Trieste Science+Fiction Festival: diario di bordo – 2 e fine

di Fabrizio (“Astrofilosofo”) Melodia

 

L’avventura nello spazio continua.

«2030» è il primo film di fantascienza vietnamita a opera del regista e ingegnere astrofisico Nghiem-Minh Nguyen-Vo. Mi rapisce con la forza della semplicità e di una trama davvero coinvolgente, un film quasi verista per la capacità di attrarre lo spettatore con lunghe inquadrature delle persone costrette a vivere su palafitte o nelle barche a causa dell’innalzamento repentino del livello del mare, che ha reso il delta del Mekong ormai vivibile solo su due piccole isole, su una delle quali sorge Ho Chi Min City.

Lentamente siamo portati in questo mondo sommerso attraverso le vicende che ruotano intorno a una coppia di pescatori e a un ricercatore marino, che studia un sistema per piantare verdure che resistano all’acqua salata.

Sono rimasto colpito per la grande sapienza del regista che ha ridotto al minimo l’uso degli effetti speciali, curando inquadrature, fotografia e recitazione nei minimi dettagli.

Ecco come agli sconvolgimenti ambientali tutt’altro che campati per aria, come mette in luce anche il semi profetico «The day after tomorrow», le vicende umane si affiancano dipanandosi sempre sul filo conduttore delle multinazionali che, ben lungi dal proteggere questo mondo, ancora una volta si distinguono a perseguire i propri interessi in barba a qualsiasi briciolo di umanità.

Un po’ deludente «Nymph» del regista serbo Milan Todorovic. Già regista di «Zone of the dead» primo film “zombie” slavo già presentato al festival, ritorna con una pellicola interpretata da un bravissimo Franco Nero, il quale riesce a salvare una storia a tratti troppo “deja vu”, la cui unica punta di originalità è l’introduzione di una sirena assassina che ha eletto a proprio territorio di caccia una sperduta isola del Montenegro.

Fra corpi smembrati e terrori atavici, comunque il film è ben narrato, con sapiente uso degli effetti speciali e della fotografia sporca e scura che ben rende l’atmosfera incombente fino alle dinamiche splatter che tolgono purtroppo tutto il filo della tensione accumulata.

Decisamente di ben altro spessore il recente racconto uscito su Amazon della scrittrice altoatesina Sabrina Rizzo, «Il canto della sirena», anch’esso incentrato sulla mitologica figura di questa predatrice dei mari, qui in vesti molto più tragiche e meno gigionesche, decisamente una ben più elevata caratura e calibratura, dove la reinterpretazione mitologica si sposa a raccontare le emozioni e la diversità che mancano alla pellicola di Todorovic.

La serata è riscattata dall’adranalinico «Open Windows» del regista spagnolo Nacho Vigalondo, che mette in scena quello che viene definito “La finestra sul cortile dell’era digitale”.

Nick Chambers (Elijah Wood, interprete di Frodo nel «Signore degli Anelli») è il fan numero uno dell’eccitante attrice Jill Goddard (la brava Sasha Grey) e ha vinto una cena insieme alla sua beniamina. Non sa che da lì a poco riceverà la telefonata di un certo Chord che lo informa che l’appuntamento è stato cancellato. Nick verrà poi precipitato in un vero e proprio incubo organizzato da Chord, il quale lo manovra con il sapiente uso del computer.

L’attrice Sasha Grey, presente alla serata, ride e scherza con il pubblico. Alla mia domanda su quanto il digitale sta cambiando la nostra vita, risponde con molta consapevolezza, ponendo il fatto che per ricominciare bisogna in qualche modo sparire dal mondo virtuale.

«Honeymoon» – della regista americana Leigh Janiak, con Rose Leslie e Harry Treadaway – narra la vicenda dei neo sposini Paul e Bea in luna di miele in un lago isolato dove la donna andava in vacanza da ragazzina. Presto le cose prendono una brutta piega, con Harry che ritrova Bea a vagare disorientata di notte nel bosco.

Anche se sembra tornare tutto alla normalità, Bea comincia a mostrare comportamenti insoliti, oltre ad avere degli strani segni sull’interno della coscia.

Lentamente l’incubo si dipana con un bel ritmo serrato e senza scene d’azione eclatanti ma giocando sull’atmosfera e su un po’ di splatter sapientemente dosato.

Film d’atmosfera, dove vengono messi in luce, in chiave fantascientifica, i rapporti di coppia e la dissoluzione dell’amore in violenze e solitudine, quasi ispirato ai «Miti di Chtulhu» di Lovecraft.

Incontrare Alejandro Jodorowsky è un’esperienza che lascia il segno.

A 86 anni suonati, nonostante la cocente delusione per la mancata realizzazione del suo film «Dune» intorno al 1975 (con due anni di anticipo su «Star Wars») ecco che ritorna a realizzare una pellicola meravigliosa come «La danza della realtà», in cui prosegue con la scoperta di se stesso, del proprio mondo spirituale e del dolore come sublimazione del ricordo.

Bellissimo il documentario «Jodorowsky’ Dune» del talentuoso Frank Pavich, che narra la mancata realizzazione del film di Jodorowsky tratto dal romanzo «Dune», di Frank Herbert. Con grande coraggio Jodorowsky si era battuto per realizzare un film ambiziosissimo che nelle sue intenzioni avrebbe cambiato completamente le menti dei giovani, aiutandoli a trovare il senso di appartenenza con il tutto e la nuova spiritualità. Ci sarebbe riuscito probabilmente. Aveva tutto: aveva reclutato Moebius che per lui realizzò lo storyborard completo di tutti i movimenti di macchina; aveva reclutato H. R. Giger per le ambientazioni degli Arkonnen mentre Chris Foss, celebre illustratore di copertine di fantascienza, aveva realizzato le astronavi. Della partita furono i Pink Floyd per la colonna sonora mentre Dan O’Bannon, reduce dalla fruttuosa collaborazione con Carpenter ai tempi di «Dark Star», era stato reclutato per realizzare gli effetti speciali: Michel Seydoux aveva messo a disposizione tutto per realizzare questo capolavoro. Fra gli attori c’erano da Mick Jagger fino a Salvador Dalì, che avrebbe recitato 5 minuti nei panni dell’ Imperatore Folle.

Alla fine Jodorowsky ammette di aver stuprato Frank Herbert, in quanto aveva posto la propria visione cosmica al film, dove tutte le persone diventavano Paul Atreides, l’Uno e il Tutto coincidevano. E il pianeta Dune fiorisce a vita nuova, dal sangue di Paul, trasformandosi in un pianeta fertile e rigoglioso, lanciato nel cosmo a velocità impressionante.

Parla di questo e tante altre cose, Jodorowsky: anche nella presentazione, si commuove vistosamente alla consegna del “Premio Urania alla carriera”, invita il pubblico a unire le dita in segno di amore universale.

Lancia profondi messaggi psicomagici, come li definisce lui, ponendo in luce quanto l’uomo usi l’universo della parola e viva di questo pur essendo solo una mappa del mondo. Invita a riscoprire il vero universo interiore che giace sotto la mappa, a far parte di una fratellanza universale cambiando per primi noi stessi.

«La danza della realtà» è un film semplicemente surrealista, visionario ma molto intimista, dove il tempo e i ricordi si dipanano in una commedia di ampie citazioni felliniane cioè di un regista amatissimo da Jodorowsky.

Un tripudio di colori e di umanità sono rappresentate nella maniacale forza costrittrice della società che vive nella parola; viene messo in luce il rapporto conflittuale con il padre; si mostra la forza materna nella rappresentazione della donna che urina con evidenti riferimenti a Pablo Picasso.

La liberazione dell’uomo spirituale avviene attraverso sofferenza e blocchi, vivendo su se stessi la mancanza di amore e la violenza quotidiana. Un tripudio di colori per una nuova luce sulla realtà.

Sembra quasi in sordina il bel film «Time Lapse» di Bradley King, interpretato tra gli altri dalla brava Danielle Panabaker, impegnata fra le altre cose nella nuova serie televisiva del supereroe Flash.

Tre amici vivono in un tranquillo condominio e scoprono che il loro dirimpettaio è uno scienziato un po’ matto che ha inventato una macchina fotografica che scatta polaroid del futuro.

Forse ispirato al vecchio «Accadde domani» di Renè Clair, il film non delude: girato con estrema semplicità, con punte di claustrofobica predestinazione, quando la prima regola dei paradossi temporali sembra una maglia troppo stretta da cui non si può fuggire senza morirne.

Maratona di film, sabato 1 novembre, a iniziare dai cortometraggi che mi hanno letteralmente rapito.

Si è iniziato con il corto francese «On/Off» di Thierry Lorenzi: la vita di una coppia di astronauti su una stazione orbitale prende una brutta piega quando Meredith mostra chiari segni di squilibrio con allucinazioni, tormentata anche dalla lontananza dal figlioletto piccolo. Il finale è degno di Philip K. Dick, dove l’uomo e la macchina mostrano capacità di overdrive psicologico comuni. Alla fine… siamo poi così diversi?

«The trial» di Mark Player è la vicenda processuale del giovane e aitante Stephen che viene accusato ingiustamente di essere colpevole di una rapina a mano armata. Per evitare la detenzione preventiva, si sottopone all’interrogatorio di un agente encefalico, che lo analizzerà telepaticamente.

«Home – Hogar Hogar» di Carlos Alonso Ojea è la vicenda di una coppia di coniugi rifugiati in un bunker anti atomico, ridotti ormai allo stremo. Il rapporto fra marito e moglie ormai è quasi insostenibile, le scorte ormai esaurite. L’ uomo parte alla volta dell’esterno desolato, che ritrova comunque inspiegabilmente senza nessun segno di disastro atomico e infatti in un supermarket pieno di gente fa incetta di provviste )e sin qui l’ispirazione al romanzo «La penultima verità» di Philip Dick è abbastanza evidente). Alla fine, l’uomo finge che sia tutto andato distrutto, per tenere legata a se la moglie che ormai non lo ama più.

«The nostalgist» di Giacomo Cimini – che io ho votato come il migliore – narra le vicende al limite dello steampunk di un sopravvissuto a una guerra non meglio identificata, che vive in una realtà virtuale creata da un impianto occhi-orecchie che gli permette di vedere il mondo come preferisce. Con lui vive un ragazzino, che alla fine si scoprirà essere un robot militare.

«Ghost train» di Michela Orlandi è la vicenda a tinte orrorifiche di tre amichetti andati in visita in un lunapark abbandonato, dove la casa stregata risucchierà inspiegabilmente uno di loro.

«Een verre reis» di Kurt Platvoet è notevole: un giovane libraio progressivamente perde inspiegabilmente parti del suo corpo e la scienza ufficiale è assolutamente impotente dinanzi al fenomeno. Fortuna vuole che ci sia un’altra persona come lui. La verità viene piano piano a galla: sono mutanti e il loro corpo è esattamente uguali a quello di alcuni fiori che crescono solo a certe latitudini. Senza un filo di dialogo, semplicemente geniale.

«Kosmodrome» di Youcef Mahmoudi ci presenta uno scenario nella vecchia Guerra Fredda, dove lo sbarco sulla Luna è solo finzione e i figli di Rasputin, potentissimi telepati, sono reclutati a scopi bellici.

«Bendito machine V: pull the trigger» di Julie Reir è un favoloso film d’animazione tutto realizzato con sapienti silhoutte, dove l’atterraggio nella preistoria di una astronave aliena viene risucchiato dalle guerre umane per poi risolversi nel vecchio gioco “Space Invaders”. Abrasivo, iconico, ironico, dolce come l’arsenico e amabile come uno sventramento senza anestesia, sublime e divertente come solo la forza della risata vera sa essere.

Sublime anche «Coherence»: il passaggio di una cometa a poca distanza dalla Terra, crea una frattura spaziotemporale. Alcuni amici, riunitisi per una cena, dove i rapporti non sono proprio dei migliori, si ritrovano letteralmente a incontrare continuamente se stessi in paradossi che farebbero impallidire Schroedinger e il suo gatto. Alla fine l’unica via d’uscita è attraverso un altro paradosso, dove una delle donne cercherà di cambiare il suo destino. Ma alla fine, forse, la vera realtà oscura è proprio lei.

Chiude la serata il bellissimo film di Lorenzo Sportiello, «Index Zero», dove i temi dell’immigrazione e della sostenibilità sociale sono portati all’estremo dalla visione fantascientifica. Nel 2035 un uomo e la sua donna cercano di entrare illegalmente negli Stati Uniti d’Europa, per salvarsi dalla fame e per dare un futuro al loro bambino in arrivo. Purtroppo per loro, nel finto paese del Bengodi, a ogni cittadino è associato un “Indice di Sostenibilità” per il quale possono essere spese risorse e denaro. La donna incinta non rientra negli standard, infatti ormai da tempo i bambini vengono generati in maniera artificiale con un utero bionico. Vengono tradotti in un Centro di Accoglienza e trattati come bestie prima dell’inevitabile espulsione.

E’ stato bellissimo parlarne direttamente con il regista Lorenzo Sportiello, persona amabile. Arrossisce ai complimenti e si prodiga d’informare come sia felice dei positivi riscontri anche al Festival Cinematografico di Roma, dopo che l’opera l’ha tenuto impegnato per tre anni, con molte scene girate in Bulgaria. Ha superato felicemente anche l’abbandono dei produttori, troppo spaventati da una pellicola fortemente di denuncia, anche se Sportiello ammette di non aver avuto mire politiche.

Fatto sta che il suo film è un pugno nello stomaco, con un ritmo serrato anche se si concede parecchie inquadrature di desolazione che farebbero la gioia dell’Antonioni di «Deserto Rosso». La fotografia sporca e le scene di miseria e violenza sono ben rese fino a raggiungere livelli di claustrofobia intollerabili, il tutto poi viene regolato dalla vita nel centro di detenzione, dove si attende in tutti i modi di raggiungere lo zero nell’indice di sostenibilità. Come non ricordare a questo proposito il bellissimo film «Un maledetto mondo fatto di bambole» dove un giovane Oliver Reed lottava per avere un figlio naturale in un mondo dove vengono vietati i concepimenti e alle famiglie come surrogati si danno bambolotti? La fantascienza ancora una volta colpisce con violenza al cuore, alla pancia e alla mente.

L’indomani – dopo gli incontri di futurologia – ho potuto ascoltare ancora Lorenzo Sportiello che si intratteneva con il pubblico nella meravigliosa cornice del Caffè San Marco, insieme ai registi e sceneggiatori che si sarebbero potuti ammirare nella pomeridiana proiezione dello “Spazio Web”.

Ecco i The Vicious Brothers a parlare del presente passato futuro delle produzioni italiane. Hanno creato un film d’orrore classico soprattutto usando in modo espressivo il colore, per poi far perno sugli alieni. I loro film preferiti – dichirano – sono «La cosa» di Carpenter e «Alien» di Scott, film di sf ma con forti tinte horror; sono quelli che li hanno iniziati al genere.

Sul primo film si sono concentrati su fantasmi alieni, perché consentono maggiori elementi di esplorazione interiore.

I want to believe. I loro film sono un bell’omaggio alla serie «X-Files», la principale ispirazione per loro quando andavano alle scuole superiori: piaceva perché esplorava le tematiche aliene da un punto di vista serio e credibile. «The host» e «Tooms» gli episodi preferiti. A loro piace un tipo di fantascienza più quotidiano con risvolti fantastici, come «Primeval» dove il protagonista aveva una macchina del tempo molto realistica e plausibile, non amano invece la “space opera”. Prossimi progetti? Un film ambientato nel deserto, drammatico ma di sopravvivenza. Un secondo progetto è il terzo sequel del loro film. Infine un horror “puro”che dovrebbe costare sui 5 milioni di dollari.

Lorenzo Sportiello parla ancora del suo «Index Zero». La fantascienza sembra permettere una soluzione per rinnovare storie altrimenti stagnanti, trite e ritrite, anche usare dei canali differenti come le web series.

E’ difficile – spiega – fare oggi un film di sf che sia anche serio. Lui ha cercato di raccontare temi che sono usuali nella cinematografia europea come l’immigrazione usando una fantascienza realistica e cruda, mentre negli Usa avrebbero cavalcato di più la trama con soluzioni “popolari”.

Alcuni recensori non capivano i “silenzi narrativi”, ovvero perché il regista non avesse spiegato tutto. Una bella differenza che potrebbe essere davvero un marchio di fabbrica per una fs artistica invece che solo commerciale.

Le webseries sono un ottimo sistema per diffondere le serie di nuova concezione e testarne la forza, per proporle ai network televisivi, pur continuando a tenere d’occhio il web. Ottimo sistema per promuovere autori sconosciuti ma con ottime idee da realizzare.

«Zodiac» parla di una consulente onirica, che attraverso la tecnica dei sogni lucidi entra dentro di noi e ci libera dall’incubo. Il “pilota” è stato diffuso come web series.

«Blackout» è una serie fs di 8 episodi di 25 minuti: affronta temi come la pedofilia, la vendetta, l’aborto, il senso di colpa stimolando riflessioni. Un prodotto diverso, indipendente, forte.

Tutta produzione italiana. Quindi – contrariamente a quanto affermato da Enzo G. Castellari – le nuove sementi di una cinematografia italiana diversa stanno crescendo, con l’augurio che divenga una foresta rigogliosa per rilanciare non solo il genere ma tutto il cinema, con ottime possibilità lavorative. Il web diventa sempre di più un modo efficace e concreto per farsi conoscere attraverso un canale di amplissima diffusione, nonostante non propriamente condivisibile dalla massa come la tv. E rende possibile una rinascita della cinema italiano anche con questa spinta dal basso, grazie anche al basso budget richiesto dalla produzione.

Daniele Barbiero è il giovanissimo sceneggiatore e regista di «F*ck the zombies», di cui è stato girato solo l’episodio pilota. Ecco come il web permette una commistione di diversi tipi di linguaggi, freschi, veloci, anche se gli autori cercano di raggiungere livelli cinematografici. Realizzato con 2000 euro tirati fuori dalla tasca di Barbiero e amici, «F*ck the zombies» manca di una buona distribuzione online e quindi di una sicurezza che possa dare ai produttori la voglia di investire sulle web series.

Ci vuole una distribuzione capillare. L’autore deve dunque pensare alla produzione e non solo al lato artistico.

La mia ultima giornata al Science+Fiction Festival si conclude al fulmicotone, con oltre 180 minuti di corto e mediometraggi prodotti interamente per lo spazio web.

Le web series come una ghiotta occasione per tutti i cineasti nostrani di esprimere al massimo la propria creatività, mettendo a disposizione varie piattaforme di broadcasting, le quali permettono una condivisione piena e persino una possibilità di concreta di reperire fondi, grazie all’operazione di “crowdfounding” o “finanziamento collettivo”, un processo collaborativo di più persone che arrivano a dare il proprio denaro per sostenere opere ed organizzazioni.

Ancora una volta, l’alta qualità del girato l’ha fatta da padrone. Si è partiti con il pilota della web series «F*ck the zombies» (di Daniele Barbiero e Luca Nicolai) realizzata come accennavo prima con 2000 euro autofinanziati. L’ambizione e la creatività di questi ragazzi è tanta, mettendo insieme le forze di tutti gli amici e girando in un ambiente nemmeno tanto favorevole. Caustico, ironico, abrasivo, Daniele Barbiero ricorda come spesso la necessità di risolvere i problemi di location si siano tradotti persino in trovate assolutamente perfette per realizzare le riprese, come la lunga carrellata che vede i ragazzi rifugiarsi nell’androne. Di grande aiuto è stato lo Studio13, specializzato in trucco per il cinema e il teatro, dove le ragazze dell’ultimo anno di formazione si sono prestate gratuitamente a dare vita a zombies davvero realistici.

Si è passati poi all’affascinante personaggio di «Vera Bes» (di Francesco Mazza e Riccardo Milanesi) in cui la protagonista Vera Bes ha un potere speciale: è una consulente onirica, il suo lavoro è entrare nei sogni e liberare dagli incubi.

Incredibile è «Under – The series», dal romanzo di Gaia Gubellini, realizzata dalla mano sapiente di Ivan Silvestrini, già affermatosi con altre geniali web series. Il Paese è sopravvissuto alla crisi del 2008, ma ora è in mano a una unità provvisoria militarizzata. Tale Autorità sta realizzando un reality show dove spettacolarizzano l’esecuzione dei soggetti ritenuti antisociali.

C’è anche la splendida «Blackout – the series», nettamente ispirata alla serie televisiva «Lost», dove alcune persone che si sono perdute vagano alla ricerca di se stessi nelle cinque terre liguri.

«Sidera» di Lorenzo Bianchini è incentrata invece su un manicomio, dove nessuno è quello che sembra: la città di Palmanova è parte integrante di un piano molto ambizioso.

La chicca della giornata è un fanfilm sorprendente, con protagonista Dylan Dog, il celebre indagatore dell’incubo, realizzato da Claudio di Biagio e ambientato a Roma. Le leggende di Castel Sant’angelo fanno da sfondo alle peripezie di Dylan Dog sempre accompagnato dal buon Groucho. Altro che il pessimo film statunitense, il quale niente aveva a che vedere con il celebre detective creato da Tiziano Sclavi. Il film prende le mosse dall’incubo ricorrente di una ragazza, perseguitata dalla visione di una donna senza testa sullo sfondo di Castel Sant’angelo, costringendo il fascinoso Dylan a un lavoro di ricostruzione e indagine certosino, per arrivare a un finale inatteso, stemperato solo un po’ dal colpo di coda conclusivo che dona allegria ai fan di vecchia e nuova data. Un gioiello inaspettato: anche in questo caso i fondi sono stati reperiti completamente con la pratica del “crowdfounding”, ovvero del reperimento di risorse grazie ai social network.

Conclude la carrellata il fumetto animato in rotoscoping di «Orfani», dal fumetto bonelliano di Roberto Recchioni ed Enzo Mammuccari, realizzato grazie al contributo di Armando Traverso, da una precedente produzione radiofonica.

La fantascienza sembra rinascere alla grande e il web offre alle giovani menti creative italiane una concreta occasione di riscatto.

Il festival si conclude alla grande: qualità e dell’ottima organizzazione, operatori e volontari che si sono spesi al massimo per far funzionare tutto il complesso ingranaggio che nulla ha da invidiare ad altri “gemelli” a livello europeo. Fa ben sperare, vista la partecipazione. Cultura, letteratura, filosofia, musica e cinema in fantascienza.

E i premi? Eccoli qua.

Il premio Asteroide è stato alla fine assegnato a «Time Lapse» di Bradley King, un giusto riconoscimento da parte della giuria presieduta da Enzo G. Castellari e che annovera tra le file il direttore artistico dell’European Fantastic Film Festival di Strasburgo e Tomaz Horvat, produttore e fondatore del Grossmann Film Festival.

La motivazione del premio è stata: «Nella tradizione di questo festival, la giuria ha scelto di premiare un vero e proprio film di fantascienza con una trama molto importante. La sceneggiatura è forte, intelligente e ricca di suspense, e il film è un ottimo esempio di cosa si riesca a fare con un piccolo budget, pochi mezzi ma un’intelligente sceneggiatura nelle mani di un buon regista».

Menzione speciale a «Honeymoon» della talentuosa debuttante Leigh Janiak, finalmente una voce femminile in un panorama anche troppo maschile, «per il suo originale mix di fantascienza e horror. La giuria è rimasta molto colpita dalla qualità artistica di questo film, opera prima di una giovanissima regista». Io l’ho adorato per il ritmo e per la sapiente gestione del fantastico fino allo scioglimento finale, che avrebbe fatto la gioia di Lovecraft e di King. Questo film si è pure aggiudicato il Premio Nocturno Nuove Visioni, menzione non da poco, da parte della rivista più quotata in Italia dagli appassionati del cinema di genere.

Sono felicissimo che Lorenzo Sportiello si sia aggiudicato il Premio Melies d’Argent per il miglior lungometraggio fantastico europeo per «Index Zero» con la seguente motivazione: «La giuria sceglie di attribuire il Melies d’argento 2014 a un’opera prima a basso costo che intercetta, proiettandolo in un futuro molto prossimo, uno scenario economico e sociale che appartiene alla contemporaneità. Si segnala inoltre la scelta in controtendenza rispetto agli altri pur pregevoli titoli della sezione destinati a una sicura visibilità, di recuperare tempi narrativi dilatati in aperto contrasto con la frenetica contrazione dei ritmi imposta dal consumo e dal mercato». Motivazione che mi trova completamente concorde: bravo Lorenzo!

Nella sezione European Fantastic Short, altra assegnazione che mi sento di condividere (visto che lo avevo votato) è il Melies d’argento per il miglior cortometraggio fantastico europeo assegnato dal pubblico a «The nostalgist» di Giacomo Cimini, altra affermazione italiana in un ambito apparentemente dominato dall’anglosassone.

Il Premio del Pubblico 2014 è andato a maggioranza a «Earth to echo» di Dave Green, mentre il nuovissimo Premio Wonderland (che prende il nome dal magazine in onda su RAI4 dedicato all’immaginario fantascientifico, trasmissione in forte partnership con il Festival) è stato meritatamente assegnato al film «Coherence» dello ststunitense James Ward Byrkit con la seguente motivazione: «Un film di fantascienza adulta che unisce, sullo sfondo del passaggio di una cometa, un’ispirazione bergmaniana con l’ultima frontiera delle leggi della fisica, aprendo una finestra sul mondo della meccanica quantistica. L’autore, alla sua opera prima, riesce – anche grazie ad un gruppo di straordinari attori – nella difficile impresa di fondere la novità di una tematica alta e un risultato pienamente godibile e avvincente».

Dopo i saluti del sindaco Renato Cosolini, la chicca finale ovvero il Melies d’Or, solitamente assegnato ai Sitges in Spagna, verrà assegnato il prossimo anno proprio al Science+Fiction di Trieste – che ha registrato più di 20000 presenze e il tutto esaurito – consacrando il capoluogo friulano come capitale della fantascienza europea.

Dal canto mio, ho lasciato il cuore in questa esperienza. Un piccolo premio, dato con il cuore – lo chiamerò Premio Astrofilosofo – lo assegno a «2030» del regista vietnamita Nghiem-Minh Nguyen-Vo, per il sapiente uso del linguaggio filmico, tale da dare la sensazione di un film neorealista, quasi un documentario, sul destino che spetterà alla Terra fra non molto tempo, per il sapiente uso delle inquadrature di coinvolgente e particolare bellezza e per aver saputo gestire una trama non facile, che ricorda da vicino alcuni dei capolavori di Hayao Miyazaki. Assegno tale premio anche per il sapiente e plausibilissimo uso della fantascienza nell’estrapolare una possibile conseguenza del riscaldamento globale e di come le persone saranno costrette a vivere, soprattutto quelle meno abbienti in un mondo sempre più diviso in classi, dove il problema cibo sarà all’ordine del giorno. Assolutamente onirico e degno di nota il finale, sospeso fra la carrellata del mondo sommerso, dove i libri vengono ormai letti dai pesci, e il deserto dove l’umanità può forse tentare di ricostruire qualcosa. Fantascienza e poesia filmica si scoprono uniti come mai; forse come sarebbe piaciuto al maestro Jodorowsky, il quale ha sempre tentato di fare film artistici, ben oltre i limiti commerciabili.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *