Timbuktu. La poesia che svuota la barbarie

 

di Flore Murard-Yovanovitch (*)

Una gazzella scappa, in filigrana. L’immagine apre e chiude «Timbuktu» di Abderrahmane Sissako (nelle sale italiane dal 12 febbraio). Il

simbolo della grazia fragile terrorizzata di fronte alla gratuita follia trucidatrice jihadista.

Una donna canta. La colpiscono a frustate. Lei canta più decisa. Libera. Nelle notti stellate di antiche città affacciate sul deserto, nonostante i coprifuochi e i divieti islamisti, degli esseri umani vogliono ancora suonare, sognare e amare. Ma proprio quelle libertà sono prese di mira da pazzi jihadisti che bandiscono canti, balli, manoscritti, strumenti e poemi; progettando di sradicare dalla società ogni sensualità; di svuotarla della vista stessa. Da Eros e Psiche.

Con assurdi decreti, come anche prendere il pesce con le mani nude, giocare al football, parlare al cellulare, rivolgere un sorriso a uno sconosciuto, avere una ciocca di cappelli o i pantaloni corti. Nel delirio purista di una presunta legge islamista che si cerca di imporre a tutti, ma che in realtà viola proprio i principi fondanti dell’Islam: tolleranza, pace e nonviolenza. Quei nuovi barbari armati vogliono far ripiombare la millenaria città di Timbuktu, come accadde nell’estate 2012 quando la capitale maliana fu conquistata dai gruppi salafisti, in un assurdo medioevo dove regni solo l’arbitrarietà del loro potere assoluto.

A sbarrar loro la strada, il geniale simbolo di una folle strega vaudou incantatrice – inno del regista mauritano a un’immagine femminile libera, che attinge alla fantasia per opporsi alla violenza. Illuminare la cecità. Svelare l’ipocrisia. Perché quei soldati della fede, che proibiscono palloni e sigarette, sono soprattutto ridicoli, imbranati nei loro stessi “comandamenti”, primi a fumare in segreto e a dibattere dei goal dei “Bleus” o ad usare la tv come propaganda. In un’insanabile contraddizione tra il voler smontare un’intera civiltà occidentale e farne intrinsecamente parte, anzi, esserne forse la reazione e più mostruosamente malata (ma interna all’Occidente NdA).

Invece di analizzare politicamente o rappresentare spettacolarmente l’ascesa del jihadismo nel cuore del deserto africano, il regista mauritano sceglie la favola, la poesia. Il vento, il sussurrato, l’equilibrio pastorale, l’amore libero, che non può essere sconfitto, di due tuareg, lì tra le dune appartate, sotto tende colorate, dove si canta ancora e si trasmettono saperi e conoscenza, cantando poemi. Sissako sconfigge la barbarie con il linguaggio delle immagini. Di una potenza magnifica. Geniale anche l’immobile partita di calcio con un pallone invisibile (perché vietato) che dice della possibile resistenza e della ridicola stupidità dell’oscurantismo (di qualsiasi monoteismo fanatico).

È una meraviglia. Niente didattismo. Questo capolavoro, candidato all’Oscar come miglior film straniero, intuisce e avverte però che ciò di cui il fanatismo islamista ha più terrore è (sempre) la donna; e il rapporto uomo-donna creativo. Con questa visionaria opera, il poeta regista svela che quello che il nuovo fascismo jihadista vuole sradicare, soffocare e azzerare, è proprio la fantasia. Merci Sissako.

(*) Flore Murard-Yovanovitch è scrittrice e giornalista nata a Parigi, si è laureata in Storia alla Sorbona, vive a Roma ed è autrice di «Derive. Piccolo mosaico del disumano» (Stampa Alternativa). Riprendo questo suo post da «Comune info»… aspettando la recensione del nostro Ismaele. (db)

 

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