Tirare il sole con le dita
Un doveroso riconoscimento di merito a Franco Basaglia
di Sergio Mambrini
Quando ero molto giovane, cioè molto prima dei miei undici anni, accompagnavo sempre la mia mamma in ogni suo passo. Lei sosteneva il contrario, fatto sta che, usciti dalla porta di casa, ci tenevamo per mano e tiravamo entrambi dove avremmo preferito andare. Spesso la guidavo dove volevo io, giù al porto Catena a vedere se c’era qualche chiatta carica d’argilla per la fornace dell’Anconetta, dove si fabbricavano mattoni e ceramiche. Ero affascinato dal lavorìo del porto, dal formicaio di robusti facchini, dai barconi lenti e pesanti. Per me non esisteva gioco più bello che osservare lo sforzo vitale di quelle persone, di quelle imbarcazioni su quell’acqua tranquilla, vissuta dai pesci e dai tanti pescatori con interessi ovviamente divergenti. I ragazzotti che superavano gli undici anni, come mi sembrava, si tuffavano in continuazione su e giù dal molo. Portavano mutande di tela sgambate che si appiccicavano al loro ventre, nascondendo a fatica la giovane peluria inguinale.
Mia madre mi smuoveva a forza di tirare, promettendomi qualche rana fritta nell’osteria del porto. Mamma era spesso complice dei miei gusti. Lì c’erano persone che cantavano, altre silenziose che si mangiavano le rane assieme a un piatto di riso bollente, alcune bestemmiavano contro l’ingiustizia che pativano. Ognuno manifestava il proprio disagio o il buonumore con sfrontata sincerità. Comunque, non era un luogo per bambini com’ero io. Così, col cartoccio di rane tornavamo lungo la strada a sgranocchiarle.
Certi pomeriggi, passavamo a trovare Amedea nel suo appartamento di via Bacchio. Era la cugina del papà, entrambi figli di sorelle. Il loro affetto reciproco si riversava su di me durante quelle visite, fors’anche perché Amedea non aveva figli. Era sposata con un pacifico camionista, sempre in viaggio su e giù per le difficili strade del nostro Paese, prima che la Fiat spronasse i governi a costruire i primi tratti d’autostrada. Laino, così si chiamava suo marito, passava la sua esistenza “on the road ” senza poter esprimere nulla che assomigliasse, anche lontanamente, a un gesto d’intimità con Amedea. Almeno così vedevo il loro rapporto dal mio osservatorio privato. Fatto sta che quando m’incontravo con lei ero accolto con sorrisi dolci, carezze timide e qualche immancabile bacetto, che ricambiavo con entusiasmo.
La Medea, così la chiamavo io, viveva in uno stanzone al piano terra di un antico palazzo. Lo arredavano ben pochi mobili: un gran tavolo quadro di legno scuro e massiccio al centro della stanza, con attorno qualche seggiola impagliata, la bianca stufa Becchi, un’enorme credenza d’inizio secolo, una macchina per cucire Singer, più vecchia di quella che usava la mia mamma e una ghiacciaia voluminosa dalla quale estraeva una scheggia di ghiaccio traslucido che triturava col martello dopo averlo avvolto in un panno candido. Versava la granita in una caraffa assieme ad un filo di tamarindo. Medea sapeva quanto mi piaceva! Mi chiedeva dei miei giochi con le amichette e, ogni tanto, mi regalava un pastello, sempre di colore diverso dal precedente. Amavo disegnare, soprattutto tirando i colori con le dita bagnate di saliva. Ai bambini appassiona dipingere con i polpastrelli. Il mio impegno artistico era rivolto in modo speciale a sfumare il cielo, specialmente il sole. Era il mio soggetto preferito. Poi donavo le mie opere a Medea, con un certo orgoglio e riconoscenza.
A un certo punto diradammo le viste, perché lei restava sempre a letto. «Ho il mal di stomaco» diceva, ma capivo che nascondeva ben altro. Era smagrita e sempre più trasandata, mal pettinata. I sorrisi e le carezze continuavano, ma sembravano un automatismo. A volte piangeva e non capivo il senso di quelle lacrime. Le portavo i miei disegni ma non mi offriva più il pastello colorato.
Malgrado tirassi la sua mano, mia madre non mi accompagnò più da lei. Seppi che si era ammalata di una strana malattia che però non riguardava lo stomaco ma la testa. Sentivo dire che non c’era più con la testa ma non capivo cosa significasse. Guardavo i miei disegni senza saper più a chi darli. Mi ostinavo a credere che fossero solo suoi e non li davo a nessun altro. Un giorno, mentre pranzavamo, sentii mio padre dire che Medea era stata portata al manicomio per essere curata dalle sue manìe. Così disse mio padre e mi fece paura. Pensai alle mie manìe. Ne avevo tante. Mi piaceva il pane col burro zuccherato e adoravo disegnare, per esempio. Sarei stato portato in manicomio anch’io? Feci finta di niente e continuai a mangiare.
Da allora, ogni domenica, mio padre inforcava la bici e pedalava fino al Dosso, appena fuori città, dove c’era il manicomio. Nonostante le mie insistenze non mi portava mai con sé. Diceva che bisognava avere undici anni per entrare a far visita, non come all’ospedale civile che ne bastavano sei. Non so se fosse vero, però dovetti aspettare ancora quattro anni, finché, nell’estate del cinquantasette mi chiese d’accompagnarlo. Non ero più molto giovane, ma nemmeno adulto. Il mistero di Medea adesso sarebbe stato sciolto. Così credevo allora.
Entrammo in manicomio attraversando il grande cancello. Un ometto in divisa ci aprì il cancelletto d’angolo. Davanti a noi sorgeva un edificio imponente e tutt’intorno un meraviglioso parco, privo di vita. Per prima cosa entrammo in una casetta sulla destra, dove si vedeva un bar. Mio padre bevve un sorso di vino bianco. Guardai con sospetto le poche persone presenti. Erano tutti matti? Anche se mi sembravano strani, mio papà mi assicurò che non lo erano. Uscimmo da lì e percorremmo il vialetto finché scoprii diverse palazzine che mio padre chiamava i padiglioni. Ne scelse uno. Mi disse che era quello femminile. Da lì in poi cominciò il rito delle chiavi. A forza di “apri e chiudi” passammo alcuni corridoi spogli e verdognoli. Poi aspettammo. Sentivo urlare, ma non come al porto. Questi mi sembravano lamenti. Infine un donnone vestito di bianco guardò dentro lo spioncino della porta di ferro, anche lei verdolina, e fece scattare la serratura. Il papà mi sorrise. «Siamo arrivati.» Fatti quindici passi ci fermarono davanti a un fagotto appoggiato sulla parete a sinistra. «Ciao Medea. Guarda chi ti è venuto a trovare oggi». Solo allora capii che quello che vedevo non era un involto ingombrante ma una persona autentica anche se aggrovigliata su se stessa. Aveva le braccia scheletriche che cingevano strette le gambe piegate verso il corpo, dove lei affondava il volto. Lentamente la testa si staccò dal camicione grigio azzurro e mi guardò rassegnata. Allungò una mano e mi carezzò. La riconobbi da quel contatto delicato. Le sorrisi, ma avevo la lingua legata. I suoi occhi esprimevano una gran pena. Si raggomitolò di nuovo premendosi lo stomaco con forza. Non mangiava mai tuttavia non digeriva. Spiegava così la sua situazione. Il papà cercò di rincuorarla ma ottenne l’effetto opposto. Medea si chiuse nel mutismo, guardandoci con pietà. Forse i matti eravamo diventati davvero noi. Restai fermo, imbarazzato e silenzioso. Passarono così alcuni minuti interminabili. Poi Medea si sgrovigliò alzandosi in piedi. Mi diede il solito bacetto sulla guancia che ricambiai confuso e smarrito poi seguii mio papà per ritornare a casa. Clack clack. Le chiavi ripresero a girare.
Amedea non abbandonò più quelle tristissime stanze finché visse. Si spense nel 1977, un anno prima della legge 180, detta anche «legge Basaglia», che portò alla chiusura dei manicomi. Dal mio punto di vista fu una legge che aprì quelle porte per sempre.
Questo ricordo è riemerso dalle profondità della memoria per causa di un piccolo libro di Alberta Basaglia, la figlia di Franco e Franca. A febbraio, la casa editrice Feltrinelli ha finito di stampare «Le nuvole di Picasso», che racconta, dal punto di vista di lei bambina, la rivoluzione portata da suo padre nella psichiatria, oltre a una breve autobiografia di lei stessa psicologa. Racconta così le riunioni notturne di suo papà con altri medici e compagni d’avventura:
«…La realtà è la stessa per tutti, e non importa se la vivi a modo tuo o se fraintendi qualcosa, lei ti spetta comunque di diritto. Grande o piccolo che tu sia. Nessuno ci ha mai lasciato “di là” perché “non erano cose da bambini”… I loro discorsi erano anche i nostri. Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo».
Alberta Basaglia ha alzato con ostinazione i tappeti, dove si nasconde non solo la polvere, ma anche le storie delle persone sofferenti:
«… fascicoli anonimi e ammuffiti… la schiera di bambine e bambini soffiati via e infilati in manicomio come si ficca sotto il tappeto la polvere che non si sa dove buttare».
Vita di una figlia di bravi genitori che la lasciarono guardare di traverso per superare la propria difficoltà visiva:
«…”Ma quando scii come fai?” gli chiedeva, preoccupata, sua madre “Chiudo gli occhi e vado. Lei aveva un brivido, eppure non mi fermava…”. Così ci racconta. E poi, quando se ne tornava a casa con la compagna Adriana e non si spegneva l’eco delle loro risate:
«… “Ma cosa avete da ridere voi due?” mi chiedeva appena entravo in casa. Non mi ci mettevo neanche a spiegarglielo. L’allegria e le risate dei bambini, quelle che fanno venire le lacrime agli occhi, il mal di pancia e la pipì, non sono proprio comprensibili a chi bambino non è più…».
Un libro bello e divertente, seppur racconta storie terribili d’internati nel manicomio, della loro stupefacente liberazione a Gorizia per opera del padre di Alberta, dei suoi giovani collaboratori e anche della “Meglio Gioventù” di quegli anni incredibili. Per la prima volta ho potuto seguire queste vicende emozionanti dallo stesso punto di vista di quel bambino che vide Amedea soffrire. C’è stato in me un sentimento inaspettato di partecipazione affettiva alle vicende dolorose o liete raccontate da Alberta Basaglia. La ringrazio per le sue parole e per la sua vita.
A voi lancio l’invito a leggere «Le nuvole di Picasso» (Feltrinelli editore – 10,00 euro). Mangiatevelo in un sol boccone, se potete. E’ buono e facile da digerire. In più, fa anche bene!
come se l’avessi già comprato, è certo.
grazie della segnalazione e della storia di zia Medea.