” fra l’esercito statale e un centinaio di bande armate o gruppi ribelli che in un ventennio hanno devastato il territorio, provocando una drammatica emergenza umanitaria: 2,2 milioni di bambini malnutriti, 13,1 milioni di persone bisognose di aiuti per sopravvivere e oltre 4 milioni di civili sfollati, a cui di sicuro non andranno i proventi dall’aumento dei tributi minerari.

«Dietro la facciata della guerra – spiega il filosofo Slavoj Zizek – si distinguono i contorni del capitalismo globale. […] Nella fitta rete congolese regnano davvero le tenebre, ma il loro cuore è altrove: nei luminosi uffici dei dirigenti delle nostre imprese high-tech».

La miniera di cobalto più capiente del Congo con 300.000 tonnellate per una produzione quarantennale è quella di Mutoshi a Kolwezi nella provincia di Lualaba e a settembre 2019 si concluderanno i lavori di ampliamento per estrarne potenzialmente 20.000 tonnellate annue. Il gestore che ha in concessione il giacimento è la Chemaf del gruppo Shalina Resources con base a Dubai e di proprietà di Shiraz Virji, un imprenditore indiano che dagli anni Ottanta fa affari in Africa, dapprima come commerciante di spezie e poi nei settori dei farmaci e dei minerali.

Il cobalto della Chemaf è venduto alla multinazionale di trading Trafigura Group che ha sede a Ginevra (Svizzera): fondata nel 1993 dal mercante minerario francese Claude Dauphin (deceduto nel 2015) è di proprietà dei circa 600 dirigenti dipendenti fra cui il CEO Jeremy Weir, che proviene da una pluriennale esperienza di responsabile commerciale e marketing per le materie prime nel gruppo finanziario Rothschild dell’omonima famiglia. Nel 2006 Trafigura Group affidò alla nave a noleggio Probo Koala il trasporto, da Amsterdam alla Costa d’Avorio, di un carico di carburanti, idrogeno solforato e idrossido che erano destinati allo smaltimento in sicurezza, ma i liquidi tossici (oltre 500 tonnellate) furono sversati illegalmente in varie discariche abusive nella zona di Abidjan, determinando da un lato un notevole risparmio di costi rispetto a un regolare smaltimento e dall’altro lato un pesante inquinamento ambientale con una cinquantina di morti e mezzo milione di intossicati.

Uno dei maggiori clienti che acquista il cobalto da Trafigura Group è l’azienda belga Umicore, collocandolo nel mercato delle batterie per tecnologia, insieme ad altri minerali che recupera e ricicla nell’ambito della sua principale attività che consiste nella lavorazione di 40.000 tonnellate annue di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, in sigla RAEE.

L’elettronica che consumiamo è basata sul principio dell’obsolescenza programmata con prodotti progettati per durare poco ed essere sostituiti e riacquistati in tempi brevi. Il sociologo Zigmunt Bauman nel libro Homo Consumens (Erickson 2007) asserisce che la strada fra il negozio e il secchio della spazzatura è sempre più corta e rapida, in quanto «un consumatore che non si liberi, a breve, di tutto ciò che ha già acquistato, è un po’ come un vento che ha smesso di soffiare. […] Per una cultura consumista, coloro che si accontentano di ciò di cui credono aver bisogno, e che si sforzano di realizzare quello e nulla di più, sono “consumatori avariati”: quasi reietti sociali, rispetto alla società dei consumi».

Nel 2005 al centro ecologico turistico Eden Project nella britannica Cornovaglia è stata installata la scultura “Uomo RAEE” dell’artista Paul Bonomini con un corpo di oltre 7 metri fatto di mouse (denti), antenne satellitari (orecchie), parti di computer (cervello), forni a microonde, lavatrici, frigoriferi, monitor, tastiere, ferri da stiro, televisori, cellulari, lettori mp3 e tosaerba, per un peso complessivo di 3 tonnellate che corrisponde a quello che un cittadino inglese medio ha gettato nell’arco della vita. L’opera vuole evidenziare lo smaltimento inadeguato e sensibilizzare produttori, distributori e consumatori su un corretto riciclo. Secondo l’ultimo rapporto Global E-Waste Monitor, nel mondo ci sono state 44,7 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici nel 2016 provenienti principalmente da Stati Uniti e Europa con un trend in continua crescita, stimandone 52,2 milioni di tonnellate entro il 2021; ma solo il 20% è regolarmente smaltito da imprese autorizzate come i colossi Shanghai Environment Group (Cina), Waste Management e Republic Services (Stati Uniti) mentre la restante parte si perde nei recuperi illeciti fra inceneritori, discariche a cielo aperto e sepoltura nel suolo. Nel 2017 i Carabinieri Forestali italiani hanno scoperto ingenti carichi di rifiuti elettronici nelle zone di Vicenza e Brescia che erano pronti per essere trasferiti in container nel porto di Genova in direzione Marocco, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana, per estrarvi illegalmente piombo, mercurio, cromo, cadmio e bario, come avviene nella capitale ghanese di Accra con una gigantesca discarica di RAEE che contamina aria, acqua e terreni, generando casi di bronchite, asma e tumori fra gli abitanti.

A eccezione di Chemaf, Shalina Resources e Trafigura Group, tutte le altre aziende menzionate sono quotate in Borsa e un azionista che hanno in comune è Vanguard Group, il più grande gruppo mondiale del risparmio gestito. Con quartier generale in Pennsylvania, è stato fondato nel 1974 dal magnate della finanza John Bogle, per gli amici Jack, che prese il nome dalla vincente nave inglese Vanguard del contrammiraglio Nelson nella battaglia del Nilo del 1798 contro i francesi. Proviene da ricche famiglie americane di origine scozzese: il bisnonno materno Philander Banister Armstrong era all’inizio del 1900 un manager alla presidenza della compagnia assicurativa Excelsior Fire che all’epoca fu messa in amministrazione controllata per l’emissione di fatture false di ben 137.500 dollari; il nonno paterno William Yates Bogle Senior era un imprenditore dell’industria conserviera e sanitaria, fondando la American Brick Corporation e la Sanitary Can Company, ma entrambe ebbero problemi finanziari. John Bogle è classe 1929, l’anno della “grande depressione” che colpì duramente rendite ed eredità familiari, portando il padre William Yates Bogle Junior all’alcolismo e al divorzio dalla moglie Josephine Lorraine Hipkins. Si laureò nel 1951 con lode in Economia, discutendo una tesi sull’industria dei fondi comuni d’investimento, nella prestigiosa Università di Princeton che era molto selettiva ammettendo solo componenti dell’alta borghesia e in tal modo creando un’élite studentesca con la garanzia di un futuro privilegiato, soprattutto se si era anche membri di una confraternita: a Princeton vi era quella dei Chi Phi, una delle prime fondate nel 1824.

In una lettera agli azionisti del 2016, lo stesso Warren Buffet affermò: «Se una statua deve essere costruita per onorare colui che ha dato il massimo agli investitori americani, è di John Bogle. Per me e per milioni di investitori è un eroe». In un quarantennio ha introdotto, diffuso e consolidato nel settore globale del risparmio gestito dei prodotti semplici, efficaci e a basso costo che hanno arricchito milioni di investitori con la movimentazione di una abnorme massa di denaro.

Nel 1995 il giornalista Ignacio Ramonet sul periodico francese Le Monde Diplomatique scriveva: «Chi sono, in questa fine di secolo, i veri padroni del mondo? Chi detiene, al di là delle apparenze, il vero potere nei Paesi democratici sviluppati?» indicando Vanguard Group, Fidelity Investments e Capital Research & Management come i mastodonti finanziari che controllavano capitali per 500 miliardi di dollari. E oggi Vanguard Group da solo gestisce circa 5.000 miliardi di dollari e le proiezioni dell’agenzia di stampa economica Bloomberg stimano che raggiungerà i 10.000 miliardi entro il 2023, arrivando al traguardo prima del principale competitor (e fondo di private equity) BlackRock che attualmente è a quota 6.000 miliardi, in una “gara” per il controllo del mercato finanziario combattuta a colpi di taglio dei costi mediante l’utilizzo di robo-advisor con sistemi di intelligenza artificiale che processano dati ed elaborano strategie di investimento, in sostituzione del lavoro umano, allo scopo di offrire prodotti sempre più low cost.

La proprietà di Vanguard Group è degli stessi fondi che gestisce, molti dei quali More Risk More Reward (rischiosi e remunerativi) su cui i piccoli risparmiatori privati, operatori finanziari e investitori istituzionali investono divenendo una sorta di azionisti che partecipano ai profitti.

Se come narra l’aneddoto africano, chiunque – compresi gazzella e leone – sa che nel continente nero quando sorge il sole dovrà cominciare a correre per sopravvivere, nell’opulento Occidente ogni consumista sa che quando si sveglia dovrà andare di corsa ad acquistare l’ultimo esemplare di smartphone, buttando via il vecchio e ancora funzionante modello di appena un anno fa, mettersi a bordo di una moderna auto elettrica atteggiandosi da ecologista (ma di fatto usata soltanto per entrare nella ZTL dei centri storici nel proseguimento dello shopping) poi fare bancomat e richiedere l’estratto conto bancario per controllare i punti percentuali di guadagno sui risparmi investiti nei fondi di grossi gruppi finanziari per speculare nella produzione e distribuzione di quei superflui beni di consumo che nei Paesi ricchi sono indispensabili allo stile di vita, mentre in quelli poveri sono sinonimo di sfruttamento umano e devastazione ecologica.

(*) ripreso da saveriopipitone.blogspot.com

(**) cfr Fermiamo il lavoro minorile nelle miniere di cobalto del Congo; lì trovate altri link su questa tragedia invisibile (grazie ai media)

NELL’IMMAGINE – scelta dalla “bottega” e presa in rete – un’opera di Paul Bonomini fatta di rifiuti elettronici.

 

Redazione
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Un commento

  • aggiungerei che la corsa per accaparrarsi i minerali preziosi recentemente scoperti (il nuovo “oro”) oltre che di quelle tradizionali (per primo ilpetrolio e il gas) è all’origine delle guerre locali permanenti fomentate dalle grandi potenze e delle varie missioni militari fra le quali quelle francesi e italiane in Niger, Libia, e altrove e della guerra nascosta fra queste potenze … queste guerre e la devastazine dei territori di diversi paesi è all’origine della attuali migrazioni disperate …

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