Triennale teatro Stagione 2023 – Lo sguardo sul mondo
susanna sinigaglia
Triennale teatro
Stagione 2023
Lo sguardo sul mondo
Iniziata sullo sfondo dei tragici eventi in Israele e a Gaza con la rinuncia a inaugurarla della Bastsheva Dance Company, la stagione ha visto sul palco della Triennale teatro il lavoro fra il malinconico e il tragico di Amir Reza Koohestani e del Mehr Theatre Group, Blind Runner; quello visionario e poetico di François Chaignaud e Marie-Pierre Brébant, Symphonia Armoniae Celestium Revelationum; la coreografia Sfera con gli mk di Michele di Stefano; la rielaborazione dell’opera di Mary Shelley, Frankenstein, da parte dei Motus; la performance di Daria Deflorian, Elogio della vita a rovescio / Tre storie, magistralmente interpretata da Giulia Scotti, e per finire un progetto creato da Radio Raheem – la resident radio di Triennale teatro –, dalla Kiosk Radio di Bruxelles e Radio 80000 di Monaco di Baviera, patrocinato dall’Unione europea e lanciato dalla piattaforma paneuropea 25 AV dedicata alle arti audiovisive e performative: 25AV Live.
Fuori programma, ma ormai legato alla stagione di Triennale teatro, il lavoro presentato al salone della Volvo ormi al secondo anno di questa riuscita partnership: l’unione di performer di danza e musicisti che si esibiscono improvvisando nello spazio.
In Blind Runner vediamo sul palco una donna e un uomo in piedi l’una di fronte all’altro. Il programma di scena ci dice che si trovano in prigione, in Iran; sono moglie e marito e lei cerca di convincere il marito ad aiutare una ragazza, rimasta cieca durante una manifestazione, a evadere per partecipare a una maratona. Il pubblico non vedrà mai la ragazza.
Tutta l’azione si svolge fra i due coniugi che sembra quasi giochino con le parole una partita a ping pong, rilanciandosi le battute. Questo gioco nell’immobilità giunge alla fine come in un salto spazio-temporale, quando vediamo i due proiettati su uno schermo correre attraverso il tunnel della Manica.
Ma così facendo andranno incontro alla morte che sopraggiunge con le sembianze del treno che li travolge.
Da notare che il dialogo si svolge in lingua farsi e il pubblico può seguirlo leggendone i sottotitoli che scorrono in alto, sullo spazio che sovrasta il palcoscenico. Chi però, come me, è un po’ ipovedente non riesce a leggere quasi niente. E questa è una prima importante critica allo spettacolo, subito seguita da quella conseguente: se il linguaggio è incomprensibile ai più, perché non affidarsi al potere delle immagini invece che a un dialogo fra due persone immobili poste l’una di fronte all’altra? E perché questa immobilità non è stata spinta allora alle estreme conseguenze, conferendole perciò una forza emotiva a prescindere da sottotitoli e parole? E infatti è il finale il momento più coinvolgente, perché si affida appunto alla forza dell’immagine con le due figure di spalle che avanzano correndo lungo il tunnel, nel buio, incontro al loro tragico destino. Ma dove è finita la maratoneta cieca?
In Symphonia Armoniae Celestium Revelationum François Chaignaud, accompagnato dalla bandura – antico strumento a corde ucraino fra il liuto e l’arpa – suonata da Marie-Pierre Brébant, interpreta le composizioni musicali di Ildegarda di Bingen vissuta a cavallo fra l’XI e il XII secolo. Grande mistica, artista, studiosa, le composizioni musicali e le invenzioni linguistiche di Ildegarda evocano paesaggi cosmici, sembrano esplorare anfratti misteriosi, aprire ampi squarci di luce. E infatti durante lo spettacolo l’ambiente è investito da fasci di luce che provengono dal parco circostante, introducendo nella sala, sulle pareti, la magia dei riflessi-giochi luminosi.
Sul corpo seminudo dei due artisti sono inscritti alcuni brani della poesia di Ildegarda, insieme a simboli celesti; un continuo invito alla meditazione e alla contemplazione del creato.
Lo spettacolo si svolge intorno a una struttura a spirale posta al centro della scena che mi ricorda quella della Torre di Babele e alla sua immagine rimanda anche l’acconciatura dei capelli elicoidale dei due artisti. Su un sedile cilindrico, accanto ai gradini della struttura, dove sale e scende Chaignaud, è seduta Marie Brébant come una dea grande madre sotto la cui protezione va, di tanto in tanto, a porsi Chaignaud.
Nel grande salone d’onore della Triennale, il pubblico è disposto su morbide e mobili poltroncine rasoterra dove ci si può anche sdraiare se si vuole. E forse questo è stato un errore della regia, insieme alla scelta della durata della performance: oltre due ore di canti salmodiati in una lingua semisconosciuta (un latino a tratti attraversato da parole in francese) accompagnata da antiche armonie non comuni [1], in un ambiente semibuio, non potevano non avere un esito forse un po’ scontato da parte di un pubblico per quanto attento: il diffondersi di torpore e stanchezza.
Così i due artisti, resisi conto delle difficoltà degli astanti, hanno interrotto anzitempo la loro esibizione; che è comunque stata accolta da un lungo e caloroso applauso. E non solo: i due artisti si sono resi disponibili all’uscita della sala per un ultimo gesto di saluto a chi avesse voluto stringere loro la mano o rivolgere un sorriso.
Ultima nota critica: su quelle poltroncine rasoterra nessuna persona con qualche problema alle ginocchia, alla schiena o altro, avrebbe potuto accomodarsi per godersi lo spettacolo…
Dal canto suo Sfera, degli mk di Michele Di Stefano, mi ha lasciato piuttosto perplessa. Indubbiamente convincenti gli interpreti sia della danza sia come attori nei pezzi introduttivi e finali della performance, tuttavia gli inserimenti vocali non mi sembra avessero molto a che vedere con la coreografia che li ha separati. Ma soprattutto guardando online alcune fasi del kecak, la danza rituale balinese cui si dovrebbe ispirare il lavoro come si legge nella sua presentazione, mi pare non avesse molto a che vedere nemmeno con questo. Il kecak è una danza collettiva fatta di gesti semplici da parte di uomini che si posizionano in cerchio e su cui piombano diversi personaggi con maschere tradizionali, a volte da animali o da stregoni. Indossano abiti variopinti e si scatenano al ritmo della voce degli altri interpreti che emettono versi come “cia cia” o forse anche “cecac”. Lo stregone di turno può anche saltare dentro un grande falò acceso al centro della scena per spegnerlo, quindi eseguire altri gesti rituali circondato dall’eccitazione crescente dei presenti.
Sfera, come accennato sopra, inizia con i “danzattori” che pronunciano frasi non sense. Un registro in sintonia col teatro dell’assurdo di Ionesco o Beckett piuttosto che con l’esecuzione del kecak.
E anche la coreografia, che funge da intermezzo fra le due fasi verbalizzate, non ricorda in nulla il kecak: è un lavoro contemporaneo, senz’altro originale, eseguito con gesti molto fluidi ed elevata professionalità.
Forse l’unco elemento che richiama il rito balinese è proprio la parte vocale, quando le voci si sovappongono in un confuso brusio; diventa simbolo del vano chiacchiericcio che spesso ci circonda, il contrario dell’evocazione rumorosa e prepotente di divinità che ispira invece il vociare del kecak.
Mi è molto piaciuto il lavoro presentato al salone della Volvo come è ormai tradizione della Triennale teatro, al secondo anno di questa riuscita partnership. Hanno unito il loro talento il coreografo Philippe Kratz con la sua compagnia e il primo violino della Scala Laura Marzadori, accompagnata dal pianista italosvedese Olaf John Laneri, nella performance intitolata UnevenTerrain. E di “terreno accidentato” si tratta quando si parla di sperimentazione; in questo caso sia per il luogo insolito in cui si svolge la performance sia per le sue caratteristiche e i suoi interpreti. La danza viene eseguita da cinque giovani, due ragazze e tre ragazzi; volteggiano nello spazio della Volvo che si trasforma in un luogo quasi magico, mentre sul soffitto si alternano immagini cangianti di paesaggi artici. In particolare mi ha colpito una delle due giovani, molto intensa e flessuosa nella sua interpretazione. E alla fine il pubblico ringrazia musicisti e danzatori con un caloroso applauso.
Elogio della vita a rovescio / Tre storie è l’ultimo spettacolo della stagione cui ho assistito. Ne sono autrici Daria Deflorian e Giulia Scotti, che ne è anche l’unica interprete. Il lavoro si ispira a tre racconti di Han Kang, scrittore sudcoreano. Sembra la lunga riflessione di una donna, un lungo monologo in cui l’unico riferimento al vero tema del testo, il rapporto fra sorelle, è appena accennato nel monologo. I tre racconti a cui si ispira il testo teatrale sono La vegetariana, The White Book e Atti umani e lo suddividono in tre “atti”, anche se non tradizionalmente separati da interruzioni ma solo da brevi silenzi. La peculiarità dell’autore sembra quella di far emergere, da argomenti in apparenza banali, la piega tragica dell’esistenza. Mano a mano che il racconto si snoda lo spettacolo assume aspetti sempre più inquietanti nella sua ingannevole pacatezza. Il passaggio di una donna a un’alimentazione vegetariana, una scelta per i più innocua, rappresenta una svolta esistenziale che vira verso il tragico, anche se la svolta è appena suggerita nell’interpretazione minimale di Giulia Scotti.
In White Book, il testo fa riferimento a una permanenza invernale di Han Kang in una Varsavia sommersa sotto una coltre ovattata di neve. Il bianco della neve rappresenta simbolicamente il lutto per la morte della sorellina ad appena due ore dopo la nascita ed è il pretesto per una meditazione sulla perdita e la fragilità umana.
Fra gli elementi bianchi evocati troviamo il riso, lo zucchero e il latte materno. Per rendere l’idea dell’immersione nel bianco l’attrice svuota sul palco tre sacchi pieni di farina, gli unici oggetti di scena presenti in cui sembra trovare un po’ di sollievo, per infine passare al racconto seguente.
E qui il tono dell’interpretazione cambia. Atti umani testimonia il massacro che avvenne a Gwuangju in Corea del Sud dopo il colpo di Stato del maggio 1980. È come se la narrazione di questa tragedia porti a compimento quella degli altri due racconti, ne sia il logico, fatale esito.
Una costruzione drammaturgica molto efficace, ispirata alla sottile arte della suspense.
[1] La Lingua ignota
Da Wikipedia
Ildegarda fu l’autrice di una delle prime lingue artificiali di cui si abbiano notizie, la lingua ignota (dal latino, “lingua sconosciuta”), da lei utilizzata probabilmente per fini mistici. Essa utilizza un alfabeto di 23 lettere, definite le ignotae litterae. Ildegarda ha parzialmente descritto la lingua in un’opera intitolata Lingua Ignota per hominem simplicem Hildegardem prolata, di cui sono sopravvissuti solo due manoscritti, entrambi risalenti al Duecento: il Riesenkodex e un manoscritto di Berlino. Il testo è un glossario di 1011 parole in lingua ignota, con traslitterazione per la maggior parte in latino e in tedesco medievale; le parole sembrano essere “a priori” neologismi, per lo più nomi con qualche aggettivo. Sotto l’aspetto grammaticale, sembra essere una parziale rilessificazione della lingua latina: infatti la “lingua ignota” è stata ideata tramite l’adattamento di un nuovo vocabolario alla grammatica latina preesistente. Non è noto se altri, oltre la sua creatrice, abbiano avuto familiarità con essa. Nel XIX secolo alcuni credevano che Ildegarda avesse ideato il suo linguaggio per proporre una lingua universale che unisse tutti gli uomini (per questo motivo santa Ildegarda è riconosciuta oggi come la patrona degli esperantisti con San Pio X [senza fonte]). Tuttavia oggi è generalmente accettato che la lingua ignota sia stata concepita come un linguaggio segreto, simile alla “musica inaudita” di Ildegarda, della quale ella avrebbe avuto conoscenza per ispirazione divina. Questa lingua, essendo stata ideata nel XII secolo, può essere considerata come una delle più antiche lingue artificiali oggi conosciute.