Tradurre è pericoloso

 Ovvero lingue mal studiate, accenti sbagliati, parole mal capite: storie (anche) dell’Italia di oggi per profughi e immigrati (*)  

Esce in questi giorni da Stampa Alternativa (236 pagine per 15 euri): «111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo»: è una ricerca intelligente quanto divertente di Romolo Giovanni Capuano, sociologo, criminologo e traduttore. Cosa c’entra con «Corriere dell’immigrazione» per il quale lo recensisco? Pazientate poche righe e lo saprete: alcune storie infatti riguardano migranti, profughi e altra gente che si trova – di solito per gravi necessità – a passare le frontiere senza avere preventivamente studiato le lingue nelle scuole migliori; persone che talvolta arrivano in ambienti ostili dove trovano chi sospetta di loro magari solo perché… appunto parlano una lingua strana.

Fino alla 56esima vicenda (su 111) nel libro non ci sono campanelli d’allarme che questi «errori di traduzione» richiedano attenzione speciale per chi – come «Corriere dell’immigrazione» – si muove in quel groviglio che io mi sono abituato a chiamare, con una sigla strampalata,  «mirmema» cioè migrazioni, intercultura, razzismi, meticciato e molto altro.

Poi ecco «Vatti a fidare degli interpreti», la dolorosa storia di Samirah Mohamed, fuggita in Canada e la cui richiesta di asilo viene respinta, la prima volta, per un incredibile numero di errori del traduttore il quale ben poco conosceva l’inglese e per nulla lo swahili (cosa ci stava a fare allora?). Canada, però il pensiero corre subito ai profughi in Italia.

Anche la storia successiva non ci riguarda da vicino: «medicine poco salutari» racconta infatti come negli Usa vi siano disposizioni – giustissime in teoria ma spesso ignorate o male applicate nella pratica – per favorire l’accesso a «risorse e strutture, comprese quelle riguardanti la salute» anche a chi non è madre-lingua inglese. Di nuovo, chiunque conosca un poco la babele italiana sa a esempio che in alcuni ospedali traduzioni e interpretariato mancano del tutto, in altri sono all’altezza dei bisogni mentre in un certo numero di casi la traduzione è un manicomio linguistico e confonde più che aiutare le persone straniere. Non sarebbe dunque difficile trovare la “gemella” di questa vicenda statunitense.

Nelle 6 storie successive del libro di Capuano l’Italia incombe.

La prima riguarda «una donna cinese  di 28 anni, abitante a Prato» che, nell’agosto 2010, rischia di uccidere la figlia di 6 mesi per un «errore di traduzione»: anche qui farmaci, con «tre gocce» che si trasforma in «due cucchiaini» ovvero 40 volte la dose prescritta. E giustamente Capuano si chiede: «Ancora una volta: si può rischiare la vita per un banale errore linguistico?».

Subito dopo arrivano alcuni passaggi di un incubo che pochi italiani “doc” conoscono, dove l’ignoranza delle lingue e soprattutto l’imperizia di chi traduce – a volte aggravata dal pregiudizio razzista (o religioso) – favorisce il vedere colpevoli o terroristi che non ci sono.

La 59esima storia è infatti quella di Akter Yesmin, «cittadina bengalese», incarcerata dal 5 giugno 2004 al 24 maggio 2006 «pur essendo del tutto innocente». L’interprete addirittura non informa la donna delle accuse contro di lei. «Una favola kafkiana» conclude Capuano dopo avere analizzato tutta la vicenda.

La storia numero 60 è purtroppo da manuale, nel senso che altre vicende simili si sono ripetute negli anni: «BS, un tunisino arrestato nel 2007 perché accusato di associazione per delinquere per finalità di terrorismo» viene scarcerato quando un vero interprete riesce a far capire che l’uomo a esempio nella telefonata intercettata non stava chiedendo «passaporti vergini» (cioè puliti) ma qualche bottiglia di gazzosa Virgin.

La vicenda numero 61 rimanda all’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio e all’arresto del marocchino Mohammed Fikri, il quale viene scarcerato non appena il giudice ordina «una nuova traduzione» sulla telefonata intercettata: così il «Dio mi perdoni» diventa un «Dio, fa che mi risponda». E così via. Le indagini successive confermeranno l’innocenza di Fikri  mentre già – scrive Capuano – «giornali e televisioni avevano preparato i loro menù a base di invettive razziste».

Ancora tre storie prima di chiudere questa parte del libro che si vena di pregiudizio… a dir poco.

«Intercettazioni romanzesche» rimanda al romanzo di Amara Lakhous, «Divorzio all’islamica a viale Marconi», pubblicato nel 2010. Beh, si dirà, se è un romanzo… «cose simili non accadono nella realtà»; macchè, Lakhous fa riferimento «a un episodio realmente accaduto» ad Anzio «a tre pescatori egiziani a lungo in cella perché un anziano sosteneva di averli sentiti parlare di Bin Laden».

Devastante la vicenda successiva per la credibilità delle indagini anti-terrorismo: «il 1 marzo 2002, alla stazione Termini di Roma» vengono arrestati «tre iracheni di etnia curda» con l’accusa di «avere pianificato un attentato terroristico con uso di armi e cianuro». Qualcuna/o ricorderà i titoli giganteschi dei media e le “analisi” emergenziali. Le indagini però provano che la traduzione era completamente sbagliata e in alcuni punti inventata, così «dopo ben nove mesi di carcerazione preventiva i tre tornano liberi». Purtroppo i media che avevano strillato al terrorismo hanno praticamente del tutto ignorato la conclusione della vicenda: una pessima abitudine. Il libro di  Capuano giustamente indica tra le sue fonti il libro «Il mercato della paura: la guerra al terrorismo islamico nel grande inganno italiano» pubblicato, nel 2006, da Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo ma sarà bene citare anche Bianca Stancanelli e il suo «Quindici innocenti terroristi: come è finita la prima grande inchiesta dell’estremismo islamico».

L’ultima triste vicenda che riguarda errori venati di razzismo è «Condannati per una tonnellata di… melagrane» e – come scrive Capuano – «sarebbe divertente se non fosse tragica»: una fotocopia delle altre. Dove «35 frasi, in arabo e francese, interpretabili come rivelatrici di attività terroristiche» si rivelano «una surreale cantonata» quando chi indaga scopre che in francese «grenade» rimanda alla melagrana.

E il resto del libro? Si può leggere con inquietudine e qualche risata, saltare dal lontano passato all’oggi: «parole di una lingua rese malamente in un’altra, cattive trascrizioni, virgole spostate, parole travisate o udite male, intenzionalmente o casualmente» che – così la copertina – «hanno causato terremoti, fatto cadere governi, creato inimicizie o favorito accordi, reso felici o infelici gli esseri umani». Così in queste pagine si vedrà: che una piazza mai stata rossa lo diventa; che «per un punto Martin perse la cappa»; che forse la prima bomba atomica fu sganciata per una parola giapponese («mokusatsu») mal capita; che i canali di Marte furono “visti” dal traduttore e non da uno scienziato; che qualche famoso film di Hollywood è tradotto malamente… ma anche qui c’è una storia che molto c’entra con il razzismo; che tra alberi ed elfi a volte la differenza sfugge; che il latino «men sana in corpore sana» è stato estrapolato dal contesto un po’ in fretta (o in malafede?); che Alessandro Magno divenne «dio» per un errore di interpretazione; sino al «colmo degli errori di traduzione» che riguarda appunto il verbo «tradurre».

Le prime pagine del libro di Capuano vertono sui gravissimi errori commessi nel tradurre Bibbia e Vangeli ma anche nei punti più paradossali (o discutibili) il sorriso è venato di tristezza perché lungo centinaia di anni i cristiani si scannarono per una parolina in più o diversamente interpretata nei loro sacri testi. Che la religione resti un terreno dove le parole possono uccidere lo confermano i fanatici che nel 1991 hanno ucciso uno dei traduttori di «Versetti satanici», il libro “vietato” di Salman Rushdie. E anche questo purtroppo è un tema che riguarda tanto la realtà quanto i pregiudizi.

Per chiudere questo discorso, restando nei significati ambigui delle parole, se guardiamo un vocabolario (per esempio lo Zingarelli 2011) possiamo leggere che «tradurre» ha almeno tre significati:«volgere, trasferire da una lingua all’altra» ma anche «trasportare» (lì c’è l’esempio di un esercito) o «spostare». Come ben sa chi ha una buona conoscenza dell’italiano si usa dire infatti che l’imputato è stato «tradotto in carcere». Sarebbe opportuno evitare la cattiva traduzione di parole e frasi così che non si aggiunga la traduzione in carcere di innocenti.  Insomma, viste le storie raccontate in questo libro – e le molte simili che si conoscono – è urgente che nelle prossime indagini l’attenzione alle parole giuste si coniughi con la prudenza investigativa. E’ chiedere troppo?  

(*) Questa mia recensione-riflessione esce anche su «Corriere dell’immigrazione» (db)

Redazione
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Un commento

  • Titolo azzeccato. Io traduco per imparare a scrivere in italiano, ma sono scettico su traduzioni ed interpreti. Meglio imparare le lingue e definire degli strumenti condivisi di comunicazione.

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