Turandot? No, Khutulun

di Chief Joseph (*)

Il 25 aprile 1926 alla Scala di Milano c’è la prima di «Turandot», un’opera in 3 atti e 5 quadri, su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, lasciata incompiuta da Giacomo Puccini e completata da Franco Alfano

Mi chiamo Khutulun che significa “luce lunare”. Sono una discendente di Gengis Khan e godo fama di essere una grande guerriera. In Europa, mi conoscono come Turandokht, “figlia dell’Asia Minore”, un appellativo che non mi rappresenta perché io sono orgogliosamente figlia della Mongolia. Dopo essere passata nelle mani di scrittori, filosofi, esploratori e musicisti, sono diventata Turandot. Non mi piace il nome occidentale che mi è stato affibbiato da un storico francese, tal François Petit de la Croix, perché puzza di colonialismo ed esplicita il tentativo di una generalizzazione culturale, cosa nella quale i francesi sono sempre stati molto abili nutrendosi spocchiosamente della loro “grandeur”. Non mi piace, soprattutto, la sua supponenza e superficialità nel rappresentarmi come una sadica assassina, “mangiatrice” di uomini. Addirittura, in un suo libro di fiabe, racconta che io imponevo ai miei spasimanti la soluzione di tre indovinelli e, se non ci riuscivano, li uccidevo.

Nella realtà sono la figlia di Khan Kaidu e ho 14 fratelli, ma so di essere la preferita di mio padre che in me vede forza, coraggio, abnegazione e lealtà, doti che non sempre albergano nella sua prole maschile. Mio padre è il faro per me e, fin da piccola, ho cercato di dimostragli di essere degna del suo amore. Quando sono diventata grande, pochi resistevano al fascino della mia bellezza statuaria e ho avuto molti pretendenti ma nessuno era paragonabile a mio padre. Tuttavia, decidevo lo stesso di metterli alla prova: chiedevo loro di scommettere cento cavalli e li sfidavo in un incontro di lotta libera. Se mi avessero battuta potevano sposarmi. Risultato: sono diventata padrona di una mandria di oltre diecimila cavalli.

Purtroppo, l’uomo riesce a odiare molto facilmente ma è terrorizzato dall’amore e, quando lo vede materializzarsi in modo inequivocabile, cerca di negarlo e, se non gli riesce, lo storpia e lo sporca. Per questo l’affetto reciproco fra me e mio padre viene bollato come un rapporto incestuoso. Gli stolti non riescono a comprendere che l’amore non è un incastro di genitali, ma il tentativo di dare una forma definita alla nostra incompiutezza attraverso la capacità di scoprire nuovi orizzonti. Io amo mio padre perché in lui trovo un cuore vero che ha battiti irregolari e soste imprevedibili. Purtroppo, fra i miei pretendenti ho trovato solo organi trapiantati, plastificati, monocordi.

Poi, finalmente, conosco un guerriero, non a caso un fedelissimo di mio padre, con un corpo imponente, duro, quadrato, che nasconde un animo delicato, con mille sfaccettature. Decido di sposarlo senza sottoporlo alla canonica sfida di lotta libera. Non è il grande amore che avevo sognato ma è una persona di cui ci si può fidare e, di conseguenza, affezionarsi. Mio padre voleva che diventassi l’erede al trono perché, oltre a conoscere le mie abilità come cavallerizza e arciera, avendomi avuta al suo fianco in battaglia, era anche consapevole delle mie capacità strategiche e politiche. Naturalmente, questa ipotesi scatena la reazione di molti miei fratelli e non se ne fa nulla. Così, una delle più importanti tribù della Mongolia non riuscì a pianificare il suo futuro, correndo il rischio di una futura guerra fratricida, che avvenne puntualmente quando Khan Kaidu morì.

Sento il vuoto causato dall’assenza di mio padre ma non posso esimermi dal combattere perché chi si è insediato al suo posto non smentisce l’universale detto per il quale il potere è l’immondizia della storia degli umani. Il mio obiettivo non è conquistare il trono che fu di mio padre ma difendere la sua tomba: sono costretta a lottare anche contro i miei fratelli perché, non essendo in grado di reggerne il confronto, cercano di cancellare la memoria di chi li ha procreati. Adesso, nei giorni che precedono la mia morte in combattimento, avviene l’unica cosa vera che il mondo occidentale ha raccontato su di me. Infatti, siamo in pochi e per sperare di reggere l’urto degli usurpatori, molto più numerosi, non possiamo permetterci di fare turni di guardia e, quindi, per giorni e giorni, mi aggiro fra i miei compagni gridando: «Nessun dorma! Nessun dorma!».

(*) Chief Joseph – o se preferite Capo Giuseppe – è stato una guida (militare e spirituale) dei Nasi Forati, popolo nativo americano. Si chiamava in realtà Hinmaton Yalaktit, che in lingua niimiipuutímt significa Tuono che rotola dalla montagna. Da tempo riceviamo molti contributi alla “bottega” firmati Chief Joseph. A volte sono “scordate” come questa; più spesso fotomontaggi per dialoghi (senza speranza?) a commentare una notizia o un breve testo che abbiamo deciso di mettere in “bottega” ogni mercoledì mattina. [db]

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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