Tre storie d’acqua

di Maria G. Di Rienzo

Durante gli anni ’80, un’organizzazione non governativa implementò un progetto per provvedere acqua corrente a diversi villaggi messicani. L’organizzazione fornì le pompe e addestrò i residenti locali all’uso e alla manutenzione delle stesse. Un anno più tardi, una squadra andò a verificare lo stato dell’arte del progetto: la maggioranza delle pompe non funzionavano. Come mai? L’ong si era preoccupata di addestrare solo gli uomini, ma nei villaggi erano le donne a essere responsabili per l’acqua. I tempi sono cambiati, eppure il genere resta largamente non discusso o non previsto nel discorso sull’acqua. Anche se ormai si riconosce che le donne sono le principali provveditrici d’acqua a livello domestico, la prospettiva in cui sono collocate nel discorso è quella delle vittime o dei membri di gruppi vulnerabili, invece di quella reale: a causa delle ineguaglianze di genere le donne sono le più colpite dalle crisi relative all’acqua o ai cambiamenti climatici, e allo stesso tempo sono le più attive nel rispondervi e nell’operare cambiamenti. Lasciate che vi racconti “tre storie d’acqua”.

Veronica Nzoki, kenyota, è la presidente dell’Associazione utenti acqua di Endui. Il gruppo l’ha creato assieme ad altre donne per ottenere dal governo che l’acqua sia portata più vicina alle case e che la sua qualità sia migliorata. Veronica risiede a Endui, nel Kenya orientale, da più di cinquant’anni: «Ricordo bene come il ciclo dell’acqua fluiva quando ero bambina. Coltivavamo abbastanza e conservavamo abbastanza acqua da rispondere agevolmente alle occasionali siccità. Ma questo non è più possibile. Nelle ultime due stagioni i terreni non hanno risposto alla coltivazione e il bestiame è morto di fame. Per la prima volta da quando è stata costruita, e cioè dal governo coloniale più di mezzo secolo fa, nel 2009 la diga Kiiya si è completamente prosciugata. Noi donne ci muoviamo verso la sorgente più vicina già alle sei del mattino. Stiamo in coda per ore ed ore. Quando abbiamo raccolto l’acqua e ci avviamo a tornare a casa è già passato mezzogiorno. Questo ci toglie ogni energia. Quelle di noi che avevano piccole attività commerciali hanno dovuto abbandonarle per provvedere l’acqua alle proprie famiglie».

Ayibakuro Warder, madre di cinque bambini, vive nella regione del Delta del Niger. Di mestiere fa l’impiegata comunale, ma resta coinvolta nella pesca e nell’agricoltura che sono le attività principali della sua famiglia. E’ riconosciuta come leader non solo dalle donne, con cui condivide l’attivismo, ma dall’intero suo clan. Ayibakuro, come Veronica, ricorda tempi diversi: «Quando ero bambina i miei genitori ottenevano grandi raccolti e anche la pesca era proficua. L’estensione dei campi di cassava allora, per fare un esempio, non è neppure paragonabile a quella odierna. Le nostre sorgenti, i nostri laghi, i nostri ruscelli, sono stati uccisi dai continui sversamenti di petrolio. Qui nessuno ha dubbi: i raccolti più scarsi, i problemi di salute che aumentano soprattutto fra i bimbi, li dobbiamo all’estrazione del petrolio. Senza quasi più risorse economiche diventa difficile cercare aiuto medico. Troppe donne sono morte di petrolio.

Nello sversamento del 2007 le donne di Ikarma persero tutta la cassava che avevano messo a mollo nel fiume. Il petrolio distrusse anche le reti da pesca e i pesci. Allora guidai una manifestazione di donne e andammo a protestare davanti alla base logistica della Shell a Kolocreek. Ma non importa quali giustificazioni tirino fuori: che parlino di sabotaggi o di guasti, la Shell non ha mai ritenuto giusto compensare le proprie vittime. Invece manda il suo personale militare a intimidire le comunità affinché non parlino pubblicamente delle loro lamentele».

Rasheda Begum, del Bangladesh, è una profuga ambientale: «Avevo una casa a mezzo chilometro dalla spiaggia, a Khudiar Tek sull’isola Kutubdia. La mia casa fu spazzata via da un ciclone nel 1991. Allora mi sono costruita una capanna tre chilometri più in là. Come le mie vicine, ero devastata da un terrore inesplicabile, quello del fuggire verso una destinazione ignota. Credo che questa paura derivasse dal fatto che, a differenza degli uomini, i nostri movimenti come donne sono sempre stati ristretti. Nel 2007 abbiamo lasciato l’isola e ci siamo trasferiti in un ghetto urbano, alla periferia di una cittadella turistica. Il posto non ha nessun servizio per chi non è turista, come situazione è molto stressante. Mi sto organizzando con altre donne ma ogni giorno devo pensare a come dar da mangiare alla mia famiglia. Lavoro a giornata, nel trattamento del pesce secco: è un impiego stagionale che si svolge in condizioni igieniche disastrose. E sono costantemente in ansia per le mie tre figlie più grandi, perché non ci sono leggi che proteggano i poveri, specialmente i rifugiati ambientali dei ghetti».

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