Trump: le mani del tycoon razzista sull’America latina

di David Lifodi

 

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La vittoria di Trump è stata festeggiata al Planalto e alla Casa Rosada: Michel Temer e Mauricio Macri hanno molti punti in comune con il nuovo presidente degli Stati Uniti, a partire dall’ossessione per la sicurezza e da un ostentato razzismo, ma il successo dell’uomo bianco in realtà fa paura anche all’interno di buona parte delle destre presidenziali latinoamericane che, non a caso, si auguravano una vittoria di Hillary Clinton. Se questo la dice lunga sulla pochezza e, al tempo stesso, sull’evidente similitudine tra un fascista dichiarato e una golpista non pentita, è interessante vedere come l’affermazione di Donald Trump faccia tremare Los Pinos quanto, se non di più, di Miraflores.

Certo, la difficile situazione venezuelana, già critica sotto l’amministrazione Obama, con Trump rischia di deflagrare, ma a tremare, oltre alle organizzazioni centroamericane impegnate a difendere i diritti dei migranti che cercano di raggiungere gli Stati Uniti, sono presidenti come il messicano Peña Nieto e il peruviano Pedro Pablo Kuczynski. Il primo già si prefigura di dover pagare le spese per la costruzione di quel muro che dovrebbe impedire ai migranti centroamericani e latinoamericani di raggiungere gli Usa e teme l’annullamento del Nafta, il trattato di libero commercio che riunisce Stati Uniti, Canada e, appunto, il Messico, che vi era entrato nel 1994 grazie a Carlos Salinas de Gortari e da cui era scaturita l’insurrezione zapatista. L’attitudine isolazionista di Trump, se confermata, fa tremare anche Kuczynski per il paventato disimpegno statunitense nell’ambito dell’Apec, il Forum di cooperazione economica Asia-Pacifico. Quanto alla Colombia, ad esultare è solo la destra uribista, che prima è riuscita a far fallire il referendum sugli accordi di pace e ora, forte dell’appoggio del tycoon Usa, ha già imposto un nuovo accordo di pace che tiene conto delle istanze del fronte del No ed è stato accettato a denti stretti dai guerriglieri delle Farc soltanto per un forte senso di responsabilità, allo scopo di evitare pericolosissimi passi indietro, ma di certo non si tratta di un avanzamento nelle relazioni tra lo stato e la più longeva organizzazione armata dell’America latina. Tuttavia, anche tra gli uomini più vicini al presidente golpista brasiliano Temer, il successo di Trump è stato accolto con un certo timore. Perfino il ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, signore dell’agrobusiness e nemico giurato dei Sem Terra, sostiene che il protezionismo di Trump potrebbe causare non pochi problemi all’economia brasiliana. Altrettanto preoccupato il ministro di Industria e commercio estero Marcos Pereira che teme ripercussioni sul prezzo delle commodities  e, di conseguenza, sull’economia brasiliana, a causa della vittoria di Trump. Non a caso, gli alfieri del neoliberismo in America latina sono fortemente preoccupati da una probabile rinegoziazione di quei trattati di libero commercio ai quali avevano tanto aspirato all’epoca della coppia Obama-Clinton.

In definitiva, il nuovo presidente statunitense può contare, in America latina, sul sostegno dell’estrema destra che si identifica nel suo discorso isolazionista, razzista e intollerante, ma non sui discepoli del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, convinti che la presidenza Clinton sarebbe stata assai più funzionale ai loro interessi.  Del resto, come ha scritto Raúl Zibechi, non solo sotto Obama è cresciuto il divario tra ricchi e poveri e quello tra latinos e bianchi negli Stati Uniti, ma è stato grazie a lui e alla stessa Clinton che in America latina, nel giro di sette anni, sono stati orchestrati tre colpi di stato andati a segno (Honduras, Paraguay e Brasile) ed un altro, strisciante e assai probabile, potrebbe verificarsi in Venezuela, dichiarato nemico pubblico dall’amministrazione dell’ex presidente Usa.

Un’altra chiave di lettura assai particolare, a proposito dei futuri rapporti tra gli Stati Uniti di Trump e l’America latina, viene dal voto determinante degli evangelici a favore del miliardario presidente Usa. Non si può far finta di non vedere l’inquietante paragone con il Brasile, dove il colpo di stato e, in precedenza, l’opposizione a Dilma Rousseff,  ha avuto tra le sue roccaforti proprio le enclaves protestanti, dove predicatori-deputati ogni giorno hanno lanciato sermoni di fuoco contro la presidenta e, più in generale, fatto da cassa di risonanza alla destra autoritaria e ai suoi cavalli di battaglia, da quello anti-immigrati alle dichiarazioni contro gli omosessuali, passando per insulti e minacce nei confronti delle associazioni impegnate per la difesa dei diritti umani. Trump è molto simile a tutti quei presidenti che, tra gli anni Sessanta e la fine dei Novanta, hanno governato in America latina all’insegna della mano dura.

Probabilmente la presidenza Trump creerà numerosi grattacapi all’America latina, ma in attesa di vedere le prime mosse del tycoon (a proposito, che ne sarà anche dell’avviato, per quanto contraddittorio, disgelo con Cuba?) c’è da consolarsi pensando che la situazione non sarebbe stata migliore nel caso in cui alla Casa Bianca fosse arrivata la Clinton. In entrambi i casi l’America latina sapeva che avrebbe dovuto guardarsi da questi due personaggi. Per il resto, gli obiettivi non cambiano: l’unità del campo bolivariano e del fronte progressista deve cercare di tener duro in Venezuela, resistere alla coppia Temer-Macri e ai golpisti di Honduras e Paraguay, oltre a sperare di strappare un accordo di pace dignitoso in Colombia. In ogni caso, niente di nuovo sotto il sole. Purtroppo.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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