Pabuda doppio oggi

TUTTI e NOI BUCHIAMO

in ospedale siamo tutti vecchi,

sordi, impreparati, all’erta:   per il turno, la visita, l’iniezione,

i raggi ics, la pipì, la colazione.

in ospedale tutti siamo tutti,

di nuovo, bambini impazienti.

siamo tutti pazienti esperti e preoccupati:

per la femorale, la lombare, la tac

col contrasto e senza –

i cuscini, il test, l’endovena

la luce, il buio, il prurito, il futuro

e i rumori, il silenzio e la cena.

in ospedale

siamo tutti stranieri disorientati.

in ospedale basta un attimo e ci si perde.

in ospedale, se ti distrai son guai.

in ospedale il tempo non passa mai.

solo in sala operatoria ti regalano

una specie di tregua:

in cambio dell’autorizzazione

che si dà loro a incidere, a tagliare

a estrarre, a sciogliere e legare,

sistemare,

a farti sanguinare e poi suturare,

di solito, si ha diritto

 a una dose decente

di qualche droga potente.

in galera non so.

però, m’han detto ch’è quasi uguale.

 

NOI BUCHIAMO

stavo zoppicando
a velocità sostenuta
sul solito marciapiede
che mi conduce
al solito posto
di lavoro
malamente salariato,
quando
m’imbatto in certi
nuovi ostacoli
frapposti nottetempo:
sbirciando oltre
le transenne disposte
a proteggere
dai miei passi gommati
(che controsenso!)
porzioni incomprensibili
d’asfalto malandato
scorgo e ammiro
a bocca spalancata
dei bei macchinari
piccoli, un po’ zozzi
 ma superdotati
d’aggeggi minacciosi
iper-dentati
pronti, da un momento
all’altro,
ad azzannare o grattugiare
o ridurre in briciole
il manto griglio e nero
e bluastro
di quell’asfalto
irregolarmente ondulato.
guardo meglio
e individuo degli individui,
anzi, no:
dei fratelli in canottiera,
degli uomini irsuti
che dimostrano possedere
una speciale confidenza
con quei macchinari parcheggiati.
qualcosa suggerisce
che in men che non si dica
passeranno all’azione:
faranno fatica rumore polvere e distruzione.
io, prima che scoppi il finimondo,
m’avvicino a un terzetto inoperoso
di loro
e, con lo sguardo rivolto al più peloso,
chiedo, curioso
ma con tono vagamente complice:
cosa fate di bello?
… che c’è da metterci sotto
questo stanco marciapiede?
quasi in coro mi rispondono:
boh, noi buchiamo…
poi passa un’altra ditta (di tubi)
a ficcarci il ripieno.
il tipo irsutissimo,
interpretando correttamente
la mia delusione
dinanzi alla vaghezza di tale
informazione,
allarga le braccia in un gesto
che dice più di mille parole:
se ben osservato, il suo gesto dice:
eh, amico… è la solita
vecchia storia della separazione
tra tecnica e sudore
tra prodotto e produttore,
tra lavoro e lavoratore
tra compagno e collega,
tra problema e soluzione:
in una parola
è la solita vecchia merda
dell’alienazione
 
Redazione
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