Turchia, il carbone distrugge storia e bellezze naturali

Il presidente turco Erdogan pur di perseguire un’autarchica indipendenza energetica punta ancora sul carbone. Intanto, gli abitanti che vivono intorno agli impianti continuano ad ammalarsi

di Luca Manes e Dino Buonaiuto (*)

                                       Foto di Dino Buonaiuto

Un tipico laghetto alpino, con acque di un azzurro brillante e una minuscola isola alberata al suo interno. Così ci appare dall’alto di un promontorio un invaso che nessuna mappa segnala, qui nella regione di Mugla, a una decina di chilometri dalla cittadina di Turgut e una novantina dalla turistica località di mare di Bodrum. Le mappe della Turchia occidentale lo ignorano perché del lago alpino ha solo la parvenza, ma in realtà è un enorme accumulo di acque di scarto della centrale a carbone di Yatağan. Che qualcosa non quadri lo si nota portando lo sguardo verso la linea dell’orizzonte, lì dove il lago lascia spazio a una piatta distesa di fango dal colore indefinito, segnata da alcuni lunghi solchi bianchi. Anche in questo caso sono rifiuti, o meglio polvere di carbone accumulata negli anni, mentre i solchi bianchi sono con molta probabilità rivoli di sostanze chimiche non ben identificate. Scendendo a valle si ha la conferma di questo scenario da incubo, perché a poche centinaia di metri passa la linea di trasmissione della polvere nera che dall’immensa miniera a cielo aperto adiacente porta il suo carico all’impianto.

“Nel lago ci sono sostanze pericolose, probabilmente cadmio, mercurio e arsenico”, spiega Gulseven Tasci, abitante di Turgut e nostro Virgilio in questa discesa agli inferi. L’Ong Climate Action Network ha provato a far eseguire le analisi in tre laboratori pubblici autorizzati, ma tutti si sono rifiutati di procedere. Eppure tra il lago e la distesa di fanghi vivono una famiglia di pastori e un gregge di una sessantina di pecore. “Noi stiamo tutti bene, non abbiamo paura di abitare qui”, ci dice Mehmet (nome di fantasia), ex dipendente di un’impresa mineraria, il quale dopo un po’ tuttavia deve ammettere che i suoi capi di bestiame hanno di continuo aborti spontanei.

E se il pastore gode di perfetta salute, lo stesso non si può dire del resto della popolazione dell’area. “Io ho la bronchite cronica e un tumore, come tante persone che conosco”, racconta con piglio combattivo Tayyibe Demirel, candidata a muktar, quindi a diventare capo della comunità di Turgut. Tayyibe è tra le persone più attive a portare avanti la protesta contro la centrale, ufficialmente operativa dal lontano 1982, il più longevo impianto dell’area di Mugla. Sin dagli anni ‘80, gli abitanti dei villaggi circostanti hanno portato avanti azioni di protesta o battaglie legali per fronteggiare l’apertura dell’impianto; l’acme lo si raggiunse agli inizi degli anni ‘90, quando gli abitanti di Yatagan organizzarono una marcia contro l’impianto che coinvolse più di 7mila persone. Nello stesso periodo, a Mugla, si costituì un gruppo di oppositori dall’eloquente nome di “Mamme che amano i loro figli”, donne che annunciavano, agguerrite, di non mettere al mondo più figli fino alla chiusura dell’impianto. Nel tempo però l’opposizione è stata fiaccata dall’intransigenza del governo e delle compagnie minerarie. Tanti giovani se ne sono andati, chi è rimasto non ha più l’età per rifarsi un’esistenza altrove. Così nel villaggio di Turgut in una decina di anni la popolazione è passata da cinquemila e duemila unità.

D’altronde come si fa a vivere a due passi dal “mostro”, il quale con le sue tre torri e i 30 camini di raffreddamento vomita in aria una gigantesca nuvola di fumo che si scorge da una decina di chilometri di distanza. Un impianto vecchio, il cui ammodernamento inizialmente aveva ricevuto una deroga fino alla fine del 2021 (esenzione a sorpresa bloccata dal Parlamento turco lo scorso 14 febbraio, grazie a una battaglia legale portata avanti da Greenpeace Turchia). In verità Ankara aveva annunciato la tracotante volontà di determinare un’autarchica “indipendenza energetica”, in linea con le mire nazionalistiche di tanti altri paesi in giro per il mondo. Il 2012 fu annunciato addirittura come “l’anno del carbone”, col fine preciso di sventrare quanto più suolo possibile e tirar fuori la “lignite nazionale”, il nero fossile che in verità presenta caratteristiche scadenti, in quanto a potere calorifico e a “purezza”. E che l’intenzione sia sfruttarlo fin che si può è dimostrata dal continuo ampliamento della miniera. Per avere contezza delle sue dimensioni ci avventuriamo su una strada segnata da profonde cicatrici che evocano le immagini di devastanti terremoti e che improvvisamente termina nel nulla: sotto c’è un abisso di terra e carbone profondo centinaia di metri. Alla destra del cratere titanico rispetto alla nostra posizione si scorgono i resti di Yesilbagcilar, rilocato a tre-quattro chilometri dalla centrale, stessa sorte toccata a una ventina di villaggi della zona. Per avere un’idea, l’intera area, comprendente la miniera già esistente e la sua possibile espansione, ricopre una superficie superiore ai 21mila ettari, pari a circa 33mila campi di calcio. “Dove siamo adesso sparirà, perché stanno continuando a scavare, tanto che si vocifera che dovranno reinsediare di nuovo anche Yesilbagcilar”, denuncia Tayyibe mentre ci dirigiamo verso gli ulivi che ancora resistono ai margini della strada mozzata. Tra i rami si scorge una ventina di operai impegnati a fare delle prospezioni. “Hanno trovato tombe antiche e monili, ma chissà che fine faranno, qui distruggeranno tutto…”.

Sull’altare del carbone, infatti, oltre alla natura e agli esseri umani si sta sacrificando anche la storia. Ci troviamo nell’antica regione anatolica della Caria, che visse i suoi fasti tra l’undicesimo e il sesto secolo avanti Cristo, ma i cui primi insediamenti si perdono nella notte dei tempi. Nel raggio di una ventina di chilometri dalla centrale ci sono siti archeologici di rara bellezza ed estensione, che farebbero la fortuna di qualsiasi soprintendenza e ufficio del turismo. Ma che invece sembrano abbandonati. A Lagina c’è un minuscolo baracchino che vende pubblicazioni in turco e in inglese, ma nessuna che racconti la storia di questo luogo. Eppure ci sarebbe tanto da narrare, a partire dai resti del tempio, datato secondo secolo avanti Cristo, dedicato a Ecate, la dea degli inferi. Se l’oltretomba pagano nei tempi antichi era un luogo esoterico di cui avere timore, in tempi moderni l’avanzare della miniera parrebbe quasi voler sfidare l’atavica credenza, riportando alla luce quegli stessi inferi, in un’inconsapevole e beffarda contiguità temporale. “Stiamo cercando di ottenere la tutela dell’Unesco, questo sito fu scoperto dal più grande archeologo turco, Osman Hamdi Bey”, ci illustra la signora Gulseven, che salutiamo proprio davanti alla casa-museo del grande studioso al centro di Turgut.

Quello di Yatağan non è il solo impianto dell’area. Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta sono state realizzate le centrali di Yeniköy e Kemerkoy, alimentate da un’altra miniera a cielo aperto. Sorseggiando l’immancabile chai in quel luogo dove il tempo sembra sia fermo da decenni che è la caffetteria di Karacahisar, discorriamo con il muhtar Sefik Musluk e una decina di anziani. L’accoglienza è a dir poco calorosa e ospitale, specialmente quando capiscono che siamo venuti per raccontare quanto sta accadendo nell’area. Non ci sono dati ufficiali, ci dicono, ma in tanti sono malati di tumori e malattie respiratorie. C’è voglia di opporsi una volta per tutte a questo scempio ambientale e sanitario e fermare l’espansione della miniera, ma anche la paura che a un certo punto il governo centrale possa mandare l’esercito per fare piazza pulita delle proteste. Anche qui, come a Turgut o a Yesilbagcilar, i giovani sono scappati via e una ventina di paesini sono stati dati in pasto al “mostro”, finendo per sparire o essere rilocati. Anche qui c’è una montagna di cenere di carbone e la puzza è pestilenziale, ti brucia la gola e fai veramente fatica a respirare. E si trovano ovunque resti di templi e di anfiteatri che ci lasciano a bocca aperta. L’unica differenza è che il mare dista una manciata di chilometri e nella località di Oren si scaricano le acque reflue della centrale di Kemerkoy dritto nel Mediterraneo. “A Oren di turisti stranieri non ce ne sono, solo turchi, qui vorrebbero espandere il porto per far arrivare carbone da fuori, ma la popolazione locale non vuole”, chiarisce Sefik.

Incredibile a dirsi, se ormai in tanti abbandonano l’area, una decina di anni fa c’erano anche persone che arrivavano da fuori per godersi il loro buen ritiro. A Sucikan, un’area non molto distante dall’impianto, da dove i camini non si vedono ma si “percepiscono”, vive in totale solitudine Haluk Akbatur, un oftalmologo di Ankara con la passione della viticoltura. Haluk riesce a produrre ancora un po’ di vino, ma tra mille difficoltà. Colpa delle piogge acide dovute alle emissioni degli impianti. Che la situazione stia peggiorando sempre di più lo ribadisce un altro residente. “I fichi e i pomodori sono marci, di olio se ne ottiene pochissimo, pensa che quando ero bambino con 150 alberi si facevano 800 chili di olive, ora che di alberi ne ho 400 a stento arriviamo a 130 chili”. Il tipo di olive, il Memecik, è inoltre di qualità molto alta. “Ma in queste terre si coltivava anche tabacco, una produzione che è stata fatta morire, tagliando sussidi e aiuti, per far sì che i proprietari terrieri vendessero le terre per far spazio alla miniera”, ci confermano Haluk e il suo vicino, mentre veniamo raggiunti da Sibel Bileke, anche lei trasferitasi qui perché colpita dalla bellezza dei luoghi, di queste verdi montagne e colline a due passi dal mare che ricordano tanto il Cilento. “Non sapevo quanti e quali fossero gli impatti del carbone in questa zona, altrimenti non mi sarei mai trasferita”, ci spiega Sibel in un perfetto italiano, perché negli anni Ottanta ha giocato a pallavolo a Pescara, in A2 – “mi volevano tutti bene, mi chiamavano la figlia turca” – e successivamente ha lavorato a lungo per Benetton e Chicco.

La definitiva condanna a morte dell’area sarebbe arrivata da una controversa proposta di legge presentata nel 2014, un anno cruciale in cui gli impianti a carbone della Turchia sono passati in mani non più pubbliche. La proposta avrebbe permesso alle società private di costruire impianti energetici e militari soppiantando uliveti centenari, unica fonte di sostentamento per gli agricoltori della Turchia occidentale; la legge avrebbe tra l’altro apportato una modifica non di poco conto sulla “definizione di uliveto”, da considerare soltanto per quelli di dimensione superiore ai 2,5 ettari (in Turchia la media di un uliveto si attesterebbe intorno a 0,1 ettari). Non si fece attendere la risposta delle comunità locali, che misero su una petizione raccogliendo circa 22mila firme, e inviando una lettera alla Camera di commercio locale. L’opposizione in qualche modo ha sortito i suoi effetti: “a quanto pare non si aspettavano una tale reazione, e così la legge è stata messa da parte,” continua Haluk, “ma potrebbe essere una situazione temporanea. Girano voci sulle sorti di queste terre e la prospettiva è abbastanza unanime: in dieci o vent’anni qui verrà espropriato tutto”.

Ora l’impianto di Yatagan è nelle mani della Bereket Enerji I.C., mentre quelli di Yenikoy e Kemerkoy sono di competenza del consorzio IC Ictas-Limak. Imprese private subentrate alla società pubblica EUAS, che è ancora la principale società produttrice di energia nel paese, soprattutto attraverso gli impianti idroelettrici e di gas naturale. In seguito alle privatizzazioni, però, negli ultimi sei anni la sua produzione è calata del 50 per cento. A fare la differenza nel sistema-Turchia rimangono le numerose garanzie del governo a favore delle società private; in particolare, attraverso la EUAS è possibile tenere i prezzi dell’energia elettrica alquanto bassi, non riflettendo così i costi reali. Una dinamica che rende complessa la sopravvivenza delle energie alternative come il solare o l’eolico, nel mercato energetico turco.

Ciliegina sulla torta: diversi ritengono che gli impianti decotti venduti da EUAS nel 2014 siano stati pagati eccessivamente dalle società acquirenti, anche perché il governo ha concesso loro una deroga di cinque anni sul rispetto di standard ambientali che implicherebbe un significativo e costoso retrofit con l’applicazione di filtri e altri interventi tecnologici. Secondo Greenpeace Turchia, gli impianti di Yenikoy e Kamarkoy avrebbero sì alcuni dei filtri installati, ma sono spesso “staccati” perché l’attivazione pregiudicherebbe l’efficienza produttiva degli impianti. Recentemente, su richiesta del governo, il Parlamento turco ha votato l’estensione della deroga ambientale per altri due anni, un regalo non da poco alle società del carbone che versano in brutte acque. Così quello che si vociferava come un intervento sugli impianti di Yenikoy e Kemerkoy previsto ad inizio 2019, utilizzando tecnologia di General Electric, sembra che sia stato rimandato e gli impianti continuano a funzionare a piena potenza ed emissioni.

Inoltre, nonostante gli importanti sussidi come i prezzi fissi garantiti, la capacità disponibile e l’esenzione dalla tassazione e dalla regolamentazione ambientale, gli attori privati scesi in campo sulla disputa del carbone turco stanno affrontando seri rischi finanziari, non riuscendo a ripagare i debiti contratti in valuta straniera.

Il credito totale fornito in prestiti e coperture alle società private ammonta a 9,2 miliardi di dollari, in un periodo che va dal 2013 al 2018; i principali creditori sono le banche turche, ma non mancano i creditori stranieri (e le sorprese): a piazzarsi immediatamente dopo gli istituti locali è l’italianissima Unicredit, con un prestito che si aggira intorno ai 184 milioni di dollari concesso nel 2014 alla società Limak proprio per l’acquisizione degli impianti di Yenikoy e Kemerkoy da EUAS. Il principale creditore fuori dalla Turchia, con una quota di credito pari al 2,0 per cento.

Ne viene fuori in sintesi un classico esempio dei “due pesi e due misure all’italiana”: se da un lato il nostro paese si è solennemente impegnato ad abbandonare il carbone entro il 2025, secondo la nuova strategia energetica nazionale approvata nel 2017, dall’altro una banca italiana non pare si stia facendo grossi scrupoli a finanziare le medesime fonti al di là dei confini nazionali. Nemo creditore in patria, (per dirla coi vangeli), e meglio magari in un paese in cui, tra le altre cose, la situazione politica degli ultimi anni – e quella finanziaria degli ultimi mesi – sta fortemente scoraggiando qualsiasi forma di investimento a lungo termine, mentre pare stia diventando terreno fertile per ogni speculazione di sorta.

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