Palestina: tiro alla giornalista e…

… e altri orrori: articoli, video e immagini di Amira Hass, Hanin Majadli, Clara Capelli, Ahmad Amara, Mazin Qumsiyeh, Michele Giorgio, Yumna Patel, Gideon Levy, Husam Zomlot, Manuela Valsecchi, Ilan Pappe, Paola Caridi, , Basil al-Adraa, Oren Ziv, Vincenzo Costa, Paolo Desogus, Shireen Abu Akleh, Mauro Biani, Carlos Latuff, Sa’ed Arouri, Dirar Taffeche, Edward Said, Mohammad Bakri

 

Nel 1998 Feltrinelli pubblicò Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele, di Edward Said (Il volume si compone di due brevi memorie di viaggio che si possono leggere come due intensi pamphlet: l’uno, contro Israele; l’altro, contro Arafat. Più intimo e personale, il primo; più esplicitamente politico, il secondo).

a p.86 il suo amico Israel Shahak dice: “Nulla potrà spazzare via questi insediamenti, se non una catastrofe naturale o un’operazione militare veramente devastante. Diversamente, resteranno per sempre”, parole del 1996.

 

 

I GIUDICI DELL’ALTA CORTE SANNO CHE ISRAELE NON DOVRÀ AFFRONTARE SANZIONI PER GLI SFRATTI DI MASAFER YATTA – Amira Hass

 

 

A partire da questa mattina, in qualsiasi momento, l’amministrazione civile, le forze di difesa israeliane, la polizia di frontiera e la polizia regolare possono inviare dozzine – e se necessario, anche di più – di soldati e agenti di polizia in otto villaggi a Masafer Yatta e con le pistole puntate su di loro, caricare su camion e autobus centinaia dei loro residenti: anziani, giovani, donne e bambini. E questo sarà fatto con il sigillo di approvazione da parte dell’Alta Corte di Giustizia israeliana.

Da oggi, i subappaltatori che lavorano per l’Amministrazione Civile, accompagnati da funzionari e soldati, sono liberi di distruggere non solo una piccola capanna o un recinto per animali, ma dozzine di case, comprese le grotte scavate nella roccia per fungere da residenze molto tempo prima dell’istituzione dello Stato di Israele. Tutto ciò è reso possibile dalla decisione dei giudici David Mintz, Isaac Amit e Ofer Grosskopf di respingere le istanze presentate dai residenti di Masafer Yatta contro il loro sfollamento continuo.

La decisione è stata pubblicata sul sito web della Corte Suprema il Giorno della Memoria, la vigilia del Giorno dell’Indipendenza, quando gli ebrei celebrano la fondazione dello Stato di Israele e i palestinesi sono addolorati per la perdita della loro patria, la loro espulsione e il fatto di essere diventati rifugiati. I giudici dell’Alta Corte non avrebbero potuto programmare meglio il rilascio della loro sentenza che approva l’espulsione e pone fine allo stile di vita di questi palestinesi, che si è sviluppato in più di 100 anni ed è caratterizzato da interconnessioni familiari, economiche, sociali e culturali e dipendenze tra i villaggi e tra questi e il centro urbano più vicino. La distruzione di otto dei circa 14 villaggi distruggerà il tessuto storico e geografico della vita nell’area.

Nel dibattito storiografico sul fatto che Israele sia nella sua essenza e nel suo carattere un’entità coloniale di insediamento, i giudici hanno espresso una posizione ferma: certamente lo è. Perché l’essenza del colonialismo dei coloni è la presa di terra da parte di una popolazione immigrata mentre espelle i suoi indigeni (nel caso più estremo commettendo un genocidio), negando il loro legame con la terra ed escludendoli totalmente dal nuovo ordine politico che gli immigrati hanno creato. In quest’ordine, in cui la popolazione indigena non ha voce in capitolo né alcun diritto, è naturale che i nuovi governanti decidano che un particolare pezzo di terra è necessario per il proprio esercito. O forse più coloni. O forse entrambi. La trasformazione di Masafer Yatta in Firing Zone 918 è solo un altro livello in un processo che va avanti da oltre un secolo tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, e serve come esempio della continuità della politica israeliana.

I giudici hanno respinto in modo denigratorio le prove fornite dai residenti – testimonianze orali, documenti e prove fisiche dall’area attuale – attestanti il loro legame con il luogo, passato e presente. E in effetti, il rifiuto della memoria storica e familiare della popolazione indigena è una parte essenziale di un ordine politico di insediamento coloniale, in cui non si tiene conto della sua voce o del suo passato. I giudici hanno adottato con entusiasmo la posizione dello Stato, secondo cui i residenti di Masafer Yatta avevano invaso la zona solo dopo che l’esercito l’aveva dichiarata zona di addestramento nel 1980. In altre parole, secondo la Procura di Stato e l’Alta Corte, una popolazione di contadini e pastori, che conducono vite molto semplici, complottarono in malafede per impedire che la zona venisse trasformata in un campo di addestramento militare,

I giudici hanno scelto di ignorare i modi in cui i villaggi e le frazioni palestinesi sono nati e sono stati creati nel corso dei secoli. Quando la popolazione cresce e il numero di pecore e capre si moltiplica, alcuni abitanti di un villaggio si trasferiranno in altri pascoli e fonti d’acqua, e amplieranno gradualmente le terre che lavorano, conosciute e accettate come loro villaggio. Le grotte potrebbero inizialmente fungere da abitazioni e nel tempo, man mano che la popolazione aumenta in quelle estensioni e man mano che le esigenze cambiano, vengono costruite strutture più semplici, comprese quelle pubbliche, come scuole e strade di accesso. Il villaggio originario diventa addirittura una città.

Dopo il 1967, Israele agì con determinazione per porre fine a questi processi evolutivi in Cisgiordania. Dichiarare le zone di tiro era un modo per raggiungere questo obiettivo. Un’altra era la creazione di insediamenti e l’acquisizione di più terra e risorse idriche. L’Alta Corte ha scelto di fingere ignoranza e sminuire il significato storico di un documento presentato dall’Associazione per i diritti civili in Israele: una raccomandazione di Ariel Sharon, quando era ministro dell’agricoltura nel 1981 e presidente del comitato ministeriale per gli insediamenti, che l’esercito cercava ampliare la zona di tiro dichiarata a Masafer Yatta al fine di prevenire “la diffusione degli arabi rurali della montagna lungo il versante della montagna rivolto verso il deserto … e di mantenere queste aree nelle nostre mani”.

Gli avvocati rappresentanti dei villaggi – Shlomo Lecker e gli avvocati dell’ACRI, Dan Yakir e Roni Pelli – si sono richiamati all’articolo 49 della Convenzione di Ginevra: “Trasferimenti forzati individuali o di massa, nonché deportazioni di persone protette, dal territorio occupato a quello della Potenza occupante o a quello di qualsiasi altro Paese, occupato o meno, sono vietati, indipendentemente dalla motivazione”.

I giudici hanno respinto le pretese dei ricorrenti secondo cui il tribunale deve onorare questa clausola. Il giudice Mintz ha persino affermato che l’articolo 49 si applicava per “accordo” e non per “consuetudine”, in altre parole, che era il risultato di un accordo tra paesi e non di uno che un tribunale all’interno di uno stato deve necessariamente onorare. Gli avvocati Michael Sfard e Netta Amar-Shiff (il cui amicus curiae ha depositato per volere del consiglio della comunità di Masafer Yatta, è stato respinto dalla corte) hanno dichiarato giovedì che le argomentazioni di Mintz erano infondate; come ha detto Sfard, “Questo non è altro che un imbarazzante errore giuridico di base”.

Le petizioni originali presentate dagli avvocati di Lecker e ACRI nell’anno 2000 seguivano lo sgombero di massa da parte dell’esercito nel novembre 1999, che includeva la distruzione di case, recinti, pozzi e grotte utilizzate come abitazioni. Queste espulsioni sono avvenute quando il primo ministro e ministro della difesa era Ehud Barak, un uomo del partito laburista, e in un momento in cui Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina erano in trattative in quello che il mondo allora chiamava un processo di pace. La dissonanza tra un “processo di pace” e lo sgombero di massa non ha infastidito la società israeliana. .

L’Alta Corte, come al solito, ha perso negli anni 2000 l’opportunità di emettere una decisione di principio contro gli sfratti e di chiedere allo stato di agire secondo il diritto internazionale. Si stabilì quindi per un’ingiunzione provvisoria che consentisse ai residenti di tornare, ma impediva loro di ricostruire le strutture distrutte o di costruire nuove abitazioni per soddisfare i bisogni di una popolazione in crescita.

Nel frattempo, l’Alta Corte ha generosamente consentito allo Stato di rinviare ripetutamente la presentazione della sua risposta alle petizioni originali. In quegli anni l’Unione Europea si espresse chiaramente contro qualsiasi forma di sfollamento forzato. Parallelamente si moltiplicarono nella zona gli avamposti di coloni illegali, si ampliarono le terre controllate dai coloni, così come i metodi utilizzati dall’Amministrazione Civile e dai coloni per privare i palestinesi dell’accesso alla loro terra.

Nonostante il fatto che l’espulsione di massa e la demolizione di interi villaggi che l’Alta Corte ha ora approvato vada contro la posizione dell’UE e probabilmente di alcuni funzionari del governo degli Stati Uniti, i giudici dell’Alta Corte sanno benissimo che Israele non corre il pericolo di essere sanzionato per la decisione. Sanno anche che lo sfollamento forzato di un numero compreso tra 1.200 e 1.800 palestinesi dalle loro case non si discosta da nessuno degli standard che ora prevalgono in Israele.

traduzione a cura della redazione –  da qui

 

 

Masafer Yatta: la storia degli 8 villaggi palestinesi da demolire e degli oltre mille abitanti da cacciare dalle loro terre

di Dirar Taffeche

Lo scorso 8 maggio 2022, l’esercito israeliano ha annunciato che il genio militare sta prendendo le misure e le tipologie delle abitazioni delle famiglie dei due sospettati per l’attentato di Elad, per essere poi demolite.

Questa pratica di buttare giù con i bulldozer le case dei palestinesi non è nuova. Vi ricordate la scena del film di Pontecorvo, “La battaglia di Algeri”?

Già al tempo dell’occupazione della Palestina storica, nel 1948, 500 villaggi palestinesi erano stati rasi al suolo. Si stima che le abitazioni distrutte sono state 170 mila. Un milione di palestinesi cacciato dalla propria terra e trasformato in profughi.

Le demolizioni delle case dei palestinesi vengono messe in atto con vari pretesti: a) mancanza di licenza edilizia nelle zone sotto il controllo amministrativo dell’esercito di occupazione, secondo la definizione dei famigerati accodi di Oslo (la zona C);

  1. b) zona militare o di interesse di sicurezza;
  2. c) Punizione collettiva per le famiglie di attentatori, come azione di deterrenza contro la resistenza. In molti casi, la demolizione è seguita dal divieto di ricostruzione o addirittura della confisca de terreno.

Dal 2004, sono state distrutte per punizione collettiva 269 case, cacciando 1300 persone tra i quali 161 minori.

Il sito israeliano NRJ ha citato una frase dell’ex premier Netanyahu nella quale si vantava che il suo governo ha demolito mille case palestinesi nel solo 2016, perché “le case palestinesi sono un cancro che va estirpato”. Molte delle case demolito ricadevano nelle aree definite A negli accordi di Oslo, cioè sotto l’amministrazione civile e di sicurezza dell’ANP.

A Gerusalemme in particolare la politica delle confische e delle demolizioni ha l’obiettivo di cacciare gi abitanti palestinesi dai loro quartieri, per creare colonie ebraiche e rendere irreversibile l’annessione di Gerusalemme Est, territorio occupato nel 1967 e secondo il diritto internazionale appartenente al futuro Stato palestinese.

La politica delle demolizioni e dello sfollamento tocca anche la popolazione beduina, sia in Cisgiordania che all’interno di Israele.

Secondo la legge militare israeliana le demolizioni sono atti amministrativi che non hanno bisogno di una sentenza del tribunale e non è necessario dimostrare prove.

In questo articolo, l’amico dr. Dirar Taffeche esamina, con l’elencazione di una serie di articoli presi dalla stampa israeliana, il caso degli otto villaggi di Masafer Yatta, che qualche giorno fa il Tribunale israeliano ha respinto tutti i ricorsi degli abitanti e in breve tempo le truppe di occupazione procederanno alla demolizione ed alla cacciata degli abitanti, con il pretesto della costruzione di un poligono di tiro, in realtà i terreni saranno ceduti per la costruzione di colonie ebraiche e l’allargamento di altre già esistenti, per ospitare ebrei israeliani nati e vissuti altrove e non avevano mai visto la Palestina prima…

continua qui

 

 

Shireen Abu Akleh era la voce di una generazione di palestinesi – Hanin Majadli

Gli israeliani non capiscono la profondità della nostra rabbia e tristezza. Per noi palestinesi, Shireen Abu Akleh era una leggenda

Mi ricordo come da ragazza, dopo la seconda intifada, in piedi davanti allo specchio, con in mano una spazzola per capelli o un telecomando, imitavo la voce profonda e pacata con cui Shireen concludeva i suoi reportage: Shireen Abu Akleh, Al Jazeera, Palestina.

Quell’iconica frase di chiusura, uno slogan che ogni bambino o adolescente palestinese cresciuto all’ombra della seconda intifada nei primi anni 2000 associava alla giornalista di Al Jazeera, mercoledì ha assunto un nuovo significato: doloroso, straziante e sanguinante. Chi avrebbe mai creduto che la donna con questa voce profonda e coraggiosa ci avrebbe lasciato così presto, in un modo così crudele.

Mentre leggevo gli elogi funebri, i post sui social media e le reazioni alla sua morte, mi sono resa conto che non c’è quasi ragazza araba al mondo  che non sia rimasta in piedi davanti a uno specchio, una spazzola per capelli o un telecomando in mano, a pronunciare quelle parole.

Abu Akleh non era solo una giornalista molto professionale o una grande reporter, era la voce della mia generazione. Ha plasmato in larga misura la nostra coscienza politica e nel corso di due decenni è stata un valido modello per impegno, professionalità, onestà, umanità e qualità. Non c’è da stupirsi che sia diventata un’icona.

Ogni volta che c’era un’operazione militare, o una guerra, o un’incursione dell’esercito israeliano in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, la sua voce diventava la nostra colonna sonora. Negli anni precedenti la rivoluzione delle comunicazioni e degli smartphone, era lei l’obiettivo attraverso il quale abbiamo visto svolgersi la seconda intifada. Per molti aspetti, durante quei tempi difficili, era la personalità palestinese più importante che ci fosse, colei che il mondo intero ascoltava e vedeva giorno dopo giorno e attraverso la quale venivano mostrate le ingiustizie dell’occupazione. Per me era una presenza ancor prima che capissi cosa significasse l’occupazione.

È stato da Al Jazeera e da Abu Akleh che ho appreso per la prima volta dei campi profughi. Ci ha portato i volti, le persone, i bombardamenti e, soprattutto, la verità (tutto ciò che non  veniva trasmesso dalla televisione israeliana). Attraverso di lei ho visto persino i paesaggi della Cisgiordania.

Oggi ricordo in particolare i suoi reportage dal campo profughi di Jenin – non solo perché i suoi dispacci da lì rendevano molto difficile la visione per un giovane, o perché era il luogo in cui ha incontrato la sua morte, ma piuttosto perché mi sono resa conto di come i suoi abitanti sono  stati gentili con lei. Era stata con loro per 20 anni e hanno insistito affinché il suo corteo funebre partisse dal campo. Non era solo colei che li aveva raccontati, era diventata la loro voce.

Gli israeliani non capiscono la profondità della nostra rabbia e tristezza. Per noi palestinesi, Shireen Abu Akleh era una leggenda. L’intera nazione palestinese, nella sua patria che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, sia in esilio che nella diaspora, nei villaggi, nelle città e nei campi profughi, prova un senso di dolore collettivo. Questo è il motivo dei tanti tributi, delle manifestazioni ovunque. Shireen Abu Akleh era la voce del palestinese che non ha voce. La sua perdita è così grave e così profonda che, nonostante tutto ciò che è stato scritto, non riesco a esprimerla adeguatamente a parole.

Concludo con una frase che aveva detto in un video pubblicato sul sito di Al Jazeera ad ottobre: ​​“Ho scelto il giornalismo per essere vicino alle persone e sapevo che non sarebbe stato facile cambiare la situazione. Ma almeno sono riuscita a portare le voci dei palestinesi nel mondo”.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – da qui

 

Ricordi. La Jenin di Shireen – Shireen Abu Akleh

 

 

Probabilmente è stata una coincidenza a riportarmi indietro di vent’anni.

Quando sono arrivata a Jenin a settembre, non mi aspettavo di rivivere questa sensazione travolgente. Jenin è sempre la stessa fiamma inestinguibile che ospita giovani senza paura che non sono intimiditi da alcuna potenziale invasione israeliana.

Il successo della fuga dalla prigione di Jalbou è stato il motivo per cui ho trascorso diversi giorni e notti in città. È stato come tornare al 2002, quando Jenin visse qualcosa di unico, diverso da qualsiasi altra città della Cisgiordania. Verso la fine dell’Intifada di Al-Aqsa, cittadini armati si sparpagliarono per tutta la città e sfidarono pubblicamente le forze di occupazione a fare irruzione nel campo.

Nel 2002, Jenin divenne una leggenda nella mente di molti. La battaglia che ebbe luogo nel campo in quell’aprile contro le forze di occupazione è ancora potentemente presente nella mente dei suoi abitanti, anche di quelli che quando avvenne non erano ancora nati.

Tornando a Jenin ora, 20 anni dopo, ho incontrato molti volti familiari. In un ristorante ho incontrato Mahmoud che mi ha accolto con la domanda: “Ti ricordi di me?” “Sì”, risposi, “mi ricordo di te”. È difficile dimenticare quel viso e quegli occhi. Ha continuato: “Sono stato rilasciato dal carcere pochi mesi fa”. Mahmoud era ricercato dagli israeliani quando l’avevo incontrato durante gli anni dell’Intifada.

 

Ho rivissuto quei sentimenti di ansia e di orrore che provavamo ogni volta che incontravamo una persona armata nel campo. Mahmoud è uno dei fortunati; è stato imprigionato e rilasciato, ma i volti di molti altri si sono trasformati in simboli o meri ricordi per gli abitanti di Jenin e per i palestinesi in generale.

Durante questa visita non abbiamo avuto difficoltà a trovare un posto dove alloggiare, a differenza di dieci anni fa quando dovevamo stare in case di persone che non conoscevamo. A quel tempo, non c’erano alberghi e le persone ci aprivano le loro case .

A prima vista, la vita a Jenin può sembrare normale, con ristoranti, hotel e negozi che aprono le porte ogni mattina. Ma a Jenin abbiamo la sensazione di essere in un piccolo villaggio in cui si controlla ogni estraneo che entra. In ogni strada, la gente chiede alla troupe: “Siete della stampa israeliana?” “No, veniamo da Al-Jazeera”. Le targhe gialle dei veicoli israeliani suscitano sospetto e paura. L’auto è stata fotografata e la fotografia è stata fatta circolare più volte prima che il nostro movimento in città diventasse familiare agli abitanti.

A Jenin abbiamo incontrato persone che non hanno mai perso la speranza; non hanno permesso alla paura di infiltrarsi nei loro cuori e non sono stati spezzate dalle forze di occupazione israeliane. Probabilmente non è un caso che i sei prigionieri che sono riusciti a fuggire provengano tutti dalle vicinanze di Jenin e del campo.

 

Per me, Jenin non è una storia effimera nella mia carriera e nemmeno nella mia vita personale. È la città che può alzarmi il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che a volte trema e cade ma, al di là di ogni aspettativa, si rialza per perseguire i suoi voli e i suoi sogni.

E questa è stata la mia esperienza di giornalista; nel momento in cui sono fisicamente e mentalmente esausta, mi trovo di fronte a una nuova, sorprendente leggenda.

Può emergere da una piccola apertura, o da un tunnel scavato nel sottosuolo.

Shireen Abu Aqleh:  da 24 anni mi occupo del conflitto israelo-palestinese per conto di Al Jazeera. Oltre alla questione politica, la mia preoccupazione è stata e sarà sempre la storia umana e la sofferenza quotidiana del mio popolo occupato. Prima di entrare ad Al Jazeera , sono stata co-fondatrice di Sawt Falasteen Radio. Nel corso della mia carriera, ho seguito quattro guerre contro la Striscia di Gaza e la guerra israeliana in Libano nel 2009, oltre alle incursioni in Cisgiordania. Inoltre, ho seguito eventi negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Turchia e in Egitto.

Fonte e versione originale in inglese: This Week in Palestine

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

da qui

 

 

 

 

In che modo Israele progetta di “colonizzare” la parte restante di Gerusalemme – Ahmad Amara

 

Un nuovo catasto israeliano a Gerusalemme est potrebbe portare alla confisca di vaste aree di proprietà palestinesi. Ahmad Amara valuta le terribili implicazioni per il popolo di Gerusalemme e per il futuro della città.

 

Il progetto israeliano di accatastare i territori di Gerusalemme est, che è stato formalmente stilato attraverso un decreto del governo con il titolo “Decreto 3790 finalizzato alla riduzione delle carenze socioeconomiche e alla promozione dello sviluppo economico a Gerusalemme est” minaccia ciò che resta dei terreni di Gerusalemme, poiché Israele prevede di accatastare l’intera Gerusalemme est occupata attraverso un comitato supervisionato dal Ministero della Giustizia. I lavori del comitato dovrebbero concludersi entro la fine del 2025.

Israele doveva completare il processo di attribuzione/accatastamento del 50% del territorio di Gerusalemme Est durante il quarto trimestre del 2021. Tuttavia, poiché la procedura sembra essere complicata, Israele prevede che il lavoro non andrà avanti facilmente in tutti i quartieri di Gerusalemme Est. Pertanto il comitato incaricato ha deciso di avviare zone pilota in diverse aree. Inoltre il processo è stato rallentato anche dalla diffusione nell’ultimo anno del Covid-19, che tuttavia continua.

Una valutazione della situazione pubblicata dal Madar Research Center [centro di ricerca indipendente palestinese sugli aspetti politici, sociali, economici e culturali delle questioni israeliane, ndtr.] afferma che Israele sostiene che l’accatastamento dei terreni di Gerusalemme est aumenterebbe le entrate della municipalità di Gerusalemme di centinaia di milioni di shekel [uno shekel equivale a 28 centesimi di euro, ndtr.], così come aumenterebbe le entrate dei gerosolimitani che potrebbero beneficiare dell’accatastamento, oltre all’assegnazione di circa 550.000 dunum [55.000 ettari, ndtr.] per zone industriali che impiegherebbero forza lavoro palestinese.

Tuttavia la registrazione delle terre potrebbe essere utilizzata di fatto per far avanzare irreversibilmente la colonizzazione israeliana, il che porterebbe alla confisca di vasti terreni di Gerusalemme est, che poi sarebbero ufficialmente registrati come proprietà demaniale.

Durante l’ultimo mezzo secolo di occupazione e annessione della città Israele ha già confiscato vaste aree di Gerusalemme Est a favore di grossi insediamenti coloniali israeliani. Israele ha soffocato la naturale espansione dei gerosolimitani palestinesi creando nuove situazioni nell’area. Pertanto l’accatastamento dei terreni di Gerusalemme est, in base a quanto avviene oggi rispetto alla situazione precedente all’occupazione del 1967, consoliderebbe i cambiamenti coloniali a Gerusalemme est e faciliterebbe il furto repentino di altre terre con pretesti giuridici.

Arab 48 [emittente online di informazioni in lingua araba, ndtr.] ha intervistato su questo aspetto e sulle sue implicazioni per le terre e le persone di Gerusalemme e il futuro della città il ricercatore, docente e avvocato Dr. Ahmad Amara, specializzato in diritto fondiario e diritto internazionale. Amara è un avvocato specializzato in contenzioso internazionale, docente presso la New York University di Tel Aviv e ricercatore presso lo studio di consulenza legale dell’Università Al-Quds. La sua ricerca si concentra sull’intersezione tra diritto, storia e geografia, con particolare attenzione al diritto fondiario ottomano nella Palestina meridionale e a Gerusalemme. Di recente ha pubblicato Emptied Lands – A Legal Geography of Bedouin Rights in the Negev [Terre svuotate – Una geografia giuridica dei diritti dei beduini nel Negev, ndtr.], con Alexandre Kedar e Oren Yiftachel, e attualmente sta lavorando alla ricerca sul controllo del territorio e sull’ebraizzazione attraverso vari strumenti legali incentrati su Silwan e Sheikh Jarrah [quartieri prevalentemente palestinesi di Gerusalemme Est oggetto negli ultimi anni di ripetuti sfratti violenti da parte delle forze di polizia israeliane, ndtr.].

Arab 48: Le intenzioni di Israele di sfruttare tutti gli strumenti legali, amministrativi e progettuali a favore dei suoi piani di colonizzazione sono chiare, ma per favore mi spiega cos’è l’attribuzione/accatastamento di una proprietà fondiaria e qual è la procedura?

Amara: una semplice attribuzione di una proprietà terriera costituisce praticamente la registrazione dei diritti fondiari, cioè l’affermazione dei diritti del proprietario sulla propria terra con riferimento ad un determinato appezzamento di terreno, ad un’area specifica in centimetri su una mappa e ad un certificato catastale.

L’attribuzione delle proprietà fondiarie fu introdotta in Palestina dagli inglesi e dagli ottomani prima di loro. Il Tapu [catasto] che conosciamo è una procedura ottomana. Nel contesto temporale delle normative e delle riforme amministrative e legali ottomane, la legge sul Tapu è stata introdotta a metà del XIX secolo, in un momento in cui l’Impero Ottomano intraprendeva il suo tentativo di agire come uno Stato moderno centralizzato e cercava di compilare quante più statistiche e dati possibili sulla popolazione e sul territorio. La legge ottomana sul Tapu fu emanata nel 1860, mentre la legge fondiaria ottomana venne promulgata nel 1958. Questa legge ha avuto un ruolo importante nella confisca israeliana delle terre palestinesi nel Negev, in Galilea, in Cisgiordania e a Gerusalemme…

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Analizzare il paziente Palestina – Mazin Qumsiyeh

Ho sempre detto ai miei studenti di medicina che è necessario raccogliere la storia di un paziente, controllare attentamente i sintomi, fare la diagnosi corretta, offrire la terapia appropriata e consigliare il paziente sulla prognosi. Ho spiegato in centinaia di conferenze che lo stesso vale per i mali sociali (anche guerre e conflitti sono malattie).

Ecco come analizzare il paziente Palestina:

Storia del paziente: la Palestina era multietnica, multiculturale e una società multireligiosa e abbastanza sana nei suoi 11.000 anni di storia (dal momento che lo sviluppo dell’agricoltura dei nostri antenati e l’inizio della cosiddetta “civilizzazione”” nella nostra parte occidentale della Mezzaluna Fertile). In quegli 11millenni, il paziente era per lo più sano con pochissimi conflitti (la maggior parte del tempo con pochi conflitti o guerre, certamente meno in % di Europa o Nord America). I conflitti sono sorti dai pochissimi tentativi di rimodellare il paese in modo che sia monolitico (un sovrano musulmano, crociati, sionismo,invasione persiana).

Sintomi: il colonialismo fa quello che fa il colonialismo (non c’è bisogno di descriverlo in maniera dettagliata.

Da noi e in tutto il mondo le popolazioni indigene soffrono. Per i palestinesi nativi, sono stati uccisi più di 100.000 (> 90% civili), più di 800.000 feriti, >1 milione di detenuti, più di 500 città e villaggi spopolati, un sistema di apartheid installato sui restanti nativi.

Gli imperi hanno governato qui, ma non abbiamo mai avuto il tipo di pulizia etnica o sistema di apartheid perpetrato come abbiamo avuto sotto il sionismo negli ultimi 100 anni.

Ora 8 su 14 milioni di palestinesi sono rifugiati o sfollati. Questo è il nocciolo del problema (non la statualità). Naturalmente come previsto in tale situazioni, anche alcuni dei colonizzatori (migliaia) furono uccisi ma per lo più nelle guerre con i paesi arabi vicini (tutte queste guerre, tranne il 1973, furono iniziato dai sionisti). L’Occidente (la Gran Bretagna e la Francia prima ora gli Stati Uniti) lo erano e sono partner chiave per perpetuare questa situazione/malattia.

Prognosi: le situazioni coloniali hanno solo 3 possibili esiti/scenari:

Modello algerino, modello USA/Australia (genocidio degli indigeni) o essere residente in un unico paese (risultato più comune riscontrato nel 95% dei 194 paesi sulla terra).

Il tentativo di sopprimere l’idea di liberazione e di libertà per i Palestinesi è fallito e il terzo risultato è inevitabile (questo significa la fine del sionismo).

Le idee mutano come ben articolate dal Prof. George Smith.

Per uno schema dell’evoluzione dell’idea di “Condividere la terra di Canaan” basato sui diritti umani, vedi il mio libro (http://qumsiyeh.or/sharingthelandofcanaan/). Ricordo anche come la mappa della Palestina si restringe-disegnata per prima da mio figlio quando aveva 13 anni e come è mutato nel tempo (mappa mostrata sullo stesso link). Ricordo anche come le idee del primato dei diritti umani, la democrazia laica, l’opposizione all’apartheid si sono evolute tra gli intellettuali.

Ai sionisti e imperialisti dico “quando ti trovi bloccato in una buca, la prima cosa da fare è smettere di scavare”.

Lo stesso si applica alle guerre tra Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti in Yemen o in Siria o in Ucraina per idee anacronistiche come l’egemonia. Il mondo di oggi non può seguire idee antiche che si stanno estinguendo. Le idee che acquistano forza tra le giovani generazioni è un mondo libero da confini, libero da “stati-nazione” egemonici, un mondo di amore, gentilezza, moralità e giustizia.

Terapia: La terapia per accelerare l’arrivo alla prognosi inevitabile è lavorare di più (ed evolvere il nostro lavoro) collettivamente verso questa meta.

Questo significa resistenza e lotta comune centrata sulle persone.

Vedasi il mio libro “Popolar Resistance in Palestine” (“Resistenza popolare in Palestina: una storia di speranza e potenziamento”) – http://qumsiyeh.org/popularresistanceinpalestine/ – come un esempio tra tanti nel mondo (per gli Stati Uniti si veda “A people’s history of theStati Uniti”).

traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese

da qui

 

Il riconoscimento facciale sarà presto una realtà in Israele – Michele Giorgio

Presto potrebbe concretizzarsi in Israele la realtà distopica raccontata dalla vecchia serie tv Person of Interest in cui Jim Caviezel, Michael Emerson e Amy Acker, grazie a un’intelligenza artificiale collegata a una fitta rete di telecamere di sorveglianza, tengono sotto controllo l’intero territorio degli Stati uniti. Nei giorni scorsi il comitato ministeriale per la legislazione ha approvato un disegno di legge che autorizza l’uso da parte delle forze di sicurezza della tecnologia di riconoscimento facciale sui filmati delle telecamere di sorveglianza. Un primo via libera, che se confermato dal voto della Knesset, fornirà alla polizia la possibilitàdi creare un database biometrico. «Quando si tratta di tenere a freno il terrore, prendo la violazione della privacy con le pinze», ha replicato alle critiche il ministro della giustizia Gideon Saar, annunciando «qualche modifica» al testo.

 

Obiettivo del disegno di legge è «codificare l’utilizzo delle reti di telecamere negli spazi pubblici da parte della polizia». Il sistema sarebbe in grado di mettere a fuoco oggetti e individui, di fotografarli e confrontarli con le immagini trovate nel database, consentendo così l’identificazione dell’oggetto o della persona» allo scopo di «prevenire, contrastare o scoprire reati a danno di persone, della sicurezza pubblica e dello Stato». La polizia, aggiunge il testo approvato, proteggerà i dati raccolti dagli hacker e la privacy di coloro a cui si riferiscono le informazioni.

Rassicurazioni che non convincono la ministra dell’immigrazione Pnina Tamano-Shata, di origine etiope. «Quando la polizia può posizionare telecamere biometriche in ogni quartiere con il semplice gesto di un dito, ciò porta ad abusi per determinate popolazioni», ha detto al giornale Haaretz Tamano-Shata ricordando che questa tecnologia si è rivelata problematica nell’identificazione delle persone con la pelle scura. Ha perciò chiesto l’istituzione di un comitato per la supervisione dell’uso della fotocamera e invocato il coinvolgimento dei giudici. Dalla sua parte c’è l’Associazione per i diritti civili in Israele (Acri). «Questo progetto di legge – spiega Acri – consente alla polizia di raccogliere e archiviare informazioni personali di cittadini innocenti, senza l’autorizzazione di un tribunale. Mette in pericolo le libertà civili e il diritto a non essere vigilati». Forti le preoccupazioni tra i cittadini arabi israeliani che temono di diventare il primo obiettivo della raccolta dati.

da qui

 

DALLE LEZIONI DI VIOLINO ALLA CELLA DI UNA PRIGIONE: L’ARRESTO DI UN BAMBINO PALESTINESE DA PARTE DI ISRAELE – YUMNA PATEL

La scorsa settimana un gruppo di ragazzi palestinesi si è fermato fuori dal loro centro giovanile locale nel campo profughi di Aida, sullo sfondo del muro di separazione israeliano e di una base militare permanente nel campo, e hanno suonato una canzone sui loro violini.

La canzone è stata dedicata al loro amico e compagno di classe, il quattordicenne Athal al-Azzeh. Era una canzone per la libertà.

Athal è stato arrestato dall’esercito israeliano a metà aprile mentre stava camminando verso casa di sua nonna.

Ha detto di essere stato preso in un’imboscata da un gruppo di soldati che sono saltati fuori da una jeep militare, lo hanno arrestato in modo aggressivo e lo hanno gettato a terra nella base militare vicino al campo di Aida, dove lo hanno preso a calci e picchiato.

Per quasi due settimane Athal è stato interrogato quotidianamente, durante gli interrogatori israeliani i funzionari della sicurezza hanno tentato di costringerlo a confessare. Lo hanno accusato di lanciare sassi e bruciare pneumatici, un reato che ha portato innumerevoli bambini palestinesi nella prigione israeliana.

Dopo 12 giorni di interrogatorio senza la presenza di un avvocato o dei suoi genitori, Athal è stato rilasciato su cauzione. Ha un’altra sessione in tribunale alla fine di questo mese, durante la quale potrebbe essere condannato a una pena detentiva.

Nel bel mezzo della sua prigionia, mentre sedeva chiedendosi cosa stessero facendo i suoi amici e la sua famiglia, e se avesse mai suonato di nuovo il suo violino, i funzionari israeliani di Hasbara stavano tentando di giustificare il suo arresto a milioni di persone nel mondo.

Apparentemente, secondo Israele, un ragazzino palestinese che lancia pietre e brucia pneumatici contro un esercito – che sta occupando illegalmente la sua città natale – lo rende antisemita e “violento contro gli ebrei”.

Mentre la storia di Athal che sale sulla scena globale non è qualcosa che accade tutti i giorni, la storia di Athal in sé non è unica.

Ogni anno, centinaia di bambini palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano e imprigionati dai tribunali militari israeliani che vantano un tasso di condanne superiore al 99%. L’accusa più comune mossa contro i bambini palestinesi è il lancio di pietre.

È sbagliato dire che Athal, che è stato arrestato, picchiato e interrogato da uno degli apparati di sicurezza più forti e ben finanziati al mondo, sia stato uno dei fortunati.

Attualmente, ci sono 160 bambini prigionieri nella prigione israeliana. Molti di loro hanno trascorso mesi, persino anni in prigione, perdendo la scuola, il gioco con i loro amici e il crescere tra le braccia amorevoli dei loro familiari.

Negli anni in cui ho vissuto e lavorato in Palestina, ho parlato con innumerevoli bambini detenuti che sono stati costretti ad abbandonare gli studi dopo aver saltato troppa scuola durante la prigionia. Altri non si riprendono mai dagli abusi e dai maltrattamenti che devono affrontare.

In un’intervista con Middle East Eye, Athal ha detto che quando è stato portato al centro di detenzione dopo il suo arresto, “stava solo pensando a tutte le cose che mi sarei perso. Ho pensato alla mia famiglia e al fatto che non sanno dove sono”.

“Ho pensato alla mia scuola, ai miei amici e alle mie lezioni di musica. Mi sentivo come se i miei sogni stessero finendo”.

Vedere Athal libero e di nuovo tra le braccia della sua famiglia e dei suoi amici provoca sia sentimenti di sollievo che tristezza. Sollievo per il fatto che per ora un bambino palestinese in meno sia stato mandato a languire all’interno della prigione israeliana e tristezza per tutti gli altri che hanno perso la loro infanzia a causa di una detenzione arbitraria.

La sua storia mi ricorda quella di un ragazzo, anche lui del campo di Aida e attivo partecipante al centro giovanile, che passavo spesso per strada mentre tornavo a casa.

Una sera, le forze israeliane hanno fatto irruzione nel campo e lo hanno arrestato. Aveva 15 anni all’epoca. Passarono quasi due anni e lo stesso ragazzo sorridente che stava sui gradini del centro non si trovava da nessuna parte. La sua famiglia e i suoi amici sono rimasti per anni in attesa del suo ritorno.

Qualche settimana fa stavo tornando a casa e ho incontrato un giovane per strada. Mi salutò, con un sorriso familiare, e ho avuto una doppia sorpresa. Era lo stesso ragazzo, ma ora era molto più alto e grosso di prima, con un po’ più di peli sul viso e qualche macchia che non c’erano l’ultima volta che l’ho visto.

Aveva la stessa faccia gentile e sorridente, ma non era più quel ragazzino che giocava con i suoi amici dopo la scuola. Per quanto riguardava la società, ora era un giovane.

Ancora un altro giovane palestinese che aveva perso la sua infanzia a causa del sistema di “giustizia” di Israele.

traduzione a cura della redazione – da qui

 

 

ALLORA ADESSO SIETE INORRIDITI? – Gideon Levy

Il relativo orrore espresso per l’uccisione di Shireen Abu Akleh è giustificato e necessario. È anche tardivo e ipocrita. Ora siete sconvolti? Il sangue di una famosa giornalista, per quanto coraggiosa ed esperta fosse – ed era – non è più rosso del sangue di una anonima studente delle superiori che un mese fa stava tornando a casa in un taxi pieno di donne in questa stessa Jenin quando è stata uccisa dagli spari dei soldati israeliani.

Così è stata uccisa Hanan Khadour. Anche allora il portavoce militare ha cercato di mettere in dubbio l’identità dei tiratori: “La questione è al vaglio”. È passato un mese e questo “esame” non ha prodotto nulla, e non lo farà mai – ma i dubbi sono stati piantati e sono germogliati nei campi israeliani della negazione e della repressione, dove a nessuno interessa davvero il destino di una 19enne ragazza palestinese, e la coscienza morta del Paese è di nuovo messa a tacere. C’è un solo crimine commesso dai militari di cui la destra e l’establishment accetteranno mai la responsabilità? Solo uno?

Abu Akleh sembra essere un’altra storia: una giornalista di fama internazionale. Proprio domenica scorsa un giornalista più locale, Basel al-Adra, è stato attaccato da soldati israeliani nelle colline di South Hebron, e nessuno si è preoccupato. E un paio di giorni fa, due israeliani che hanno aggredito i giornalisti durante la guerra di Gaza lo scorso maggio sono stati condannati a 22 mesi di carcere. Quale punizione sarà inflitta ai soldati che hanno ucciso, se lo hanno fatto, Abu Akleh? E quale punizione è stata inflitta a chi ha deciso e realizzato lo spregevole bombardamento degli uffici dell’Associated Press a Gaza durante i combattimenti dell’anno scorso? Qualcuno ha pagato per questo crimine? E che dire dei 13 giornalisti uccisi durante la guerra di Gaza nel 2014? E il personale medico ucciso durante le manifestazioni al confine di Gaza, tra cui la 21enne Razan al-Najjar, che è stata uccisa a colpi di arma da fuoco dai soldati mentre indossava la sua uniforme bianca? Nessuno è stato punito. Tali fatti saranno sempre coperti da una nuvola di cieca giustificazione e immunità automatica per i militari e il culto dei suoi soldati.

Anche se viene trovato il proiettile israeliano fumante che ha ucciso Abu Akleh, e anche se viene trovato un filmato che mostra il volto dell’assassino, sarà trattato dagli israeliani come un eroe al di sopra di ogni sospetto. Si è tentati di scrivere che se palestinesi innocenti devono essere uccisi dai soldati israeliani, è meglio che siano famosi e titolari di passaporti statunitensi, come Abu Akleh. Almeno allora il Dipartimento di Stato americano esprimerà un po’ di dispiacere, ma non troppo, per l’insensata uccisione di un suo cittadino da parte dei soldati di uno dei suoi alleati.

Al momento di scrivere, non era ancora chiaro chi avesse ucciso Abu Akleh. Questo è il risultato della propaganda di Israele: seminare dubbi, che gli israeliani si affrettano ad afferrare come fatti e giustificazioni, anche se il mondo non ci crede e di solito ha ragione. Quando il giovane palestinese Mohammed al-Dura è stato ucciso nel 2000, la propaganda israeliana ha anche cercato di offuscare l’identità dei suoi assassini; non ha mai dimostrato le sue affermazioni e nessuno le ha acquistate. L’esperienza passata mostra che i soldati che hanno ucciso la giovane donna in taxi sono gli stessi soldati che potrebbero uccidere un giornalista.

È lo stesso spirito; possono sparare a loro piacimento. Coloro che non sono stati puniti per l’omicidio di Hanan hanno continuato con Shireen.

Ma il crimine inizia molto prima della sparatoria. Il crimine inizia con il saccheggio di ogni città, campo profughi, villaggio e camera da letto della Cisgiordania ogni notte, quando necessario ma soprattutto quando non necessario. I corrispondenti militari diranno sempre che ciò è stato fatto per il motivo di “arrestare sospetti”, senza specificare quali sospetti e di cosa sono sospettati, e la resistenza a queste incursioni sarà sempre vista come “una violazione dell’ordine” – l’ordine in cui i militari possono fare quello che vogliono e i palestinesi non possono fare nulla, non manifestano certo resistenza.

Abu Akleh è morta da eroe, facendo il suo lavoro. Era una giornalista più coraggiosa di tutti i giornalisti israeliani messi insieme. È andata a Jenin e in molti altri luoghi occupati, che loro hanno visitato raramente, se non mai, e ora devono chinare il capo in segno di rispetto e lutto. Avrebbero anche dovuto smettere di diffondere la propaganda diffusa dai militari e dal governo sull’identità dei suoi assassini. Fino a prova contraria, senza ombra di dubbio, la conclusione predefinita deve essere: l’esercito israeliano ha ucciso Shireen Abu Akleh.

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Il diritto palestinese alla rabbia – Clara Capelli

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio

(Pensa agli altri, Mahmoud Darwish)

 

Da una parte, tenute antisommossa, manganelli, cavalli enormi e granate stordenti. Dall’altra, degli uomini sorreggono una bara, si proteggono dai colpi menati da ogni parte intenzionati ad avanzare per condurre un feretro verso la sua destinazione finale. Bandiere palestinesi sventolano nella confusione, mentre la polizia israeliana cerca di strapparle di mano ai partecipanti al corteo funebre.

Gerusalemme Est, 13 maggio 2022. Le immagini del funerale della giornalista Shireen Nasri Abu Aqleh, volto noto e amato da generazioni di palestinesi, raccontano ancora una volta l’ingiustizia di un sistema e di un conflitto ad armi impari, per altro in un periodo di particolare tensione e sofferenza e a ridosso del 74esimo anniversario della nakba (“catastrofe” in arabo), l’esodo di massa forzato di centinaia di migliaia di palestinesi a seguito della costituzione dello Stato di Israele.

La bandiera palestinese è proibita a Gerusalemme Est, ossia la zona di Gerusalemme sotto occupazione israeliana – occupazione a tutti gli effetti riconosciuta come tale dal diritto internazionale. L’omaggio di un popolo a una delle icone dell’informazione in lingua araba – un popolo che ogni giorno onora il lutto di ciò che non gli viene consentito di essere – non poteva che esporre che intimorire.

Specialmente per le modalità della morte di Shireen Abu Aqleh, colpita fatalmente nonostante indossasse elmetto e giubbotto anti-proiettile con la scritta Press in evidenza mentre si trovava a Jenin, città ritornata teatro di più accese violenze nell’ultimo periodo. Sono soprattutto le immagini del corteo a Gerusalemme Est a essere circolate, ma la bara della Abu Aqleh ha percorso in più tappe la Cisgiordania lungo la via del ritorno a Gerusalemme, ricevendo il commosso commiato della popolazione e delle autorità.

Forse, le manganellate della polizia israeliana durante un momento così sacro – religiosamente e laicamente – hanno scosso le coscienze fuori dai confini di questa terra un poco più del solito. Almeno per qualche ora. Ma in Palestina ogni giorno succede qualcosa. Confische. Demolizioni. Arresti, anche di bambini. Perquisizioni e controlli arbitrari. Problemi “burocratici” di ogni sorta, perché ciò che era valido ieri potrebbe per chissà quale cavillo non valere più oggi. Uccisioni e ferite gravi che lasciano disabilità permanenti, come fu durante le Marce del Ritorno a Gaza tra il 2018 e il 2019.

La 21enne Razan al-Najjar, paramedico, viene colpita a morte proprio mentre prestava servizio in una di queste proteste, nel 2018. Eyad Hallaq, 32enne di Gerusalemme Est, autistico, viene ucciso in Città Vecchia per “comportamento sospetto” nel maggio 2020. Sempre a Gerusalemme, l’allora 13enne Ahmad Manasra nell’ottobre del 2015 segue il cugino 15enne in un accoltellamento nella colonia di Pisgat Ze’ev; gravemente ferito, viene arrestato e condannato dopo interrogatori e un processo molto controversi, raccontati nel documentario The Advocate, sull’avvocata israeliana Lea Tsemel, attiva nella difesa dei diritti dei palestinesi. Nel gennaio di quest’anno il 73enne Hajj Suleiman viene investito da un carro attrezzi nel corso di un raid israeliano nella zona di Masafer Yatta, sud di Hebron, negli ultimi mesi oggetto di frequenti operazioni.

E via elencando, in un tetro esercizio di mantenimento della memoria, perché tutta questa ingiusta sofferenza non si disperda non appena la cronaca gira pagina. Numerose organizzazioni per i diritti umani – da Amnesty International e Human Rights Watch fino alla palestinese al-Haq (recentemente inserita in lista nera dal Ministro della Difesa israeliano Gantz per sospette relazioni terroristiche) – hanno documentato tutto ciò con dettaglio e rigore. Video, fotografie, testimonianze sono disponibili on line. Amnesty International e Human Rights Watch si sono recentemente allineate con diverse organizzazioni locali nell’utilizzo del termine “apartheid” per definire il sistema israeliano di occupazione.

Alla luce di ciò, si capisce bene perché quel corteo è stato attaccato così brutalmente anche per i nostri occhi distratti. Perché la quotidianità della Palestina è brutale. Le espressioni “occupazione, “apartheid”, “violazioni dei diritti umani” possono disturbare, risuonare esagerate alle orecchie di chi luoghi quali Jenin, Gaza City, Hebron, Qalandya o Silwan non sa nemmeno immaginarli.

Ma sono parole violente perché la realtà della Palestina è violenta. E ingiusta, mentre il racconto di ciò che avviene ogni giorno si confonde in gerarchie della sofferenza stratificate nelle coscienze di chi ignora quanta rabbia provi un giovane di Essawiyya o nella parte palestinese della Città Vecchia che cerca il suo posto nel mondo in un quartiere che non vede un miglioramento infrastrutturale né un investimento da decenni; l’angoscia di un lavoratore di Qalqilya che ogni giorno attraversa un checkpoint senza sapere se qualcosa possa andare storto col suo permesso (si consiglia a tale proposito Living Emergency. Israel’s permit regime in the Occupied West Bank, di Yael Berda); la desolazione di una giovane laureata di Gaza che ha imparato tutto dai libri e da internet, senza poter mai uscire da quella prigione a cielo aperto che è la Striscia.

Ovviamente ci si rammarica e indigna per le vittime degli attacchi di Beer Sheva o Bnei Brak e Dizengoff Street a Tel Aviv nel periodo precedente a Ramadan, per citare le tragedie più recenti, ma il dolore di fronte alla morte può (e deve) convivere con una lettura del conflitto in cui le asimmetrie sono evidenti a chi vuole osservarle. La Palestina insegna una cosa molto importante, ogni giorno: non importa quanto “disciplinatamente e ordinatamente” ci si comporti, l’ingiustizia ti colpisce perché ingiusta è la realtà cui appartieni.

Ai palestinesi si chiede di negoziare e cedere, di conformarsi e pure di insorgere contro la loro classe politica e ogni devianza sociale. Ma il popolo palestinese ha diritto di esistere? A quali condizioni? E ancora, quanto preoccupano invece i processi politici in corso in Israele, sempre più a destra, con una società stretta tra capitalismo finanziario che ha aumentato disuguaglianze e povertà e pulsioni religiose decisamente oscurantiste, come ragionano Michel Warschawski in Sulla frontiera o Mordecai Richler in Quest’anno a Gerusalemme? Quali inquietudini suscitano la privatizzazione della sicurezza, la legge sul terrorismo del 2016 o la legge sullo Stato-nazione del 2018?

Ai palestinesi, venerdì 13 maggio 2022, è stato di nuovo negato il diritto alla rabbia. Nel marzo 2022, alla presentazione del documentario The Advocate a Gerusalemme Est, un anziano palestinese difeso da Lea Tsemel le disse di fronte al pubblico: “Hai difeso me quando sono stato arrestato, hai difeso mio figlio quando è stato arrestato, possa tu vivere abbastanza a lungo quando toccherà a mio nipote”. Questa è la speranza palestinese: ogni giorno andrà peggio e il migliore augurio che ci possa fare è quello di continuare a opporsi a tutto ciò.

A volte, semplicemente, levando una bandiera a Gerusalemme Est, per celebrare chi ha dedicato la propria esistenza, fino alla morte, a raccontare la storia quotidiana di un popolo sciagurato.

L’Institute for Palestinian Studies ha reso disponibili in inglese alcuni scritti di Shireen Abu Aqleh, consultabili a questo linkLeggere le sue parole è la maniera più immediata per onorare la sua memoria.

https://www.qcodemag.it/interventi/il-diritto-palestinese-alla-rabbia/

Video con immagini del funerale della giornalista Shireen Nasri Abu Aqleh

https://youtu.be/vSA39lPAbxI

https://youtu.be/ZM1d6mtdEg0

https://youtu.be/lm9wk9h0Wrw

 

da qui

 

 

 

Il giorno della Nakba: Come la Gran Bretagna premia Israele per i suoi crimini di guerra – Husam Zomlot

Dopo 74 anni, la pulizia etnica dei palestinesi non è ancora stata affrontata. Per porvi fine, l’Occidente deve chiederne conto a Israele.

Il 15 maggio, il popolo palestinese ricorda la Nakba, o catastrofe, quando nel 1947-48 più di due terzi della popolazione furono sfollati con la forza dalle proprie case e dalle proprie terre per far posto a una popolazione a maggioranza ebraica: Israele.

Questa pulizia etnica, perché di questo si trattò, rimane ancora oggi senza risposta a 74 anni di distanza. E rimane la chiave per qualsiasi risoluzione del conflitto tra Palestina e Israele. Ma non solo non viene affrontata: è tuttora in corso. Due esempi:

All’inizio di maggio, una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana ha dato il via libera all’esercito israeliano di trasferire con la forza più di 1.000 palestinesi dalle loro case e villaggi a Masafer Yatta, vicino a Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Si tratta di un trasferimento forzato di popolazione che è illegale secondo il diritto internazionale. È ciò che le bande sioniste fecero in massa alla popolazione palestinese nel 1948, prima di spianare al suolo le centinaia di villaggi che avevano costretto a lasciare.

Ai rifugiati creati allora, compresi i miei genitori e la mia famiglia, non è mai stato permesso di tornare alle loro case e alle loro terre. Anche questo è in contrasto con il diritto internazionale, in base al quale i rifugiati hanno diritto al ritorno.

Chissà cosa farà Israele ai 1.000 sfortunati le cui case sono ora minacciate.

Poi c’è stata l’uccisione, l’11 maggio, della mia amica Shireen Abu Akleh, veterana corrispondente di Al Jazeera in Palestina. A prescindere dai tentativi dei funzionari israeliani di deviare la colpa dei fatti e diffondere disinformazione, non c’è dubbio che sia stata uccisa da un proiettile israeliano. E non ci sono dubbi sulla brutalità dell’apartheid israeliano durante il suo funerale a Gerusalemme Est occupata.

Israele ha certamente una sua formula per il successo. Almeno 46 giornalisti sono stati uccisi dal 2000. Nessuno è stato chiamato a risponderne perché a Israele è sempre permesso di indagare su se stesso, con risultati prevedibili.

È stato aperto un procedimento contro Israele presso la Corte Penale Internazionale per l’uccisione di quattro giornalisti a Gaza – Ahmed Abu Hussein, Yaser Murtaja, Muath Amarneh e Nedal Eshtayeh – e per aver deliberatamente preso di mira le sedi dei media a Gaza durante l’assalto militare dello scorso maggio.

 

Impunità israeliana

A prescindere da ciò che accadrà in quel caso, il nocciolo della questione è la facilità con cui Israele uccide e si sottrae alle proprie responsabilità, senza che la comunità internazionale si accorga di nulla.

Per esempio, in aprile, mentre il Regno Unito ha “condannato” volentieri all’ONU gli attacchi contro gli israeliani, il suo governo si è detto solo “preoccupato” per la perdita, molto più consistente, di vite umane da parte dei palestinesi.

Dal 1948, infatti, Israele è stato raramente, se non mai, chiamato a rispondere delle sue violazioni del diritto internazionale, del diritto umanitario internazionale e della dignità e dei diritti del popolo palestinese….

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Ritorno a Gaza dopo bombe e macerie. La sua tenuta è a rischio – Manuela Valsecchi

(Fonte: https://altreconomia.it/ritorno-a-gaza-dopo-bombe-e-macerie-la-sua-tenuta-e-rischio/)

A un anno dai bombardamenti sulla Striscia la popolazione è alle prese con una nuova ricostruzione, in un contesto drammatico, lontano dai riflettori. L’Onu e le Ong denunciano, inascoltate, l’oppressione e l’abbandono dei civili

“Ricordo quel giorno di maggio come uno dei più orribili della mia vita. Era la notte prima della fine del Ramadan, come la sera della vigilia di Natale per un cristiano, e sembrava imminente il cessate il fuoco, aspettavamo con ansia l’indomani per essere al sicuro. Ma a mezzanotte sono iniziati attacchi folli, 200 esplosioni in un minuto. Io e la mia famiglia ci siamo stretti al centro della stanza, ero certa che sarei morta, non riuscivo a pensare ad altro. È stata la notte peggiore che abbia mai vissuto”.

Wafaa Alzanin vive a Gaza ed è volontaria e assistente alla ricerca in ambito sanitario.

Ricorda così la notte tra il 13 e il 14 maggio 2021, quando, dopo dieci giorni di bombardamenti, 160 aerei da guerra israeliani hanno attaccato 450 “obiettivi” in meno di 40 minuti nella zona settentrionale della Striscia di Gaza, lanciando contemporaneamente 500 colpi. Wafaa ha 27 anni e ha bene in mente anche i bombardamenti israeliani del 2008, del 2012 e del 2014. Quello dello scorso anno però è stato diverso: “Non avrei mai immaginato che un esercito potesse usare una simile potenza di fuoco sulle persone, è stato molto duro e molto disumano”. Il bilancio di quei dieci giorni di guerra lo dimostra: 260 morti -tra cui 130 civili, 66 bambini e 38 donne-, 1.211 persone sfollate, innumerevoli edifici distrutti o danneggiati, tra cui sei ospedali, due cliniche, un ambulatorio e una delle sedi della Mezzaluna rossa palestinese.

A un anno da quei terribili giorni si può osservare che ancora una volta gli abitanti della Striscia di Gaza si sono dati da fare e la ricostruzione è stata portata avanti rapidamente, come spiega Barbara Archetti, presidente di Vento di Terra, Ong italiana che opera in Palestina da vent’anni. “Fin da subito la popolazione si è attivata per sistemare le case e per proporre ai bambini delle attività che restituissero loro una dimensione di vitalità e un’alternativa alla disperazione del momento. C’è stato un incredibile sforzo collettivo per ripristinare le strade, i bacini di raccolta dell’acqua, gli ospedali, anche se non si è potuti arrivare dappertutto”.

 Del resto il blocco totale che l’intera area vive dal 2007 non facilita la ripresa in un contesto provato da anni di guerra, aggravato dalla pandemia da Covid-19 e da fine febbraio 2022 anche dagli effetti del conflitto in Ucraina. “L’aumento dei prezzi dei beni primari sta cominciando ad essere estremamente critico -spiega Archetti-, all’inizio di aprile di quest’anno era raddoppiato il prezzo della farina e dei suoi derivati. La farina arriva dall’Egitto, il quale per far fronte all’aumento della richiesta interna ha ridotto il passaggio verso Gaza, dove adesso riesce a entrare solo un prodotto davvero scadente”.

Ma non è solo una questione economica: “La risposta dell’Europa e del resto del mondo alla crisi in Ucraina ha acuito la sfiducia delle persone -continua la presidente di Vento di Terra-, sentono che c’è un trattamento e un interesse diverso, perché i principi su cui si basa la solidarietà espressa nei confronti del popolo assediato dalla Russia sono il diritto all’autodeterminazione e il diritto a proteggersi da uno Stato invasore e questo non è diverso da quello che hanno vissuto e vivono i palestinesi. La percezione in questo momento è di una differente attenzione e di una discriminazione nel sostenere la popolazione civile nelle due situazioni”.

Di pari passo si spegne la speranza che una soluzione al conflitto possa passare dei tavoli negoziali: “La sottoscrizione degli Accordi di Abramo (promossi dagli Stati Uniti e sottoscritti il 15 settembre 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain e poi in seguito anche da Sudan e Marocco, con i quali Tel Aviv ha ‘normalizzato’ i suoi rapporti con i quattro Paesi arabi, ndrnon ha fatto altro che confermare la solitudine dei palestinesi che si sentono abbandonati anche da quegli Stati che si erano sempre dichiarati interessati a raggiungere una soluzione giusta”. Al contesto internazionale si aggiungono le drammatiche condizioni in cui vivono i 2,1 milioni di gazawi nella Striscia, un territorio che secondo le Nazioni Unite sarebbe diventato invivibile nel 2020…

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La posizione della Germania sulla Palestina: due volte dalla parte sbagliata della storia? – Ilan Pappe

Non c’è dubbio che la Germania nazista era dalla parte sbagliata della storia, e c’è voluto un enorme sforzo internazionale per portare la Germania dall’altra parte dopo la fine della seconda guerra mondiale. Un modo nobile di farlo è stato quello di rafforzare le basi democratiche della Germania post-nazista, e di riscrivere i suoi programmi educativi, oltre a garantirle un ruolo di primo piano nella lotta contro il razzismo nel cuore del continente. Tutto ciò è stato completato da un nobile tentativo di regolare l’industria locale degli armamenti e le esportazioni di armi in modo da assicurare un processo di riparazione il più completo possibile.

Tuttavia, un elemento importante di questa riparazione, ancora ritenuto cruciale dal sistema politico tedesco, è il sostegno incondizionato a Israele. Questo dà l’impressione che la Germania, come Stato, possa sbagliare di nuovo. Questa volta, è molto meno drammatico della precedente deviazione dalla normalità e dall’umanità, tuttavia è altamente preoccupante e profondamente deludente che la Germania come Stato –e speriamo non la sua società– non abbia recepito pienamente e onestamente le lezioni morali che la sua storia più oscura avrebbe dovuto insegnarle.

La Germania, cioè la Germania Ovest fino alla fine degli anni ’80, e l’Occidente in generale, credevano che la strada per la riabilitazione e la riammissione della Germania Ovest alle “nazioni civilizzate” dovesse passare attraverso la legittimazione della colonizzazione della Palestina. Così, tre anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Occidente chiedeva al mondo di concedere, simultaneamente, la legittimazione della nuova Germania e la creazione di uno Stato ebraico su gran parte della Palestina storica, come se le due richieste fossero logicamente e, peggio ancora, moralmente collegate. Di conseguenza, Israele divenne uno dei primi stati a dichiarare l’esistenza di una “nuova Germania”, in cambio di un sostegno incondizionato alle sue politiche, integrato da enormi aiuti finanziari e militari da parte della Germania Ovest.

Dopo l’unificazione della Germania e il ruolo egemonico che ha giocato da allora nelle politiche estere dell’UE, la posizione tedesca su Israele e Palestina è diventata fondamentale e ha influenzato la politica generale del continente. Solo recentemente, quelli di noi che sono attivi per e a favore della Palestina hanno notato la strada scivolosa sulla quale la Germania –come stato– slitta ancora una volta sul lato sbagliato della storia.

Era inevitabile che ampi settori della società civile tedesca, specialmente tra le giovani generazioni, navigassero con successo tra il riconoscimento del passato nazista e le loro priorità morali contemporanee, locali e internazionali. In effetti, il passato ha prodotto una generazione di giovani tedeschi coscienziosi che si uniscono ad altri in Occidente nella lotta per i diritti umani e civili, ovunque siano violati.

Per qualsiasi tedesco con un minimo di decenza, era impossibile escludere da questa conversazione morale le politiche razziste israeliane. Il risultato inevitabile è stato l’emergere di un forte movimento tedesco di solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta lotta di liberazione.

Come è successo altrove, in particolare dopo la Prima Intifada, e ancora di più in questo secolo, Israele ha reagito con forza a questo cambiamento dell’opinione pubblica europea. Quando questo originale impulso di solidarietà è cresciuto in un massiccio movimento sociale, galvanizzato e incoraggiato da iniziative come il BDS – Israele è sceso in guerra. Israele ha armato l’antisemitismo e l’islamofobia per spingere il sistema politico tedesco a fare di tutto per mettere a tacere le voci più coscienziose della sua società civile.

Ho sperimentato il risultato di questa campagna. Ogni tanto, le mie conferenze in Germania venivano annullate all’ultimo momento, e gli organizzatori dovevano spostare me e altri oratori in sedi alternative, organizzate in fretta e furia e con poco tempo per ripubblicizzare gli eventi, ciò che era lo scopo principale di questi atti di intimidazione dall’alto.

La politica tedesca si è deteriorata ulteriormente e ancora più profondamente in un abisso morale quando, il 17 maggio 2019, quasi tre anni fa, il parlamento federale tedesco –il Bundestag– ha approvato una risoluzione in cui il movimento BDS veniva condannato come antisemita. Le istituzioni governative della Germania sono state invitate a non sostenere alcuna attività del movimento BDS o di qualsiasi gruppo che “è antisemita e/o chiede il boicottaggio degli israeliani, delle aziende e dei prodotti israeliani”. Questa insolita mossa del parlamento è stata approvata consensualmente da tutti i partiti politici: i partiti dell’Unione Cristiana (CDU e CSU), i socialdemocratici (SPD), il partito liberale (FDP) e il partito dei Verdi.

La logica distorta di questa risoluzione si basa sull’equiparare all’antisemitismo ogni critica di Israele e del sionismo. Da quando è stata approvata, questa risoluzione ha portato alla cancellazione di eventi accademici e culturali associati alla Palestina o –cosa ancor più draconiana– è stata applicata a qualsiasi evento organizzato da persone note per essere pro-palestinesi. Inoltre, i cittadini tedeschi rischiavano di perdere il lavoro e di mettere in pericolo le loro prospettive di carriera se partecipavano a manifestazioni pro-palestinesi o a qualsiasi atto di solidarietà.

Nella sua politica estera generale, la Germania non è diversa dagli altri stati membri dell’UE. Una politica che è un misto di indifferenza verso gli abusi di Israele sui diritti dei palestinesi, associata a un rafforzamento dei legami strategici, militari ed economici con Israele. Allo stesso tempo, la Germania segue i gruppi di pressione pro-Israele nel tentativo di far cadere i politici che osano identificarsi con la causa palestinese e soffoca qualsiasi dibattito significativo sul sionismo e sulla politica di Israele. In Germania, tuttavia, la politica del silenziamento è ancora più draconiana, e gli aiuti militari e i collegamenti economici sono ancora più forti che in qualsiasi altro Stato membro dell’UE.

E questo avviene non solo per timore di Israele o per senso di colpa riguardo all’Olocausto. Questi fattori sono certamente importanti, ma c’è un’altra storia più oscura che la Germania ufficiale non vuole affrontare. Anche una discussione relativamente sommaria sulle responsabilità della Germania per la sofferenza dei palestinesi mostrerà chiaramente che è stata la Germania post-nazista a permettere al mondo di assolvere, non solo la Germania occidentale ma l’Europa intera, dall’Olocausto, grazie al suo pieno sostegno all’espropriazione dei palestinesi. Per riabilitarsi, è stato molto più facile scegliere questa strada piuttosto che affrontare adeguatamente, non solo l’antisemitismo, ma tutte le forme di razzismo europeo, che si manifesta principalmente oggi come islamofobia, ma anche come razzismo contro le minoranze “non europee” o “non bianche” in tutto il continente.

La politica di Israele nei confronti dei palestinesi è razzista fino al midollo, e non si possono creare gerarchie di razzismo o un club di razzismo “accettato” o legittimo. Ci si sarebbe aspettati che la Germania guidasse la campagna antirazzista, non solo in Europa ma nel mondo intero, invece di guidare il sostegno, come stato, a uno dei più lunghi progetti razzisti dei nostri tempi nella terra storica della Palestina.

Non si sa quando e come questa posizione tedesca errata e immorale tornerà a tormentare la Germania. Ciò che è chiaro, e incoraggiante, è che c’è un gran numero di tedeschi che non vogliono finire su questa strada scivolosa e stanno facendo tutto il possibile per fermare questo deterioramento immorale e chiedere la creazione di quella vera “nuova” Germania, che tutti noi desideriamo come esseri umani coscienziosi e morali.

Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente senior di scienze politiche all’Università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina, Il Medio Oriente moderno, Una storia della Palestina moderna: Una terra, due popoli, e Dieci miti su Israele. Pappé è descritto come uno dei “nuovi storici” israeliani che, dopo la pubblicazione nei primi anni ’80 di documenti governativi britannici e israeliani, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina –  da qui

 

 

Coloni israeliani occupano con la forza un edificio di proprietà palestinese a Hebron

(Articolo pubblicato originariamente da Middleeasteye )

Decine di coloni israeliani hanno si sono impadroniti di un edificio palestinese nella città vecchia di Hebron venerdì, mentre erano appoggiati da soldati israeliani.

Issa Amro, direttrice del gruppo di attivisti Youth Against Settlements con sede a Hebron, ha twittato un video della scena che mostrava i coloni che trasportavano i loro effetti personali, compresi materassi e valigie, mentre prendevano d’assalto l’edificio di tre piani.

L’agenzia di stampa Wafa ha riferito che l’edificio apparteneva a Walid al-Ja’abri, residente palestinese locale, e che era in fase di ristrutturazione nel momento in cui i coloni israeliani hanno fatto irruzione.

Fonti locali hanno anche affermato che i soldati israeliani hanno circondato l’edificio per impedire ai residenti palestinesi di avvicinarsi ai coloni.

Circa 700 coloni israeliani vivono negli insediamenti nel cuore di Hebron, dove sono sorvegliati da migliaia di soldati e poliziotti israeliani. Centinaia di case palestinesi sono state nel frattempo lasciate vuote a causa delle restrizioni a favore dei coloni.

Hebron ospita più di 200.000 palestinesi.

Peace Now, una ONG che controlla l’espansione degli insediamenti israeliani, ha affermato che “non importa se [l’edificio] è stato acquistato legalmente” dai coloni, ma piuttosto se il ministro della Difesa Benny Gantz ha autorizzato il loro ingresso, secondo il Jerusalem Post.

I coloni attaccano i manifestanti

Altrove venerdì, coloni hanno attaccato giornalisti e manifestanti che hanno organizzato una manifestazione a  Masafer Yatta  vicino a Hebron contro l’imminente sfratto di oltre 1.000 palestinesi dalla zona rurale.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, circa 200 persone, inclusi attivisti israeliani di sinistra, stavano marciando verso il punto d’incontro della manifestazione quando coloni mascherati hanno lanciato pietre contro di loro e ne hanno picchiato alcuni con oggetti appuntiti.

Almeno cinque persone sono rimaste ferite, di cui una portata in ospedale, ha detto il notiziario.

Anche i giornalisti che seguivano la marcia sono stati attaccati, ha dichiarato The New Arab, mentre le loro attrezzature e veicoli sono stati danneggiati.

L’esercito ha poi sparato granate assordanti e ha disperso la protesta.

La violenza a Masafer Yatta e la decisione di occupare la casa palestinese di Hebron arriva il giorno dopo che Israele ha avanzato piani per costruire 4.427 unità abitative per i coloni nella Cisgiordania occupata.

Secondo Peace Now, l’alto comitato di pianificazione dell’amministrazione civile israeliana – un’autorità che gestisce la Cisgiordania occupata – ha approvato 2.791 unità e approvazioni iniziali per altre 1.636.

Questa violenza arriva anche all’indomani dell’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, che è stata uccisa a colpi di arma da fuoco dalle forze israeliane durante un raid nel villaggio di Jenin nella Cisgiordania occupata.

Quasi 700.000 israeliani vivono in insediamenti illegali in Cisgiordania e Gerusalemme est, che Israele ha occupato illegalmente durante la guerra del 1967.

Un rapporto pubblicato lo scorso anno dal gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha rilevato che il governo israeliano ha utilizzato la “violenza dei coloni” come strumento principale nel suo tentativo di impossessarsi della terra palestinese nella Cisgiordania occupata.

“Lo stato sostiene e assiste pienamente questi atti di violenza, e i suoi agenti a volte vi partecipano direttamente”, ha affermato l’organizzazione nel suo rapporto.

“In quanto tale, la violenza dei coloni è una forma di politica del governo, aiutata e favorita dalle autorità statali ufficiali con la loro partecipazione attiva”.

da qui

 

 

 

I Giovani Palestinesi d’Italia scrivono una lettera all’Ordine dei Giornalisti

Lettera pubblicata sulla pag fb dei Giovani Palestinesi d’Italia

Alla cortese attenzione del Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli,

Alla cortese attenzione del Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Riccardo Sorrentino,

È di ieri 11 maggio 2022 la notizia dell’uccisione di Shereen Abu Aqleh, famosissima giornalista palestinese e storica corrispondente Al Jazeera, da anni in prima linea per raccontare al mondo ciò che succede in Palestina.

Abu Aqleh stava documentando l’attacco condotto dall’esercito israeliano all’interno del campo profughi di Jenin, nei Territori Occupati palestinesi – considerati sotto occupazione illegittima dalla risoluzione 242 delle Nazioni Unite e dalla IV Convenzione di Ginevra.

Abu Aqleh indossava il giubbotto antiproiettile identificativo con la scritta “press” e l’elmetto protettivo. Nonostante ciò un proiettile sparato da un cecchino israeliano l’ha colpita all’altezza del collo, provocandone la morte immediata.

Israele al momento si trova sotto accusa per crimini di guerra e crimini di fronte al massimo tribunale in materia di protezione dei diritti umani, la Corte Penale Internazionale. Assassinare i giornalisti in contesti di occupazione militare significa silenziare la voce di chi lavora per documentare la verità. L’abbattimento del palazzo che ospitava Al Jazeera e Associated Press nel 2021 nella Striscia di Gaza, l’uccisione di Shereen Abu Aqleh, costituiscono delle chiare violazioni del diritto umanitario internazionale, che garantisce protezione alla professione giornalistica. Negli ultimi 10 anni sono stati 24 i giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano.

Chiediamo al presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli- che negli ultimi giorni si è espresso a favore della tutela della professione nel caso ucraino- di riservare le medesime attenzioni nei confronti dei colleghi palestinesi che da anni cercano di raccontare la realtà dell’occupazione militare, della violazione dei diritti umani e dei crimini di apartheid commessi da Israele ( si guardi sul tema i report pubblicati dalle ong internazionali Human Rights Watch, B’Tselem, Amnesty International). Chiediamo a Ricardo Gutierrez presidente della Federazione Europea dei Giornalisti, che in passato ha dichiarato: “i giornalisti vengono deliberatamente presi di mira allo scopo di creare terrore o di impedire che emerga la verità” di esprimersi in conformità a queste parole, prendendo posizione contro l’assassinio di Shereen Abu Aqleh.

Chiediamo inoltre che l’Ordine dei Giornalisti si esprima riguardo alla violazione del Codice Deontologico da parte di molti giornali italiani e da parte della RAI- Radiotelevisione italiana, per ciò che concerne l’accesso all’informazione senza ingerenza e al rispetto delle fonti, che devono essere imparziali e non espressione di una verità unilaterale. La Rai, in merito all’omicidio della Abu Aqleh, ha cercato di occultare la responsabilità dei militari israeliani, definendo la sua uccisione frutto di uno “scontro”. Ribadiamo quanto scritto all’inizio: i territori della Cisgiordania sono occupati militarmente e in violazione delle principali convenzioni in materia di protezione di diritti umani.

Manca poco alla giornata mondiale in difesa della libertà di stampa, l’Italia si trova al 58imo posto nella classifica dei paesi dove viene rispettata la libertà di stampa, principio sancito dalla Costituzione italiana all’art. 21, pertanto chiediamo che l’Ordine Nazionale dei Giornalisti prenda posizione e che chieda il rispetto del codice deontologico, delle convenzioni internazionali e del rispetto della libertà di stampa e di espressione.

Giovani Palestinesi d’Italia – da qui

 

 

 

Morire una mattina a Jenin – Paola Caridi

Cento chilometri. Appena cento chilometri separano Jenin da Gerusalemme. Jenin, in cui stamattina presto è stata uccisa con un colpo alla testa Shireen Abu Aqleh, la più nota giornalista televisiva palestinese, e Gerusalemme, la città in cui era nata, per la precisione nel quartiere di Beit Hanina, a est della linea verde, molto vicino a Ramallah. Eppure, per lei era proprio Jenin, in cui ha perso la vita, la città che aveva segnato la sua carriera professionale come il volto e la voce delle notizie sulla Palestina che, attraverso Al Jazeera, sono arrivate nell’ultimo quarto di secolo al pubblico arabo.

Per chi conosce la terra piccola e martoriata in cui si trovano, Jenin e Gerusalemme sono divise da una distanza siderale. È lo spazio che le separa a essere difficilmente comprensibile, per chi non ha mai visitato Israele/Palestina. I cento chilometri in linea d’aria sono, infatti, costellati dai frammenti diversi che costituiscono la Cisgiordania occupata: cittadine palestinesi, colonie israeliane illegali per il diritto internazionale, strade per i coloni, strade per i palestinesi, campi profughi, e una infinità di check-point.

Mondi a parte, nel quotidiano, uniti però dall’ultima ondata di violenze che – soprattutto nelle più recenti settimane – ha segnato la vita e la narrazione su Israele/Palestina. L’uccisione di Shireen Abu Aqleh, che indossava il giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” e l’elmetto, durante un raid dell’esercito israeliano ha infatti solo portato tragicamente sotto i riflettori quello che già succede da mesi in un posto lontano, troppo lontano e invisibile per i nostri notiziari.

Cos’è successo, in questi mesi? Per fare anche una semplice cronistoria, occorre definire un punto, nell’arco temporale, che sappiamo essere del tutto arbitrario e tuttavia necessario. Il punto scelto cade nel settembre del 2021. Esattamente il 6 settembre del 2021, alla vigilia delle grandi festività ebraiche che, ogni anno, segnano la fine dell’estate e l’autunno.

È allora che Israele viene scossa da una notizia inquietante: una notizia che rompe, nell’immaginario del paese, il mito dell’essere protetti dal proprio sistema militare e di polizia. Una fuga dal carcere di massima sicurezza di Gilboa, in cui sono detenuti prigionieri con accuse di terrorismo e pene pesantissime, molte sono pene all’ergastolo. Sei detenuti palestinesi, tra cui uno dei nomi più noti delle fazioni armate, Zakaria Zubeidi, scavano addirittura un tunnel che parte dal pavimento della loro cella e arriva al di là del possente muro di recinzione. Tra gli strumenti usati per scavare, cucchiai di metallo e cocacola per intaccare la durezza del cemento.

Dopo i primi momenti di sconcerto e le immancabili polemiche sulle falle della sicurezza, parte la caccia all’uomo che, nel giro di due settimane, riporta in carcere tutti e sei i fuggitivi. Cinque di loro appartenenti al Jihad islamico, mentre Zubeidi è considerato il nome di punta delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, la fazione armata di Fatah, spesso, se non sempre, in contrasto con l’ala politica.

Cos’hanno in comune i sei protagonisti della fuga da Gilboa? Un luogo, una città, un’area. E un ruolo all’interno della storia recente palestinese. Sono tutti di Jenin. Cisgiordania settentrionale, poche decine di chilometri di distanza dal Muro di separazione che percorre da nord a sud il Territorio palestinese occupato. Dall’altra parte c’è Israele. E anche il carcere di Gilboa. Non è un caso che in uno dei suoi ultimi scritti, affidato a un piccolo ma diffuso settimanale in inglese, This week in Palestine, Shireen Abu Aqleh sottolinea che lei, a Jenin, ci era tornata dopo vent’anni proprio per seguire la vicenda della ‘fuga da Gilboa’.

Jenin non è un luogo qualsiasi. Per l’opinione pubblica palestinese è uno dei centri della resistenza…

continua qui

 

L’esercito israeliano sta guadagnando milioni sequestrando attrezzature agricole palestinesi – Basil al-Adraa e Oren Ziv

Nel cuore della notte del 1° dicembre 2021, i soldati israeliani hanno marciato su un piccolo villaggio palestinese nella Valle del Giordano alla ricerca di uno strano obiettivo: macchine agricole. Svegliarono le famiglie di Ras al-Ahmar, ordinarono loro di uscire dalle loro case e confiscarono le loro macchine agricole. Il villaggio, situato nella Cisgiordania occupata, ospita circa 180 residenti, tutti agricoltori e allevatori di bestiame.

“Erano le 4 del mattino”, ricorda il sindaco del villaggio, Abdullah Bisharat, pochi mesi dopo l’episodio. “Hanno sequestrato trattori, carri rimorchi e cisterne d’acqua proprio all’inizio della stagione dell’aratura. Circa 3.000 dunam/Km2 (740 acri) di terra non seminata andarono in rovina. Quella notte fu un duro colpo per tutte le famiglie”.

L’esercito israeliano ha giustificato la confisca con la motivazione che il villaggio si trova all’interno di una “Zona di Fuoco” militare. Quasi il 20% della Cisgiordania, tuttavia, è stata dichiarata Zona di Fuoco dalle autorità di occupazione. Circa 38 comunità palestinesi vivono in queste aree e sono a rischio di espulsione.

Dati inediti dell’Amministrazione Civile, il braccio dell’esercito israeliano che governa i Territori Occupati, raccolti dall’ONG Kerem Navot, suggeriscono che le confische di attrezzature agricole ed edili palestinesi (inclusi trattori, gru, materiali da costruzione e cisterne d’acqua) sono triplicati negli ultimi sette anni. Nel frattempo, le confische di attrezzature simili da parte di coloni israeliani in Cisgiordania sono diminuite del 42% nello stesso periodo.

La differenza non è stata sempre così netta. Nel 2014, i dati mostrano che palestinesi e coloni israeliani si sono visti confiscare quantità simili di equipaggiamento dalle autorità: 262 singoli attrezzi sono stati confiscati ai palestinesi e 253 ai coloni. Nel 2015 era iniziata la nuova tendenza: i palestinesi hanno perso 812 pezzi di attrezzatura quell’anno, mentre i coloni israeliani ne hanno persi solo 154.

I dati ottenuti da Kerem Navot mostrano inoltre che, tra il 2014 e il 2020, l’Amministrazione Civile ha incassato oltre 8 milioni di NIS (2.268.000 euro) dalle tasse di rilascio per l’attrezzatura sequestrata e ha tratto profitti per circa 2,5 milioni di NIS 708.271 euro) dalla vendita di attrezzature che i proprietari non erano in grado o non volevano reclamare. In altre parole, l’Amministrazione Civile ha ricavato oltre 10 milioni di NIS (2.832.000 euro) dalla confisca di attrezzature agricole e da costruzione in quel periodo.

Per recuperare i materiali e le attrezzature, ai palestinesi viene generalmente richiesto di pagare da 6.000 a 8.000 NIS (da 1.770 a 2.265 euro) ciascuno, un costo di gran lunga superiore ai costi del processo di confisca stesso, secondo i registri dell’esercito.

L’acquisizione di questi dati ha richiesto due ricorsi separati ai sensi della legge israeliana sulla libertà di informazione. “Abbiamo richiesto le informazioni all’Amministrazione Civile un anno fa, ma hanno ignorato le nostre richieste per mesi”, afferma Dror Etkes, il fondatore di Kerem Navot. “Quando abbiamo finalmente ottenuto i dati, abbiamo capito perché”.

Etkes ha continuato: “I dati mostrano le enormi differenze nell’applicazione delle confische tra israeliani e palestinesi per quanto riguarda la costruzione nell’Area C”, riferendosi al 60% della Cisgiordania occupata che è sotto il pieno controllo civile e militare israeliano, e dove si trovano anche le Zone di Fuoco. “Queste sono cose che chiunque lavori sul campo vede ogni giorno, nell’enorme picco di demolizioni delle costruzioni palestinesi e nell’aumento del numero di avamposti illegali israeliani negli ultimi anni”.

“I dati riflettono fedelmente la radicalizzazione nazionalista della politica israeliana negli ultimi anni e la cultura dell’Apartheid, che si sta diffondendo tra le autorità israeliane in Cisgiordania, a cominciare dalla stessa Amministrazione Civile”, aggiunge.

“Fa tutto parte di una politica per cacciarci via”

Il pretesto legale per le confische israeliane è il più delle volte il reato di lavorare in un’area definita come “Terra Demaniale” o “Zona di Fuoco” o di svolgere qualsiasi lavoro al di fuori dei piani di zonizzazione che Israele ha autorizzato per le comunità palestinesi sotto il suo pieno controllo, cosa che non accade quasi mai.

I sequestri non sono limitati all’Area C; Israele confisca anche le attrezzature per l’agricoltura e l’edilizia palestinesi nell’Area B, dove la responsabilità per le questioni civili, come la pianificazione e la costruzione, ricade apparentemente sotto l’Autorità Palestinese. Qui, Israele utilizza il “Divieto di costruzione 1/96”, che proibisce la costruzione vicino alle strade principali, anche nelle aree sotto il controllo palestinese.

Nel settembre 2021, ad esempio, sono iniziati i lavori per un parco giochi nel villaggio di Jaba’ vicino a Jenin, nella Cisgiordania settentrionale. L’Amministrazione Civile ha presentato un ordine di sospensione dei lavori e ha confiscato l’escavatore dell’appaltatore, sostenendo che il parco giochi si trovava a meno di 100 metri dalla tangenziale di Ramallah, che Israele ha costruito nell’area B negli anni ’90.

“Nessuno osa portare un trattore o qualsiasi altro tipo di veicolo per arare la terra”, afferma Bisharat. “La gente sta tornando ad arare con l’asino, come ai vecchi tempi. Sta rendendo la vita molto difficile. Fa tutto parte di una politica per cacciarci via”.

Gli agricoltori palestinesi dipendono soprattutto da trattori e camioncini per il trasporto di cisterne d’acqua e balle di fieno per il bestiame. Questo perché l’esercito, come regola generale, vieta ai palestinesi di costruire strade di accesso e infrastrutture idriche nell’Area C, che contiene la maggior parte dei terreni agricoli della Cisgiordania. Il sequestro di questa attrezzatura, quindi, può paralizzare un’intera comunità.

In molti casi, l’esercito israeliano confisca le attrezzature dei palestinesi mentre i lavori sono in corso. È quello che è successo a Mohammed Bani Odeh, residente nella Valle del Giordano, che stava usando un escavatore per scavare un solco dove posare un tubo di irrigazione nella sua terra, dove coltiva za’atar.

“Mentre stavo scavando, i soldati si sono presentati e hanno detto che lo stavo facendo illegalmente”, ricorda. “Hanno confiscato l’escavatore per dieci giorni. Ho dovuto pagare 8.000 NIS (2.265 euro) per riaverlo”.

I coloni riferiscono, l’esercito sequestra

L’intensificazione della campagna di confisca è stata alimentata in parte dall’attivismo dei coloni israeliani. Negli ultimi due anni, i consigli regionali degli insediamenti hanno istituito gruppi WhatsApp in cui i residenti possono riferire ogni volta che individuano lavori di costruzione palestinesi in corso. L’Amministrazione Civile ha anche istituito una linea diretta per tali segnalazioni, soprannominata “War Room C” (Sala Operativa C).

Una relazione del Consiglio Regionale di Mateh Binyamin, nella parte settentrionale della Cisgiordania, preparata per una conferenza sulla questione nell’aprile 2021, affermava che centinaia di suoi residenti prendono parte al processo di segnalazione, insieme a coordinatori della sicurezza civile (impiegati dall’esercito in ogni insediamento), ispettori, coloni agricoltori e altri. Un prospetto vantava 600 segnalazioni fatte dai coloni nel solo 2020, tutte all’interno del Consiglio Regionale. Le segnalazioni hanno portato a 60 confische.

Un altro pretesto per la confisca è lavorare su terreni che Israele ha espropriato fin dagli anni ’80, spesso all’insaputa dei contadini palestinesi. Il mese scorso, nell’area di Masafer Yatta, nelle colline a Sud di Hebron, due trattori agricoli sono stati confiscati in uno di questi appezzamenti di terreno. Queste aree, che Israele chiama “Terra Demaniale”, sono effettivamente aree di Apartheid, precluse ai palestinesi e assegnate esclusivamente ai coloni ebrei.

In altre occasioni, le confische vengono effettuate senza alcun pretesto legale, ma semplicemente in risposta alle richieste avanzate dai coloni. Questa è stata l’esperienza di Sa’id Alian, che possiede un terreno vicino all’avamposto illegale di Mitzpeh Yair. Lo scorso marzo, Alian e sua moglie sono stati attaccati da un gruppo di coloni mascherati con tubi di ferro mentre stavano facendo una scampagnata nella loro stessa terra. La moglie di Alian ha filmato l’attacco.

Quest’anno, quando Alian ha avuto bisogno di lavorare nel suo uliveto, si è assicurato di avvisare l’Amministrazione Civile e l’esercito, nella speranza che quest’ultimo lo proteggesse da attacchi simili. L’esercito ha risposto confiscandogli il trattore e l’escavatore, senza alcuna apparente motivazione se non quella di assecondare le richieste dei coloni nell’avamposto illegale nelle vicinanze.

Basil al-Adraa è attivista, giornalista e fotografo del villaggio di al-Tuwani nelle colline a sud di Hebron.

Oren Ziv è fotoreporter e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills.

Traduzione d Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org – da qui

 

scrive Vincenzo Costa

Non c’è stato uno, dico uno, dei miei contatti con l’elmetto e difensori dei valori universali e dei diritti e dei nazi della azov che abbia detto una parola su quella barbarie che è stata perpetrata contro una morta. Scene ignobili.

Non una voce istituzionale che si sia levata contro questa empietà.

Dimostrazione che la retorica dei valori serve solo se funzionale alla nato e agli usa.

da qui

 

Shireen Abu Akleh e l’imbarazzo degli “opinionisti” italiani – Paolo Desogus

Una giornalista palestinese è stata uccisa da alcuni soldati Israeliani, e il giorno del funerale la polizia non ha esitato a caricare la folla del corteo in prossimità del feretro, che ha rischiato di cadere per terra. Quanto accaduto è così disgustoso che non solo l’UE e l’ONU, ma persino gli USA hanno hanno protestato.

Da parte di molti opinionisti e leader politici c’è però molto imbarazzo.

Le rimostranze sono tutte formali, espresse attrverso anonimi comunicati. La retorica dell’orrore di cui traboccano i giornali e i servizi televisivi è stata sostituita dalla cronaca asettica.

In Italia anche gli specialisti del moralismo lacrimevole, come Roberto Saviano o Massimo Gramellini, tacciono nel rispetto del loro mandato di intellettuali conformisti.

Tutti gli uomini e tutte le donne sono uguali, ma qualcuno lo è un po’ di meno e non merita la stessa compassione, lo stesso trasporto.

Da quando la razionalità politica delle democrazie appartenenti al club occidentale è andata a farsi benedire, l’emotività ha assunto una funzione determinante, da dosare per orientare l’opinione pubblica, ovvero per dividere il mondo in buoni e cattivi.

Metti mai che qualcuno si impressioni troppo e passi dall’indignazione alla riflessione per così scoprire che la morte della giornalista palestinese è solo la punta dell’iceberg di un sistema di dominio che non solo Israele, ma molte democrazie “perbene”, inclusa la nostra, esercitano sulle popolazioni oppresse di mezzo globo.

da qui

 

 

 

scriveva Edward Said:

…COMPRENDERE quanto è accaduto agli ebrei in Europa sotto i nazisti significa riuscire a capire quanto vi sia di universale nell’esperienza umana quando è sottoposta a condizioni disastrose. Vuol dire compassione, comprensione umana, e un assoluto ritrarsi dall’idea di uccidere per ragioni etniche, religiose o nazionaliste.

A tale comprensione e compassione non mi sento di porre condizioni di alcun genere: sono sentimenti che si provano perché tali, e non per trarne un vantaggio politico. Eppure un simile passo avanti in termini di consapevolezza da parte degli arabi dovrebbe essere accolto da un analogo desiderio di compassione e di comprensione da parte degli israeliani e dei sostenitori di Israele, i quali si sono impegnati in ogni possibile forma di negazione e di espressione di non-responsabilità difensiva ogni volta che si è arrivati al problema del ruolo centrale esercitato da Israele nella storica privazione della terra, da noi subita come popolo. Tutto ciò è davvero ignobile. Ed è del tutto inaccettabile limitarsi a dire (come fanno tanti sionisti liberali) che faremmo bene a procedere verso la creazione di due stati separati dimenticando senz’altro il passato. La cosa è tanto insultante per la memoria ebraica dell’Olocausto quanto lo è per i palestinesi che continuano a venire privati dei loro territori da parte di Israele.

LA QUESTIONE fondamentale è che le esperienze di ebrei e palestinesi sono storicamente e organicamente legate fra loro. Volerle tenere separate significa falsificare ciò che vi è di autentico in ciascuna di esse. Affinché possa esservi un futuro comune noi dobbiamo pensare le nostre storie legate fra loro, per quanto difficile la cosa possa apparire. E quel futuro dovrà comprendere arabi ed ebrei, insieme, liberi da ogni progetto tendente all’esclusione, basato sulla negazione, che miri a escludere uno dei due contendenti per mezzo dell’altro, sia dal punto di vista teorico che da quello politico. E’ questa la vera sfida. Tutto il resto è assai più facile.

(traduzione di Maria Antonietta Saracino)

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1998002263 1-2 1998

 

…Vorrei accennare, inoltre, a un altro aspetto fondamentale della causa palestinese e dell’intero popolo arabo: la dignità. Il punto fondamentale che va messo in luce è la larghissima forbice che divide la nostra società dai pochi che ci comandano. Questi sembrano sottostimare se stessi e le loro nazioni, paurosi di aprirsi al loro popolo e terrificati d’irritare il fratello maggiore, gli Stati Uniti. Perché la collettività degli arabi non ha strillato il suo «no» contro l’intervento americano in Iraq? Contro le follie di Bush e del suo potere ricevuto da Dio, nessun leader arabo ha avuto il coraggio, come un leader di un grande popolo, di dire che noi abbiamo le nostre tradizioni e la nostra religione? Dov’è il supporto arabo, politico, economico e diplomatico, per sostenere un movimento anti-occupazione nella West Bank e a Gaza?

Forse la cosa che più mi colpisce dell’incapacità araba di dare dignità alla causa palestinese è la situazione in cui è caduta l’Anp. Abu Mazen, una figura di secondo rilievo con scarso peso anche tra i suoi, è stato scelto da Arafat, Israele e Stati Uniti proprio per la sua inconsistenza. Non è né un oratore né un grande organizzatore, e ho paura che esaudirà i desideri di Israele senza occuparsi di quelli del suo popolo. Un uomo che al vertice di Aqaba parlava come il pupazzo di un ventriloquo, che leggeva discorsi scritti dal nemico. Lentamente sembra, però, che le cose stiano cambiando e che Abu Mazen e Abu Ammar (Arafat ndt), nelle aspettative popolari, stiano per essere rimpiazzati da nuovi leaders e forze emergenti. La più promettente è formata dai membri dell’Iniziativa Nazionale Palestinese (di Mustafà Bargouti, n.d.r.), le cui attività hanno radici profonde nelle classi lavorative, e tra i giovani intellettuali. Offrono servizi sociali ai disoccupati e assistenza sanitaria nei campi profughi. Sono queste iniziative che rivelano la dignità e la giustezza della nostra battaglia, che viene appoggiata da persone di tutto il mondo, tra cui Rachel Corrie.

* Da The alternative information center (trad. di Pier Mattia Tommasino)

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003032109   1-7-2003

 

 

Jenin Jenin, di Mohammad Bakri (con sottotitoli in inglese)

 

qui lo stesso film con sottotitoli in italiano (ma la qualità del video è bassa)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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