Transizione, licenziamenti e Italia senza progetto

di Franco Astengo

Piano Ue «Fit for 55», che prevede lo stop nel 2035 alla produzione dei motori endotermici; transizione verso l’elettrico; crisi dei chip; e prezzi alle stelle di materie prime ed energia: cominciano a mietere vittime fra gli occupati. È il caso di Bosch e Marelli. Entrambi i gruppi hanno annunciato esuberi: 700 dei 1.700 lavoratori dell’impianto Bosch di Bari e 550, fra impiegati e quadri, su un totale di 7.900 occupati in Italia, per Marelli. La fabbrica Bosch, attiva dal 1999 a Modugno, produce componenti per i motori Diesel ed è la più grande tra quelle del gruppo in Italia.

Questa notizia – che abbiamo riassunto in poche righe – sta a dimostrare come il discorso sulla “transizione ecologica” portata sul terreno della necessaria riconversione industriale rechi con sé problemi molto complessi sia dal punto di vista della programmazione e dello stare al passo dell’innovazione tecnologica che dell’aspetto occupazionale.

Per l’economia italiana il settore automobilistico rappresenterà uno dei punti nevralgici della trasformazione industriale.

C’è un virus che non abbandona il corpo cronicamente debilitato dell’economia italiana: l’Italia è senza progetto e l’approccio al PNRR fornito dal governo e dal sistema industriale conferma questo giudizio.

La situazione italiana alla vigilia – appunto – dell’avvio di un processo che dovrà essere di doppia transizione (ecologica e digitale) può essere, ancora una volta schematizzata in relazione alla nostra storia industriale dal dopoguerra in avanti.

Si tratta di argomentazioni già sostenute in varie sedi; mai come in questo caso “repetita juvant”.

Il punto di partenza è gli anni’70: la fase di avvio dello «scambio politico», attraverso l’operazione “privatizzazioni” realizzate in funzione clientelare .

Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti,l’IRI trasformata in spa.

L’esito più grave della fase dello «scambio politico» infatti, si realizzò in una condizione di totale dismissione del sistema delle partecipazioni statali (IRI messa in liquidazione il 27 giugno 2000) mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:

1) L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;

2) La perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio «produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato»;

3) A fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure (si pensi all’elettronica) ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. La progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese è un fattore assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;

4) Si segnalano infine due elementi fra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, ferrovie autostrade, porti da un lato e dall’altro un utilizzo del suolo soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia, incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.

Sono scomparsi princìpi fondamentali di programmazione e di intervento pubblico in economia: affrontati in un’ottica che, tempo addietro, l’ex-segretario della FIM-CISL Bentivogli definì felicemente «keynesismo a fumetti».

Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è definita globalizzazione e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, «scambio politico», assenza di una visione industriale, incapacità di tenere il ritmo dell’innovazione tecnologica hanno rappresentato fattori che evidentemente pesano in maniera esiziale sulle prospettive dell’economia italiana.

LE IMMAGINI- scelte dalla “bottega” – sono di Giuliano Spagnul.

 

Redazione
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Un commento

  • Gian Marco Martignoni

    Per quel che leggo su Il manifesto solo il nostro paese, a differenza di Francia e Germania, si presenta impreparato a questi appuntamenti ben messi a fuoco da Franco Astengo. D’altronde, Luciano Gallino aveva rilevato le debolezze del nostro tanto esaltato ” piccolo è bello ” nel saggio “La scomparsa dell’Italia industriale” del 2003.Sulla mancata innovazione tecnologica pesano due fattori : da un lato il mancato finanziamento della ricerca ha limitato di fatto il ruolo dell’Università e ha favorito le fuga dei cervelli ; dall’altro lato la storica divisione internazionale del lavoro ci confina nei settori di basso contenuto come valore aggiunto.Si raccogli, come sappiamo, quel che si semina.

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