Tuhao, ovverossia “cafoni”

Di Mauro Antonio Miglieruolo

Cecilia Attanasio Ghezzi sul Fatto Quotidiano di Mercoledì 18 dicembre presenta un pezzo interessante sul crescente atteggiamento di ostilità che in Cina divide i ceti meno abbienti dai nuovi ricchi. L’autrice non lo esplicita, ma si tratta di un fenomeno che caratterizza le società quando hanno sostanzialmente concluso il loro ciclo vitale e si avviano alla senescenza: la perdita di prestigio delle classi dominanti muta in beffa, in perdita di dispetto e persino in aperto disprezzo.

Povero Mao, cosa gli tocca sopportare!

Povero Mao, cosa gli tocca sopportare!

Sembra diventato di moda in quel grande paese, con una storia ancora più grande, definire i nuovi ricchi prodotti dal capitalismo con il termine spregiativo “tuhao”, in disuso da quasi un secolo e tornato di moda; un termine che può essere tradotto approssimativamente con il nostro “cafone”. L’autrice accenna per giustificare questo termine agli eccessi consumistici e alle ostentazioni di ricchezza di questi arricchiti all’ombra della dittatura burocratica, atteggiamenti che in verità sono propri a ogni luogo e paese. Occorre essere classe dominante da più secoli per non avere più bisogno di gridarlo, attraverso varie espressioni di cattivo gusto, all’intero orbe terracqueo.

Quel che comunque è interessante mettere in evidenza dell’articolo è la giustificazione con la quale l’autrice cerca di spiegare la presunta infelicità di questi che non sono altro che poveri pieni di soldi (dico presunta non per contraddire Ghezzi, la cui opinione anzi condivido, ma perché costituisce un’affermazione non sostenuta da ricerche specifiche e nemmeno di un ragionamento: è data e basta. La ritengo vera, ma non mi basta). Afferma l’articolista: “Ma i Tuhao sono infelici. Inconsciamente sanno che quella ricchezza ottenuta improvvisamente e senza sforzo, può scomparire da un momento all’altro.”

01geen--gold-carNon condivido tale opinione. Più ragionevole mi sembra la motivazione che può essere tratta dalla storiella che (Ghezzi racconta) circola in Cina in questo periodo. Una storiella in cui un giovane confessa a un Maestro di essere ricco e infelice. La storiella termina con il Maestro che gli tende la mano. Ma non per significare qualcosa di profondo. Soltanto per manifestare la sua interessata volontà di essergli amico.

L’infelicità di questi “cafoni” dal portafogli gonfio è dunque d’ordine spirituale (lo stesso ordine al quale deve essere iscritta l’infelicità), non psicologico. I ricchi sono gli ultimi che possono temere del domani, difesi come sono dalle mura medioevali dei loro soldi. Possono certo essere contaminati dalla paura in circolazione, ma questa, essendo un riflesso, non può turbarli più di tanto.

A meno ché tale infelicità sia determinata da ragioni sottilmente differenti “dalla precarietà dei tempi moderni”. Sia, cioè, determinata dal timore di perdere la ricchezza tutta d’un colpo. Non a causa di fallimenti personali o contrasti con il regime dittatoriale, pericoli questi sempre presenti e comunque anche questi per loro meno pregnanti che per il resto della popolazione; ma per ragioni in un certo senso opposte. Per, cioè, la possibile fine del regime dittatoriale a causa di una rivoluzione che, travolgendo il “partito comunista” travolgerebbe anche loro.

01genn--31015_52234980Prodromi di un qualcosa di là da venire, che quando verrà sarà sempre troppo tardi. Sperando che non si risolva, ancora una volta, come è stato pure in Russia, nella fondazione di una classe di “cafoni”, ma d’uguali.

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