Tutti lo chiamano Apartheid, non solo in Palestina

articoli di Amnesty, Gideon Levy, Samah Jabr, Michael Sfard, Romana Rubeo, Alya Zoabi, Mona Abuamara, Ugo Tramballi, Hagai El Ad,Mohammed El-Kurd, Alessandra Mecozzi, Jessica Buxbaum, Muna Dajani, Alison Flood, Zehava Galon e l’invito a boicottare Puma. Ttesti ripresi da amnesty.it, amiciziaitalo-palestinese.org, palestinaculturaliberta.org, frammentivocalimo.blogspot.com, pagineesteri.it,bdsitalia.org, assopacepalestina.org, invictapalestina.org). Ed è in partenza una raccolta di firme per bloccare il commercio di ciò che viene prodotto dalle “colonie illegali”

 

CAMPAGNA INIZIATIVA CITTADINI EUROPEI
SI CHIEDE ALLA UE DI BLOCCARE IL COMMERCIO DEI PRODOTTI DELLE COLONIE ILLEGALI
LA RACCOLTA FIRME (IN ITALIA 58.000) PARTIRÀ IL 20 FEBBRAIO E DURERÀ UN ANNO   https://stop settlements.org/;

 

Apartheid israeliano contro i palestinesi – Amnesty International

A maggio 2021, le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, un quartiere della parte di Gerusalemme est occupata, iniziarono a protestare contro il piano israeliano di sgomberarli con la forza dalle loro abitazioni per fare spazio ai coloni ebrei. Molte delle famiglie sono rifugiate, da quando si sono stabilite a Sheikh Jarrah dopo essere state sgomberate con la forza all’epoca della costituzione dello stato di Israele nel 1948. Da quando Israele occupò Gerusalemme est e il resto della Cisgiordania nel 1967, le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sono state continuamente prese di mira dalle autorità israeliane che usano leggi discriminatorie per espropriare sistematicamente le persone palestinesi della loro terra e delle loro abitazioni a beneficio delle persone ebree israeliane.

In risposta alle dimostrazioni di Sheikh Jarrah, migliaia di palestinesi in tutta Israele e nei Territori palestinesi occupati hanno organizzato proteste a sostegno delle famiglie e contro le loro comuni esperienze di divisione, esproprio e segregazione. Queste sono state affrontate con un uso eccessivo della forza da parte delle autorità israeliane con migliaia di feriti, arresti e detenzioni.

Gli eventi di maggio 2021 sono emblematici dell’oppressione che i palestinesi affrontano quotidianamente, da decenni. La discriminazione, lo spossessamento, la repressione del dissenso, le uccisioni e le ferite: tutto fa parte di un sistema che è disegnato per privilegiare le e gli ebrei israeliani alle spese delle e dei palestinesi.

IL SISTEMA APARTHEID

La nuova ricerca di Amnesty International dimostra che Israele impone un sistema di oppressione e dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che a beneficiarne siano le e gli ebrei israeliani. Ciò equivale all’apartheid ed è proibita dal diritto internazionale.

Leggi, politiche e pratiche volte a mantenere un sistema crudele di controllo sulle e sui palestinesi, li hanno frammentati geograficamente e politicamente, spesso impoveriti in un costante stato di paura e insicurezza.

COS’È L’APARTHEID?

L’apartheid è una violazione del diritto internazionale, una grave violazione dei diritti umani protetti a livello internazionale e un crimine contro l’umanità secondo il diritto penale internazionale.

Il termine “apartheid” era originariamente usato per riferirsi a un sistema politico in Sud Africa che imponeva esplicitamente la segregazione razziale, il dominio e l’oppressione di un gruppo razziale da parte di un altro. Da allora è stato adottato dalla comunità internazionale per condannare e criminalizzare tali sistemi e pratiche ovunque si verifichino nel mondo.

Il crimine contro l’umanità dell’apartheid, ai sensi della Convenzione sull’apartheid, dello Statuto di Roma e del diritto internazionale consuetudinario, viene commesso quando un atto disumano (essenzialmente una grave violazione dei diritti umani) viene perpetrato nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale rispetto a un altro, con l’intento di mantenere quel sistema.

L’apartheid può essere considerata come un sistema di trattamenti discriminatori prolungati e crudeli da parte di un gruppo etnico su un altro per controllare questo secondo gruppo…

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DITE COSA NON È VERO NEL RAPPORTO DI AMNESTY – Gideon Levy

Mentre le maledizioni e gli strilli si placano – “Amnesty è antisemita, il rapporto è pieno di bugie, la metodologia è assurda” – ci si deve chiedere: cosa, precisamente, è sbagliato nel rapporto sull’apartheid?

Israele non era fondato su una politica esplicita di mantenimento dell’egemonia demografica ebraica, riducendo al contempo il numero di palestinesi all’interno dei suoi confini? Sì o no? Vero o falso? Questa politica esiste ancora oggi? Sì o no? Vero o falso? Israele non mantiene un regime di oppressione e controllo dei palestinesi in Israele e nei territori occupati a beneficio degli ebrei israeliani? Sì o no? Vero o falso? Le regole di ingaggio nei confronti dei palestinesi non riflettono una politica dello sparare per uccidere, o almeno mutilare? Sì o no? Vero o falso? Gli sfratti dei palestinesi dalle loro case e la negazione dei permessi di costruzione fanno parte della politica israeliana? Sì o no? Vero o falso?

Sheikh Jarrah non è apartheid? La legge dello stato-nazione non è l’apartheid? E la negazione del ricongiungimento familiare? E i villaggi non riconosciuti? E la “giudaizzazione”? C’è una sola sfera, in Israele o nei territori, in cui vi sia una vera, assoluta uguaglianza, se non di nome?

Leggere il rapporto è disperante. C’è tutto ciò che sapevamo, ma condensato. Eppure in Israele non si sono sentiti né disperazione né rimorso. La maggior parte dei media l’ha emarginato e offuscato, e il coro dell’ hasbara (propaganda) l’ha respinto. Il ministro della propaganda, Yair Lapid, ha recitato le sue battute e ha attaccato anche prima che il rapporto fosse pubblicato. Il ministro per gli affari della diaspora Nachman Shai si è affrettato a seguirlo. Deve ancora nascere il rapporto internazionale che Israele non denuncerà trascurando di rispondere su un solo punto messo in evidenza. Un’organizzazione dopo l’altra, alcune importanti e oneste, lo chiamano apartheid, e Israele dice: antisemitismo.

Per favore, dimostrate che Amnesty si sbaglia. Che non ci sono due sistemi di giustizia nei territori, due insiemi di diritti e due formule per la distribuzione delle risorse. Che la legittimazione di Evyatar non è apartheid. Che gli ebrei possano reclamare le loro proprietà precedenti al 1948 mentre ai palestinesi viene negato lo stesso diritto non è apartheid. Che un insediamento verdeggiante proprio accanto a una comunità di pastori senza elettricità né acqua corrente non sia apartheid. Che i cittadini arabi di Israele non siano discriminati sistematicamente, istituzionalmente. Che la Linea Verde non sia stata cancellata. Che cosa non è vero?

Anche Mordechai Kremnitzer è stato spaventato dal rapporto e lo ha attaccato . Le sue argomentazioni: Il rapporto non distingue i territori occupati da Israele e tratta il passato come se fosse il presente. È così che va quando anche il mondo accademico di sinistra si arruola in difesa della propaganda sionista. Accusare Israele dei peccati del 1948 e chiamarlo apartheid è come accusare gli Stati Uniti di apartheid a causa delle passate leggi Jim Crow (leggi sulla segregazione razziale, abrogate nel 1954) , ha scritto su Haaretz di mercoledì.

La differenza è che il razzismo istituzionalizzato negli Stati Uniti è gradualmente scomparso, mentre in Israele è vivo e vegeto, più forte che mai. Anche la linea verde è stata cancellata. È stato uno stato per un po’ di tempo ormai. Perché Amnesty dovrebbe fare la distinzione? Il 1948 continua. La Nakba continua. Una linea retta collega Tantura e Jiljilya. A Tantura hanno massacrato , a Jiljilya hanno fatto morire un uomo di 80 anni e in entrambi i casi le vite dei palestinesi non valgono niente.

Non c’è, ovviamente, propaganda senza riconoscimenti per il sistema giudiziario. “L’importante contributo del consiglio legale del governo e dei tribunali, che, contro una larga maggioranza politica, ha impedito la messa al bando dei candidati e liste arabe alla Knesset… Un partito arabo che si unisce alla coalizione mette subito in ridicolo l’accusa di apartheid”, ha scritto Kremnitzer .

È tanto bello sbandierare l’Alta Corte di Giustizia, che non ha impedito una singola iniquità dell’occupazione, e Mansour Abbas, per dimostrare che non c’è l’apartheid. Settantaquattro anni di statualità senza una nuova città araba, senza un’università araba o una stazione ferroviaria in una città araba sono tutti sminuiti dal grande imbiancatore dell’occupazione, l’Alta Corte di Giustizia e da un partner minore della coalizione araba, e persino quello considerato illegittimo.

Il mondo continuerà a scagliare invettive, Israele continuerà a ignorarle. Il mondo dirà apartheid, Israele dirà antisemitismo. Ma le prove continueranno ad accumularsi. Quanto scritto nel rapporto (di Amnesty) non nasce dall’antisemitismo, ma contribuirà a rafforzarlo. Israele è il più grande motivatore di impulsi antisemiti nel mondo di oggI.

(traduzione a cura della redazione)

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Gaza, la Tradita – Samah Jabr

Gaza è a meno di 100 chilometri da Gerusalemme. È posizionata deliberatamente fuori portata, separata da tre confini  visibili. Il confine israeliano è l’ostacolo principale, ma ce ne sono altri due, ciascuno dei quali afferma l’autorità di una delle due fazioni palestinesi in conflitto: l’Autorità Palestinese di Ramallah e lo stesso governo di Gaza. Meno visibilmente, ci è impedito di raggiungere Gaza per mezzo di un assedio diplomatico che ha creato divieti istituzionali. Ma anche quando viene concesso il permesso ufficiale del governo per entrare a Gaza, siamo spesso obbligati a pensare alle conseguenze istituzionali.

Recentemente, dopo tre tentativi per entrare a Gaza in missione medica, sono riuscita ad ottenere tutti i documenti giusti e ad aggirare il veto istituzionale. Sono stata incaricata come consulente da Medicins Du Monde (MDM) Spagna per formare e supervisionare psicologi che lavorano per il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione sulla gestione delle condizioni legate ai traumi tra i bambini.

Al checkpoint di Erez, il passaggio tra l’ultimo quartiere israeliano di Ashkelon e il primo quartiere di Gaza, Beit Hanoun, è sembrato un viaggio indietro nel tempo di diversi decenni. Da parte israeliana, vedi edifici moderni, macchine eleganti e strade larghe e modernizzate, quando invece entri a Gaza ti trovi di fronte a infrastrutture deteriorate, strade dissestate, carri trainati da animali, spazi abitativi sovraffollati, una moltitudine di bambini che giocano per le strade , fitte file di biancheria appese agli edifici e visi affaticati che ti guardano con sguardi misteriosi, forse chiedendosi: “Perché qualcuno dovrebbe venire a Gaza?”

Con mia sorpresa, non c’erano macerie visibili di case demolite e rimaste dall’ultima guerra, in maggio, a Gaza. Ho capito che qualsiasi materiale utile viene raccolto molto rapidamente per essere riutilizzato per future ricostruzioni. Ho notato diversi giovani con amputazioni  nelle strade: giovani uomini e adolescenti che hanno perso un arto durante la guerra o perché le loro ginocchia sono state prese di mira durante la  Grande Marcia del Ritorno. I graffiti esposti nei campi, in città e sulla spiaggia esprimono il sostegno della popolazione di Gaza ai Gerosolimitani, al popolo di Sheikh Jarrah e a tutti i prigionieri palestinesi.

Gaza, la prigioniera, esprime resistenza per liberarci!

La guerra punta i riflettori sulla miseria di Gaza, ma molto rapidamente, questa miseria ricade nell’oblio. Oggi, mentre mi siedo al caldo di casa per scrivere questo articolo – beneficiando di un giorno libero dal lavoro a causa della tempesta di neve che ha colpito la regione – vengo a sapere di un bambino a Khan Yunis che è morto a causa della mancanza di riscaldamento di Gaza. Povertà, anemia, insicurezza alimentare, mancanza di attrezzature mediche, mancanza di rifornimento di carburante e mancanza di elettricità sono permanenti a Gaza. Sono rimasta profondamente rattristata quando uno dei nostri tirocinanti a Gaza, un collega anziano, ha detto in un incontro informale: “Ho visitato Gerusalemme l’anno scorso”. I colleghi di Gaza hanno espresso curiosità e persino invidia – per spiegare, ha aggiunto: “Sono un malato di cancro e mi è stato concesso il permesso di essere curato all’Augusta Victoria Hospital”. Per avere accesso ai servizi medici fuori Gaza bisogna essere molto malati e molto fortunati nello stesso tempo.

Ciascuno dei casi clinici presentati dai terapeuti soffriva di miseria, oltre, in alcuni casi, di psicopatologia. Quattro casi su 21 minori sono stati sottoposti a supervisione in seguito al suicidio di un membro della famiglia. Tutti gli altri hanno seguito la morte traumatica di un familiare ucciso dagli israeliani. In un caso, la bambina era l’unica sopravvissuta della sua famiglia. In un altro caso, il fratello diciassettenne del bambino si è suicidato dopo che sua madre gli aveva fatto pressioni affinché lasciasse la casa per procurarsi il cibo; una sorella ha riferito al consulente scolastico che sua madre era depressa e trascorreva tutto il suo tempo a letto. Quando un terapeuta ha contattato la madre per offrire supporto e un antidepressivo, la madre ha risposto: “Ho bisogno di cibo, non di farmaci”.

Non esiste un posto sicuro a Gaza. Il volto del trauma si insinua quando una casa viene demolita, quando un compagno di classe viene ucciso, quando un cugino prende una barca illegale e scompare per sempre, quando c’è la minaccia di un’altra guerra e quando Israele attacca i pescatori e i contadini per dissuaderli dal lottare per guadagnarsi da vivere. Le minacce sono tante e reali.

Ho lasciato Gaza molto presto una domenica mattina per riprendere  il mio lavoro in Cisgiordania. Ho incontrato la fila infinita di lavoratori palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint di Erez per andare al lavoro. Mi è stato detto che stavano aspettando dalle 4 del mattino. Nei loro corpi magri, nei volti scuri e rugosi, nelle sigarette scadenti e nei sacchetti di plastica che portavano con un cambio di biancheria intima, ho visto un quadro di schiavitù moderna. A differenza di loro, non sapevo che gli israeliani non mi avrebbero permesso di attraversare il checkpoint con la mia valigia. Ho dovuto precipitarmi a svuotarne il contenuto in sacchetti di plastica e buttarla via prima di raggiungere i soldati.

Sono andata a Gaza per insegnare e supervisionare, ma ho imparato molto come medico, come connazionale palestinese e come essere umano. Se Gaza fosse una persona, il suo trauma più profondo non sarebbe l’aggressione del nemico ma il tradimento dei suoi vicini, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Dobbiamo ancora trovare un rimedio nazionale per questo tradimento.

(Traduzione a cura di Associazione di Amicizia Italo-palestinese)

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I COLONI ISRAELIANI VIOLENTI INIZIANO AD ASSOMIGLIARE AL KU KLUX KLAN – Michael Sfard

…I reati commessi da cittadini israeliani contro i palestinesi e le loro proprietà in Cisgiordania, che di recente hanno fatto notizia in Israele solo a causa di attacchi rivolti anche ad attivisti per i diritti umani ebrei-israeliani venuti ad aiutare i palestinesi, non sono solo un fenomeno criminale. Sono carichi di implicazioni strategiche e costituiscono effettivamente uno strumento a beneficio di Israele in quanto apporta cambiamenti unilaterali politicamente significativi volti a consolidare il suo dominio nel territorio conquistato nel 1967. I coloni commettono reati ogni giorno, in tutta la Cisgiordania, e cacciano sistematicamente i palestinesi dal loro spazio vitale. Squadre di coloni si impossessano della terra con la forza, sradicando alberi da frutto, picchiando gli agricoltori palestinesi e terrorizzando intere comunità. Nelle aree che invadono, i coloni costruiscono o piantano illegalmente stabilendo una presenza criminale permanente. Questo fenomeno si verifica principalmente nelle zone rurali, ma anche a Hebron e Gerusalemme.

Un osservatore potrebbe delimitare le linee di presenza dei coloni in base alle aree edificate degli insediamenti o alle tangenziali che li circondano, ma questo sarebbe un quadro parziale e fuorviante. Per capire la realtà territoriale è necessario parlare con i contadini palestinesi. Indicheranno l’orizzonte e ci diranno che se attraversano quel fossato o vanno oltre quel grande albero, in un’area a cui un tempo avevano libero accesso, rischiano di essere attaccati dai coloni. Capiremo che le vere linee di confine sono invisibili. Sono le linee di una violenza costantemente mutevoli che stanno costringendo i palestinesi in enclavi sempre più ristrette. L’appezzamento di terreno che ieri era l’arena di battaglia viene oggi sottratto e domani l’appezzamento adiacente, più vicino alle case del villaggio, diventerà il nuovo scenario di lotta.

I dati raccolti da Yesh Din durante i 17 anni di attività dell’organizzazione indicano un processo tanto costante quanto straziante: dalla spirale della violenza nelle aree aperte ai villaggi palestinesi, e negli ultimi anni anche nelle singole abitazioni, mentre bande di coloni effettuano incursioni nel cuore della notte, attaccando in stile Ku Klux Klan. Lanciano pietre, rompono finestre e appiccano incendi. Dei quasi 1.500 casi che abbiamo trattato in questi anni, quasi la metà riguardava reati di danni alla proprietà, un terzo erano reati di violenza e quasi tutto il resto, il 12%, consisteva in occupazioni di terreni. E queste sono solo le denunce che sono arrivate a Yesh Din. Ci sono senza dubbio migliaia di casi che non ci sono pervenuti…

(tradotto da Beniamino Benjio Rocchetto)  –  da qui

Il colonialismo di insediamento presentato come “disputa immobiliare” – Romana Rubeo

L’attenzione è tornata alta nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est Occupata, dopo lo sgombero forzato e la conseguente demolizione della casa della famiglia Salihya, nelle prime ore di mercoledì 19 gennaio, da parte delle autorità israeliane.

La vicenda in questione viene spesso presentata come una mera “disputa immobiliare”, così come impone la narrazione dominante israeliana che si riverbera, automaticamente, in quella cassa di risonanza rappresentata dai media mainstream in Occidente.

A uno sguardo più attento, però, è evidente che questa interpretazione è del tutto fuorviante e che, invece, Gerusalemme Est è teatro di fatti che riproducono, come in una sorta di microcosmo, il cuore stesso della questione palestinese: la terra ambita, sottratta, rubata e confiscata, che è al centro di ogni vicenda coloniale e, conseguentemente, anche delle scelte politiche israeliane. D’altra parte, il colonialismo d’insediamento è parte integrante della natura stessa dello stato di Israele, sin dagli albori dell’ideologia sionista che lo ha ispirato.

Cosa sta accadendo a Sheikh Jarrah

Il 10 marzo scorso, prima che una accesa rivolta popolare portasse la questione di Gerusalemme Est sulle prime pagine dei giornali, la società civile palestinese si era già attivata formalmente per attirare l’attenzione della comunità internazionale su quanto stava accadendo nella Città Santa.

Numerose organizzazioni per i diritti umani hanno firmato infatti un appello congiunto, rivolto alle cosiddette Procedure Speciali delle Nazioni Unite, ovvero a quegli esperti indipendenti che dovrebbero esprimersi in materia di diritti umani in un determinato territorio.

Tra i primi firmatari dell’appello figurano, tra gli altri, Al-Haq, un’associazione palestinese per la tutela dei diritti umani, Addameer, associazione che sostiene i diritti umani e i prigionieri politici, e Defense for Children International – Palestine. Vale la pena sottolineare che, qualche mese dopo, proprio queste associazioni sarebbero state oggetto di un provvedimento da parte di Israele che ne segnalava l’illegittimità e le classificava, senza alcuna prova a sostegno della sua tesi, come organizzazioni terroristiche.

“A Gerusalemme Est, illegalmente occupata e annessa, 15 famiglie gerosolimitane, per un totale di 37 abitazioni e circa 196 palestinesi […] sono a rischio imminente di sgombero forzato,” si legge nell’appello congiunto, che continua spiegando come “applicando, in modo illegittimo l’ordinamento interno israeliano a un territorio occupato, le corti israeliane si sono pronunciate in favore di azioni legali intraprese da organizzazioni di coloni per sfrattare le 15 famiglie palestinesi”.

Geograficamente, i luoghi interessati sono principalmente due: la zona di Batn Al-Hawa a Silwan e quella di Karm Al-Ja’ouni a Sheikh Jarrah.

È proprio da Sheikh Jarrah che, nel maggio scorso, è partita l’accesa mobilitazione palestinese, che ha poi innescato una violenta repressione da parte delle forze israeliane e infine, un’operazione militare ai danni della Striscia di Gaza in cui hanno perso la vita oltre 260 palestinesi, ma che ha al contempo determinato la formazione di una nuova coscienza popolare, pronta a sfidare con decisi atti di resistenza il regime di oppressione a cui il popolo palestinese è sottoposto…

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AL TANTURA: LA MEMORIA DELLA COLONIZZAZIONE – Alya Zoabi

Nelle prime fasi del 1948, il villaggio di Al-Tantura fu preso di mira dalle forze armate israeliane; le sue case furono saccheggiate, i suoi abitanti arabi palestinesi espulsi e altri massacrati dalle forze di difesa israeliane Brigata Alexandroni. Israele ha negato per anni l’esistenza del massacro nonostante le testimonianze dei suoi abitanti originari fino a poco tempo fa; un documentario israeliano del 2021 ha rivelato la testimonianza di diversi veterani israeliani che affermavano che in quel momento era avvenuto un massacro che aveva coinvolto più di 200 vittime palestinesi.

Gli originari abitanti di Tantura furono costretti a trasferirsi in luoghi diversi; la maggior parte di loro aveva parenti a 50 km di distanza in una città chiamata Fureidis (che si traduce come “Paradiso”), e non avevano altra scelta che vivere con loro. Mentre rivisitavo la storia di Tantura, Salah Abu Salah, che all’epoca aveva 8 anni, mi raccontò di come la sua famiglia e altre famiglie dovettero trasferirsi a Fureidis in cerca di riparo.

Raccontando la sua storia, Abu Salah mi ha detto che dopo che le forze di difesa israeliane hanno preso le loro case, “ci hanno messo tutti su un autobus, ci hanno portato in un villaggio vicino e ci hanno lasciati lì”. Per sua fortuna, la madre di Abu Salah aveva una famiglia che viveva a Fureidis e li accolse per stare con loro; altre famiglie non avevano un posto dove cercare riparo, quindi furono costrette a partire per altre zone e alcune fuggirono persino in Giordania. Il mukhtar (il capo del villaggio) di Fureidis apparteneva alla famiglia Bariyeh e non aveva altra scelta che aprire la città ai rifugiati Tantura e invitare le persone a proteggerli.

Gli uomini dovevano combattere e le donne dovevano restare a casa con i bambini. Nonostante la sua giovane età, Abu Salah non riesce a cancellare dalla sua memoria come suo fratello maggiore avesse fame quella sera e continuasse a tormentare sua madre per il cibo. Non c’era cibo nel rifugio, donne e bambini dovevano rimanere lì per stare al sicuro, mentre gli uomini andavano a proteggere le loro case. La mamma di Abu Salah ha chiesto a suo fratello di essere paziente, ma lui ha continuato a tormentarla. Alla fine gli permise di tornare a casa loro e trovare qualcosa da mangiare. Abu Salah può ancora ricordare come suo fratello sia tornato senza fiato, mormorando parole a sua madre sui corpi a terra e sui morti. Non aveva più fame.

I morti non furono seppelliti nel cimitero del villaggio occupato, alcuni furono seppelliti a gruppi sotto la sabbia, altri furono lasciati all’aperto sulle spiagge di Tantura.

Abu Yaqoob, un ebreo palestinese che era il mukhtar di Zumarien, un altro villaggio vicino a Tantura, radunò degli uomini (uno dei quali era il cognato di Abu Salah), due cavalli e un enorme carro e insieme iniziarono a radunare i corpi. “15 corpi alla volta”, mi dice Abu Salah. Li seppellivano ovunque potessero trovare un posto vuoto per garantire la dignità dei corpi. Alcuni furono sepolti insieme; alcuni hanno avuto la fortuna di essere sepolti da soli.

Conquistare Tantura è stato molto facile per le forze israeliane. Secondo Abu Salah, “Erano molto feroci ed erano ovunque. Mio fratello mi raccontava più e più volte quando sono cresciuto come circondavano il villaggio da tre direzioni: la terra e il mare all’inizio, e all’improvviso altri soldati scesero dal treno che si fermava in una stazione vicina .” Erano più numerosi degli uomini del villaggio; avevano fucili e armi, quelle inglesi che gli inglesi lasciarono loro quando il mandato terminò. “È stato così facile che ci è voluta solo una notte per uccidere la maggior parte degli uomini e far uscire il resto di noi”, ha detto.

Salah sorrise alla mia reazione ingenua al silenzio della gente riguardo ad Al Tantura. “Non abbiamo bisogno del loro riconoscimento”, ha detto, “la terra un giorno testimonierà e racconterà cosa è successo”. Ha parlato di quanti avevano paura di parlare del massacro prima ma adesso non più; ultimamente ha parlato con diversi giornalisti e mi ha fornito i nomi di alcune persone che possono testimoniare quello che è successo a Tantura. “Sono più vecchi di me, ma hanno ancora una buona memoria”, ha detto. Salah è rimasto scioccato quando gli ho detto che Israele nega ancora la Nakba fino ad oggi. Lui mi guardò. “Ahimè,” disse e batté la testa con la mano.

L’autore Alya Zoabi è il coordinatore legale e parlamentare del Centro Mossawa, che sostiene i diritti civili e democratici dei cittadini arabi palestinesi di Israele nella Knesset e nel governo israeliano.

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PARALIZZATO DA TANTURA, RIANIMATO DA AMNESTY – Mona Abuamara

Come palestinese, ho sempre conosciuto il dolore dell’ingiustizia; mi è arrivato con molti sapori amari, alcuni dei quali condividerò con voi.

Come discendenti della Nakba, il dolore del desiderio per la Palestina ha colpito innumerevoli famiglie, compresa la mia. Famiglie che sono state espropriate dalle loro case, costringendole a disperdersi in tutto il mondo.

La paura della perdita, aspettarsi che te stesso o i tuoi cari vengano messi in pericolo in qualsiasi momento.

Il dolore del disturbo da stress post-traumatico, che è riemerso con ogni attacco aereo israeliano di F16 e Apache,
in un modo o nell’altro, somiglia, anche se incomparabile, con gli orrori subiti durante la guerra in Libano.

Il dolore di vivere sotto l’oppressione di un’orrenda occupazione, che si è divertita a infliggere ogni sorta di tattica umiliante e disumanizzante per instillare terrore e resa nei cuori e nelle menti della popolazione indigena palestinese sotto il suo controllo.
Queste tattiche si sono intensificate nella loro cattiveria quando Israele si è reso conto di aver sottovalutato questa nazione.

Ma, se pensi che la mia esperienza suoni strana o terribile, ripensaci.

Da bambino e da giovane adulto, ero considerato uno dei fortunati.

La maggior parte dei bambini e dei giovani palestinesi ha sofferto molto più di quello che è toccato a me, e sfortunatamente, i bambini a Gaza stanno ancora vivendo un incubo senza fine ancora oggi.

La lotta palestinese continua ad avere una soluzione diretta, una soluzione proposta decenni fa e accettata dai palestinesi per il presunto simbolo del consenso internazionale. Una soluzione che si basava in teoria sulla legittimità internazionale e sul diritto internazionale, e si presentava come l’unica via possibile per garantire a tutti una soluzione giusta ed equa. Eppure, noi palestinesi ci troviamo oggi a lottare per convincere i creatori di quella soluzione ad adottarla, rispettarla, proteggerla e sostenerla. Per una drammatica ironia della sorte, la Palestina occupata in via di sviluppo finisce per essere la parte che si sforza di attuare il diritto internazionale e raggiungere l’uguaglianza e l’equità all’interno dell’ordine mondiale.

Idealmente, tali norme sarebbero imbracciate in primo luogo e soprattutto dalle nazioni che hanno prodotto e convalidato la costruzione sociale. Paesi che sottolineano l’importanza della comunità internazionale e il valore del cittadino globale; dichiarando che gli obblighi per il benessere degli altri non si fermano alle proprie frontiere. Gli Stati che affermano i loro progetti di politica estera non si basano esclusivamente sull’interesse personale, sulla ricchezza e sulla sicurezza, ma piuttosto sono costruiti per rispecchiare le loro identità, aggiungendo loro un aspetto morale ed etico. Purtroppo, nel caso della Palestina, né la teoria né la pratica hanno mai incarnato quella visione di un mondo libero costruito su norme comuni, valori condivisi e interessi universali.

Tuttavia, la comunità internazionale ha il potere e i mezzi per porre fine all’occupazione israeliana della Palestina e oggi ha ottenuto un altro strumento con il rapporto di Amnesty, che le consente, più che mai, di ritenere Israele responsabile.

Quindi il modo c’è, ciò che manca è una volontà!

Ho sempre saputo che nella Palestina storica sono state commesse atrocità inconcepibili contro la popolazione palestinese indifesa.

Ho sentito le storie della mia stessa famiglia e di altre famiglie palestinesi. Storie che hanno inflitto tristezza e dolore con ogni parola raccontata. Ma quando l’ articolo di Haaretz in cui alcuni mostri israeliani hanno ammesso di aver massacrato oltre 200 palestinesi indifesi a Tantura e poi hanno ammesso di essersi sbarazzati dei loro corpi in modo così selvaggio, quel momento ha rappresentato una svolta significativa nella mia vita, un paradosso di impotenza e furore.

Per decenni questi soldati e leader spietati sapevano dove giacevano i corpi, eppure hanno continuato a costruire un parcheggio sopra di loro. Un parcheggio attraverso il quale milioni di persone hanno guidato, camminato e corso eccitati per divertirsi in spiaggia. Non rendendosi conto che calpestavano più di 200 corpi mentre si godevano le rovine di un villaggio palestinese ripulito etnicamente.

Una tale crudeltà è incomprensibile! Le politiche nascoste machiavellicamente chiariscono a quale tipo di democrazia e sistema rispettoso della legge si riferisce Israele.

Quindi, per quanto odio ammetterlo, dopo che i dettagli del massacro di Tantura sono venuti alla luce, e fino ad oggi, ho vissuto devastazione e totale impotenza.

Non riuscivo a superare la brutalità paralizzante, e la mancanza di una risposta adeguata a una simile assurdità era inquietante.

Ma dopo aver sfogliato il rapporto di Amnesty e aver visto la conferenza stampa, ho ripreso animo.

Mi sono reso conto che solo condividendo la nostra verità come vittime di questa terribile occupazione saremo in grado di sfidarne l’esistenza contorta.

Tantura rappresenta un pezzo di un quadro straziante, che continuerà a venire alla luce solo nei prossimi mesi e anni, nonostante Israele cerchi di impedire che ciò accada.

Alla fine, quell’immagine rappresenterà la brutta verità nascosta della Nakba che si è abbattuta sui palestinesi.

Oggi, pubblicando il suo rapporto, Amnesty ha anche confermato la triste realtà che i palestinesi affermano da decenni.

Questo illustra quanto sia importante per noi far sentire la nostra voce in tutti i luoghi e quanto sia essenziale basarsi sul sostegno di coloro che difendono la verità, la libertà e i diritti umani.

Non ci servono le scuse dopo un decennio; vogliamo la assunzione di responsabilità ora.

Per onorare coloro che hanno perseverato di fronte all’oppressione, al razzismo e all’apartheid, dobbiamo essere forti e uniti nel denunciare le violazioni di Israele.

E, in onore di coloro sepolti nelle atroci fosse comuni israeliane, racconteremo le loro e le nostre storie; Parleremo della nostra Nakba!

Le cose possono sembrare penose in questo momento. Ma dobbiamo farci strada attraverso il rumore, la propaganda e l’intimidazione e andare avanti. Smascherare il vero volto dell’occupazione è vitale per sconfiggerla e potremmo essere molto più vicini ad arrivarci di quanto pensiamo.

(Traduzione a cura della redazione)

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Davide e Golia – Ugo Tramballi

Lo scorso 26 gennaio l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilat Erdan, si è presentato al Consiglio di Sicurezza mostrando una pietra. E’ stata raccolta, ha spiegato, nei Territori occupati (lui non li ha chiamati in questo modo): dei palestinesi l’avevano lanciata contro un’auto israeliana.

Sempre con la pietra nella mano destra sollevata, Erdan aveva criticato “la parzialità del Consiglio di Sicurezza”. In particolare la sua “assoluta sottovalutazione del terrorismo lancia-pietre”. Nella consueta conferenza stampa dopo la seduta al Palazzo di Vetro, un giornalista aveva chiesto a una portavoce dell’Onu se, nel caso ci fosse una risposta del rappresentante dell’Olp, gli sarebbe stato permesso presentarsi con un bulldozer uguale a quelli che usano gli israeliani per radere al suolo le case dei palestinesi. O con uno dei fucili-mitragliatori con i quali affrontano i lanciatori di pietre, a volte uccidendoli.

”Erdan invita a un legittimo paragone” ha commentato Ian Williams, già presidente della Foreign Press Association all’Onu. “Al confronto fra i ragazzi palestinesi e il Golia israeliano, povero e senza difesa dai voraci lanciatori di pietre, protetto solo da droni, missili, aerei e carri armati”.

Un diplomatico, anche il rappresentante dei generali di Myanmar o della Siria di Bashar Assad, dovrebbe cercare equilibrio e intelligenza nel perorare la causa del suo paese. Se l’israeliano si fosse presentato con i resti di un razzo di Hamas o le foto di nuovi missili iraniani forniti a Hezbollah libanese, sarebbe stato ascoltato con attenzione.

Forse accortosi di non averla, e nel tentativo di dare una certa gravitas alla sua denuncia, Erdan ha aggiunto: “Come reagirebbero (i membri del Consiglio di Sicurezza, n.d.r.) se una pietra di queste finisse sui loro veicoli?”. L’egiziano al-Sisi e Vladimir Putin già avevano esteso la qualifica di terrorista a chiunque si oppone ai loro regimi. Erdan l’ha allargata a chi ammacca le carrozzerie.

Privo di senso della misura, Gilad Erdan è un politico, non un diplomatico. E’ uomo del Likud e di Bibi Netanyahu che, mandandolo in America (promoveatur ut amoveatur), gli aveva dato il ruolo di ambasciatore all’Onu e a Washington. Il nuovo governo gli ha tolto la seconda carica affidandola a Mike Herzog, un diplomatico vero.

L’ambasciatore con la pietra in mano, un Golia travestito da Davide, sarebbe una parodia se non fosse uno dei molti segni della tragedia che imprigiona due popoli. La faziosità di Gilad Erdan nel descriverla – i sassi degli uni e nient’altro – dimostra quanto una parte d’Israele si rifiuti di riconoscere una qualche dignità agli avversari: esistono i terroristi, non i palestinesi. A loro non è riconosciuto il diritto di opporsi all’occupazione: il conflitto esiste solo per gli israeliani quando decidono di entrare di notte nelle case palestinesi per arrestare i lanciatori di sassi non colti sul fatto ma fissati dalle telecamere.

Perché non c’è nulla che i palestinesi facciano senza che la tecnologia del Grande Fratello israeliano veda. Se, come è stato scoperto, con i dispositivi di NSO la polizia spiava illegalmente politici e giornalisti israeliani, possiamo immaginare quanto pervasiva sia nei Territori occupati, dove la democrazia israeliana non esiste…

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Calunnie e Antisemitismo – Alessandra Mecozzi

Il ministro degli esteri israeliano, Yair Lapid, definisce “prive di fondamento, faziose e antisemite” le accuse contenute nel rapporto di 270 pagine reso pubblico a inizio febbraio da Amnesty International e intitolato Apartheid israeliano contro i Palestinesi. Un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità. Agnes Callamard, la segretaria dell’organizzazione, nota per basare le sue affermazioni su fatti documentati grazie a ricercatori sul campo che verificano le violazioni dei diritti umani, aggiunge che la risposta internazionale all’Apartheid non deve più limitarsi a blande condanne e a formule ambigue. Se non se ne affronteranno le cause di fondo, palestinesi e israeliani rimarranno intrappolati nel ciclo di violenza che ha distrutto così tante vite. D’altra parte, le stesse conclusioni sono argomentate da tempo da molti altri osservatori internazionali, come Human Rights Watch, e dalle stesse associazioni israeliane per la tutela dei diritti umani. Quel che si rileva più raramente è che le affermazioni calunniose verso Amnesty e gli altri svuotano di significato in primo luogo proprio la lotta contro un sistema nefasto di idee e pratiche che esiste da ben prima dell’Olocausto ed è tutt’ora drammaticamente ben vivo. Nella velenosa costruzione dell’”altro da noi”, i bersagli e i capri espiatori possono cambiare facilmente di nazionalità, ruolo sociale, ecc. Fino a generare quel che parrebbe impensabile: le vittime del razzismo, in differenti condizioni storiche, ne diventano protagoniste o complici. Sarebbe di enorme importanza, come rileva Alessandra Mecozzi, che questi temi e le conoscenze storiche e culturali ad essi connesse, fossero analizzati e discussi in libertà e in profondità nelle scuole e negli altri ambiti educativi. Il fatto che non lo si faccia e si riducano problemi complessi a quattro semplicistiche affermazioni sull’odio e la tolleranza sta dando frutti evidenti.

Accusa non sorprendente, dato che da anni Israele bolla come “antisemita” chiunque esprima critiche nei confronti delle sue politiche oppressive e violente nei confronti della popolazione palestinese, sia nei Territori occupati, a Gaza e Gerusalemme est che sul territorio israeliano. La infamante accusa ha colpito in Europa persone ed iniziative nel mondo educativo e universitario, nel mondo della cultura, dello spettacolo, talvolta anche in quello politico, spesso utilizzando come arma contundente quella definizione di antisemitismo prodotta dall’International Holocaust Remembrance Alliance (2016), criticata, anche all’interno di Israele: oltre 200 accademici vi hanno risposto con la Dichiarazione di Gerusalemme. https://jerusalemdeclaration.org/ Lo stesso creatore della definizione IHRA, Kenneth Stern, dell’ American Jewish Committee, dichiarava su The Guardian del 19 dicembre 2019,  “Io l’ho scritta …principalmente affinché i raccoglitori di dati europei potessero sapere cosa includere ed escludere, mai l’ho intesa per silenziare il dibattito…Gli ebrei di destra ne stanno facendo un’arma!”…

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Proiettili, brutalità e bulldozer: com’è veramente l’apartheid israeliano – Hagai El-Ad

Un attivista morto, un bambino detenuto, una casa demolita: è solo un’altra giornata negli sforzi arroganti e immorali di Israele per cancellare l’identità, la vita e la dignità dei palestinesi

Un attivista morto, un bambino detenuto, una casa demolita. C’è qualcosa di nuovo? È stato solo un altro giorno in cui migliaia di persone hanno preso parte al funerale di Haj Suleiman al-Hathaleen a Umm al-Kheir. Per Israele, la sua comunità non esiste, è solo un’altra località palestinese da cancellare e sostituire, soffocata lentamente mentre il vicino insediamento fiorisce: le sue case iniziano letteralmente dove finiscono le baracche di Umm al-Kheir .

Haj Suleiman era un convinto sostenitore della sua comunità. Era un palestinese qualunque di fronte a un regime che lavora instancabilmente per rendere invisibile il suo popolo. È stato investito da un camion che lavorava al servizio della polizia israeliana; la versione ufficiale è che era invisibile all’autista. Lo hanno lasciato lì al suo destino, senza fornire assistenza medica. È morto per le ferite riportate, dopo due settimane di lotta tra la vita e la morte.

Per i suoi genitori, Amal Nakhleh è una cosa importante. Era nato prematuro, quindi lo chiamarono Amal – speranza – nella speranza che sopravvivesse. E lui ce l’ha fatta.

Per Israele, Amal è solo un altro nessuno palestinese. Il fatto che abbia appena compiuto 17 anni e che soffra di una malattia autoimmune non ha alcuna importanza. Da oltre un anno è detenuto in “detenzione amministrativa“, il termine imbiancato di Israele che descrive la routine kafkiana di trattenere a tempo indeterminato qualcuno –un nessuno– senza accusa o processo. La stessa settimana in cui Haj Suleiman è stato sepolto, Amal ha compiuto 18 anni, mentre era in carcere. Pochi giorni prima, Israele ha prolungato la sua non-condanna per la quarta volta..

Per decenni, la famiglia Salhiye ha chiamato casa il quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme. Ma non era la casa originale della famiglia: nel 1948, quando fu fondata Israele, la famiglia fu espulsa da Ein Karem, che è ora un quartiere residenziale artistico in un’altra parte della città.

Erano passate poche ore della notte successiva al giorno in cui Haj Suliman fu seppellito. Era ancora buio e gelido quando la polizia di frontiera e il bulldozer si sono presentati nell’oscurità della notte, e non ci è voluto molto prima che Israele gettasse fuori –di nuovo–la famiglia Salhiye dalla sua casa. Poi il bulldozer ha fatto il suo lavoro.

A questi frammenti della vita –e della morte– dei palestinesi se ne aggiungono numerosi altri. Almeno tre, in un solo giorno. Molti altri si sono svolti proprio quel giorno, e la settimana prima, e il mese precedente e l’anno prima. E così via.

Questa brutalità schiacciante non è nuova. Si fa sentire sulla vita di ogni palestinese. Il proiettile o il bulldozer, il permesso negato o la prigione prolungata, l’umiliazione e la disumanizzazione. Questo è l’apartheid. Sorveglianza israeliana ad alta tecnologia mista a violenza di basso livello, incentrata sulla supremazia ebraica, apartheid insomma.Ovviamente Israele negherà tutto. Haj Suliman? Un incidente d’auto è oggetto di indagine (sono passate alcune settimane; l’autista deve ancora essere interrogato dalla polizia; in ogni modo, Israele nasconde regolarmente quasi tutti i casi di uccisioni di palestinesi da parte delle sue forze di sicurezza).

La prolungata incarcerazione senza processo di Amal? Niente di cui preoccuparsi, grazie alla supervisione giudiziaria israeliana di livello mondiale (dai giudici militari ai giudici dell’Alta Corte, tutti regolarmente approvano questa -e molte altre- misure draconiane contro i palestinesi senza nemmeno una parvenza di giusto processo; le “prove” rimangono segrete, quindi sono fatte in modo che sia impossibile provare la propria innocenza).

La famiglia Salhiye? Secondo la legge israeliana, non possono reclamare la loro casa a Ein Karem, perché sono palestinesi. E in base alla legge israeliana, alle sentenze dei tribunali e alle distorte interpretazioni legali, molte altre famiglie palestinesi dovrebbero essere espulse dalle loro case di Gerusalemme, per far posto ai coloni ebrei.

Tutti i dettagli sono stati studiati con cura. Questa brutalità vuole nascondersi all’interno dello “stato di diritto”. In effetti, essere così inserito nella legge –e come tale così celebrato dalla propaganda israeliana– rende questo sistema ancora più orribile.

È stato solo un altro giorno negli sforzi arroganti, immorali e brutali di Israele per cancellare l’identità, la vita e la dignità dei palestinesi. Eppure Umm al-Kheir è un luogo vero. E Amal Nakhleh è vivo, come speravano i suoi genitori quando è nato prematuro di tre mesi. E la famiglia Salhiye non ha dimenticato Ein Karem.

È stato solo un altro giorno. È difficile contenere la rabbia o trattenere le lacrime. Quanti altri giorni come questo ci aspettano?

Hagai El-Ad è un’attivista israeliano per i diritti umani e direttore esecutivo di B’Tselem. Twitter: @HagaiElAd

 (Traduzione a cura di AssoPacePalestina)  –  da qui

 

INVOCARE L’AMERICA È LA SCUSA PREFERITA DELLA SINISTRA ISRAELIANA – Gideon Levy

C’è ancora qualche differenza tra il centro-sinistra e la destra? Quale dei due è più onesto e diretto? Prendiamo l’insediamento di Evyatar, per esempio. Uno spregevole caso di furto di terra. C’è già un progetto per legittimare il tutto. Il centro-sinistra “si oppone.” Yair Lapid di Yesh Atid ha scritto una lettera “tagliente” al Primo Ministro. La laburista Merav Michaeli si è unita. I due rappresentanti dello schieramento sono a favore dello smantellamento di Evyatar. A causa del crimine? A causa dell’immoralità? A causa dell’ostacolo a qualche possibilità di pace?

Tutt’altro. Perché danneggerà le relazioni con gli Stati Uniti. Il Segretario di Stato Americano Antony Blinken ha avvertito Lapid e Michaeli: “L’ampliamento di Evyatar danneggia gravemente le relazioni con i nostri più stretti alleati e gli interessi strategici di Israele. I laburisti continueranno a lottare per l’interesse della sicurezza di Israele”. Ah, ecco perché. Per la sicurezza.

Come dei bambini bisognosi dei genitori, ora il centro-sinistra vuole solo nascondersi dietro le spalle degli adulti. Tutto quello che sanno dire è “America”. L’unica cosa che li preoccupa è la loro immagine internazionale. Che triste. Che patetico. Com’è ipocrita e viscido. Sostengano Evyatar o si oppongano, ma siano onesti. Non si può volere entrambe le cose. O sei pro o contro. Insediamento o democrazia. Stato di diritto o Stato di forza. Chiedere lo smantellamento di Evyatar invocando l’America è la posizione più codarda da assumere.

Pochi giorni dopo è stata la volta del Ministro dell’Interno Ayelet Shaked. La sua legge razzista sulla cittadinanza è stata approvata, un altro grande traguardo per la destra. Lapid è corso in aiuto di Shaked per ottenere l’approvazione della legge, ovviamente. Anche il Partito Laburista era favorevole. Shaked ha detto: “Non serve usare mezzi termini, la legge ha anche motivazioni demografiche, per impedire un insidioso diritto al ritorno”. Dritto al punto, senza nascondersi dietro nessuno. Razzismo dichiarato, proprio come ci ha detto il Ministro dell’Interno.

La supremazia ebraica, la minaccia demografica, gli arabi israeliani come cittadini di seconda classe: è loro vietato sposare chi vogliono e avere una famiglia nel proprio paese, solo gli ebrei possono. Solo ed esclusivamente gli ebrei. Un’altra legge suprematista per gli annali. “Sì, c’è una violazione dei diritti umani fondamentali qui, ma è proporzionata”, dice Shaked. È lei che determina la proporzionalità. Lapid la appoggia, e anche Michaeli.

A questo punto, merita più rispetto la destra. Le sue posizioni possono essere terribili, ma almeno è abbastanza onesta da esprimerle apertamente. Il centro-sinistra è evasivo e cerca di mascherare le cose. Entrambi gli schieramenti appoggiano una delle leggi che più spudoratamente delineano Israele come uno Stato razzista, non ci sono due modi per farlo. Una legge che discrimina tra cittadini è una legge antidemocratica, una società che legifera leggi suprematiste per un gruppo etnico a scapito di un altro è una società razzista. La destra lo dice apertamente, la sinistra blatera e inganna.

Le differenze intellettuali tra loro sono irrisorie, le differenze nell’onestà sono considerevoli. La destra è più onesta, il centro-sinistra è subdolo. La destra vuole la supremazia ebraica e lo dice senza esitare e senza nascondersi dietro nessuno. La sinistra vuole e non vuole, vuole avere entrambe le cose, sentirsi bene con se stessa e anche essere nazionalista come la destra. Sosterrà la legge sulla cittadinanza, ma solo temporaneamente. Si opporrà a Evyatar, ma solo per le sue implicazioni internazionali. Il centro-sinistra non ammetterà mai qual è veramente la sua posizione, non perché lo stia nascondendo, ma perché non ha una posizione. Per cosa combatterà questo schieramento, cosa rifiuterà di concedere, indipendentemente dall’America? Nessuno lo sa, perché lo stesso centro-sinistra non lo sa.

Nella scelta tra i due è preferibile la destra. Non ci sono quasi differenze ideologiche, quindi almeno sapremo la verità, non importa quanto sia sconvolgente. Tra Shaked, che afferma impassibile che siamo razzisti e vogliamo essere razzisti, e Lapid e Michaeli che chiedono all’America di dirci cosa fare, è preferibile la prima. Tra sfacciataggine e ipocrisia, è meglio la sfacciataggine.

(Tradotto da Beniamino Benjio Rocchetto)   –   da qui

Legge israeliana e tortura: dai minori detenuti a una “stanza delle torture” in prigione – Mohammed El-Kurd

Il sole non era ancora sorto il 21 gennaio, quando 30 soldati israeliani hanno arrestato il dodicenne Ammar nella sua casa, nel deserto del Negev. Il suo presunto crimine: protestare contro la recente spinta verso un piano di rimboschimento finanziato dal governo – o “greenwashing”, come molti lo definiscono – che porterebbe allo sradicamento di migliaia di alberi beduini Palestinesi, per sostituirli con alberi di pino.

Ammar è stato rilasciato dopo alcune ore di detenzione e messo agli arresti domiciliari anche se, come hanno detto i suoi genitori, era a casa durante la protesta. Al Jazeera ha riportato che il ragazzino non ha detto una parola da quando è tornato a casa.

La storia di Ammar è soltanto una fra le tante vicende che si sono susseguite nelle ultime settimane. Secondo Adalah, un centro legale con sede a Haifa che lavora per proteggere i diritti dei Palestinesi, 150 Beduini Palestinesi (di cui circa il 40 per cento sono minorenni) sono stati arrestati con l’accusa di aver provocato “disordini” durante le proteste contro la loro espulsione dall’area. Il programma è guidato dal Fondo Nazionale Ebraico (JNF), un’organizzazione parastatale, e rappresenta soltanto l’ultimo capitolo dello sforzo coloniale per “far fiorire il deserto”, che dura ormai da decenni. Un deputato israeliano ha promesso che gli Israeliani avrebbero “esercitato la [loro] sovranità sul Negev.

Benché’ i Beduini Palestinesi abbiano coltivato e abitato le loro terre sin da prima della Nakba, i successivi governi israeliani si sono adoperati per espellerli e “trasferirli”, revocando nel frattempo i loro diritti sulla terra. I Beduini posseggono gli atti di proprietà delle loro terre ma, tutt’oggi, le autorità israeliane si rifiutano di riconoscerli, affermando invece che gli sforzi di rimboschimento si stanno svolgendo su terreni “di proprietà statale”, in questo caso di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico. Sul sito web dell’organizzazione, si legge che il Fondo è “il custode della terra di Israele, per conto dei suoi proprietari – Ebrei ovunque essi siano” – un ruolo che l’ha portato a piantare 86 delle sue foreste sulle rovine dei villaggi distrutti dai Sionisti.

Benché’ il Fondo Nazionale Ebraico abbia sempre sfrattato i Palestinesi dalle loro terre, ciò che rende questo momento particolarmente degno di nota, dicono gli osservatori, sono sia lo spirito di protesta dei Beduini, che il livello di violenza inflitto su di loro. Nelle ultime settimane, ci sono state numerose segnalazioni di manifestanti, residenti, bambini, e almeno un giornalista, picchiati e maltrattati dalle forze israeliane nel Negev. In un caso, i soldati israeliani hanno utilizzato sui manifestanti gas lacrimogeni, lanciandoli da droni precedentemente utilizzati solo nella Cisgiordania occupata, e nella Striscia di Gaza sotto assedio, sfatando il mito secondo cui i Palestinesi che posseggono un passaporto israeliano sono in qualche modo tutelati dalla violenza coniale del regime.

“Il livello di violenza utilizzato per reprimere le proteste [nel Negev] ha ​​dimostrato in pratica che i Palestinesi, indipendentemente dal loro passaporto, devono affrontare una valanga di forze di sicurezza israeliane”, ha scritto l’attivista Riya Al’Sanah su The Independent.

La violenza non si è fermata alla repressione delle proteste. Piuttosto, è continuata sotto forma di incursioni nelle case e detenzioni come quella inflitta su Ammar- una repressione che alcuni hanno descritto come una “guerra di logoramento”, volta a intimidire i Palestinesi e soffocare la loro resistenza all’espansione coloniale…

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Far fiorire il deserto? Come Israele sta facendo greenwashing con il furto di terre nel Negev – Jessica Buxbaum

Questo mese, i beduini nel Naqab (Negev) hanno affrontato i bulldozer mandati dallo Stato israeliano che tentavano  di impossessarsi della loro terra. La linea ufficiale dello Stato israeliano è che sta preparando la terra per progetti di “forestazione”, ma la gente del posto sostiene che l’iniziativa del governo per piantare alberi è semplicemente uno stratagemma per confiscare la terra alla popolazione nativa.

“Non siamo contrari a piantare alberi, ma non in questo modo”, ha detto Khalil Alamour, un attivista beduino. “Perché la forestazione qui è uno strumento colonialista, non per aiutare le persone”.

Alamour ha descritto come il Jewish National Fund (JNF), l’organizzazione sionista che guida gli sforzi di forestazione, ha spianato i campi di grano e orzo seminati dagli abitanti del villaggio.

“Non è per ‘far fiorire il deserto’ come hanno sempre affermato. È solo per sradicare i nostri alberi”, ha detto Alamour, sottolineando come nelle ultime settimane il JNF ha raso al suolo ulivi e fichi per fare spazio alle sue piantine di pino.

Attivisti beduini e gruppi per i diritti umani affermano che lo slogan simbolico del movimento sionista: “far fiorire il deserto”, è un inganno e le attività del JNF stanno effettivamente facendo il contrario.

L’anno scorso, l’organizzazione ambientale israeliana, la Società per la Protezione della Natura in Israele, ha portato il JNF davanti alla Corte Suprema dello Stato, sostenendo che la piantumazione di alberi danneggerebbe la biodiversità del Naqab. La Società ha perso.

Ma le foreste del JNF non sconvolgono solo l’ecosistema, ma anche l’economia locale.

“Storicamente il Naqab stava fiorendo. Milioni di dunam/km2 (più di 25.000 acri) sono stati coltivati ​​dalla comunità beduina”, ha detto Amir Abu Koider, un attivista beduino.

“In una società che si basa sull’agricoltura, l’allevamento e il pascolo, si stanno effettivamente spogliando della loro risorsa principale: la terra”.

La storia del “greenwashing” del JNF

Il JNF ha svolto un ruolo significativo nella colonizzazione sionista della Palestina. L’organizzazione è stata fondata durante il Congresso Sionista del 1901 in Svizzera e ha il compito di acquistare terreni in Palestina per l’insediamento ebraico. Il processo di acquisto veniva generalmente effettuato tramite proprietari assenti.

Negli anni ’20, tuttavia, i palestinesi erano estremamente consapevoli degli sforzi di colonizzazione del JNF e si rifiutarono di vendere la loro terra all’organizzazione. Questa circostanza  portò   il JNF a ricorrere a metodi più insidiosi per acquisire terreni, come reclutare palestinesi per acquistare appezzamenti per il JNF.

Per facilitare queste procedure, il JNF iniziò a tenere archivi dettagliati dei villaggi palestinesi destinati a futuri sfollamenti. Questi registri dei villaggi  furono  poi utilizzati dalle milizie sioniste quando con la forza  deportarono in massa i palestinesi dal 1947 al 1948 in quella che è conosciuta come la Nakba, o “Catastrofe” in arabo.

Dopo la Nakba , e da quando Israele fu ufficialmente istituito come Stato nel maggio 1948, il JNF ha sequestrato più del 70% della terra palestinese…

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Sfidare l’apartheid climatico di Israele in Palestina – Muna Dajani

Attraverso la sua partecipazione alla Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP26) del 2021 e altre conferenze internazionali, l’Autorità Palestinese continua a promuovere un approccio statale al cambiamento climatico che alla fine blocca la legittima giustizia climatica e ambientale in Palestina. Infatti, la dirigenza palestinese ha ridotto la lotta di liberazione palestinese, intrinsecamente una lotta per la giustizia climatica e ambientale, a un fallito progetto di costruzione dello Stato sin dagli Accordi di Oslo del 1993.

La giustizia è raramente affrontata in questi congressi e conferenze internazionali, lasciando i palestinesi confinati nella logica dei donatori internazionali che cercano di gestire l’occupazione invece di fare pressione su Israele per porvi fine. La normalizzazione e la depoliticizzazione dell’apartheid climatico di Israele caratterizzano l’approccio esistente per affrontare le questioni climatiche e ambientali della Palestina e devono essere contrastate sia dai palestinesi che dai sostenitori della giustizia climatica internazionale.

Normalizzazione è depoliticizzazione dell’apartheid climatico 

In Palestina, il quadro di costruzione della pace ha plasmato programmi di cooperazione che depoliticizzano le questioni ambientali e climatiche e, quindi, non riescono a interrompere le pratiche coloniali dei coloni israeliani. Infatti, iniziative finanziate da donatori come EcoPeace e l’Istituto Arava hanno utilizzato per anni slogan come: “l’Ambiente Non Conosce Confini” e “Riunire le Persone”. Fondamentalmente, queste iniziative servono solo a ignorare quella che è chiaramente una situazione di apartheid climatico e a promuovere il cambiamento climatico come un’altra arena in cui la cooperazione e il dialogo sono la risposta sostitutiva ad un cambiamento politico radicale.

Le organizzazioni ambientaliste palestinesi e i loro alleati hanno a lungo criticato queste iniziative per la normalizzazione e la legittimazione dell’occupazione israeliana con il pretesto di: sviluppo sostenibile, costruzione di fiducia e rendere più verde l’ambiente. Hanno evidenziato che, normalizzando e depoliticizzando il cambiamento climatico, queste iniziative promuovono l’idea che i problemi ambientali possono essere risolti solo con la tecnologia e gli incentivi basati sul mercato.

Il cambiamento climatico, tuttavia, non è un fenomeno naturale; è aggravato da decisioni politiche ed economiche. Nel caso della Palestina, gli effetti del cambiamento climatico sono influenzati ed aggravati dal colonialismo dei coloni israeliani e dal furto di risorse naturali. Ma invece di sostenere i palestinesi nella loro lotta per garantire i loro diritti sull’acqua, per esempio, l’Unione Europea e altri donatori internazionali hanno sottolineato per decenni il potenziale delle soluzioni tecniche per aumentare la disponibilità di acqua e risolvere la “carenza d’acqua” in Palestina.

Nell’ambito degli attuali meccanismi di finanziamento del cambiamento climatico, questo modus dannoso prevale. Ad esempio, il Green Climate Fund (Fondo Verde per il Clima), un meccanismo finanziario multilaterale dell’UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), sta attualmente sostenendo un progetto quinquennale incentrato sull’aumento della disponibilità di acqua per l’agricoltura sostenibile a Gaza attraverso l’uso delle acque reflue trattate. Questa è un’altra soluzione tecnologica che ignora e normalizza la realtà politica che Gaza deve affrontare a causa del paralizzante blocco e dell’assedio di Israele, che a sua volta la isola dal resto della Palestina in termini di risorse naturali e continuità geografica…

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“Più che meraviglioso”… La libreria di Gaza riaprirà dopo una campagna globale dal successo inaspettato -Alison Flood

Decine di migliaia di libri in dono hanno iniziato ad arrivare nella nuova sede della libreria di Gaza distrutta dagli attacchi aerei israeliani l’anno scorso, e il proprietario Samir Mansour ora prevede di riaprire i battenti il ​​mese prossimo.

La libreria Samir Mansour, ridotta in macerie lo scorso maggio, era stata fondata dal palestinese Mansour 22 anni fa ed era molto amata dalla comunità locale. La sua distruzione durante il conflitto di 11 giorni che ha ucciso più di 250 persone a Gaza e 13 in Israele, ha portato a una campagna per la sua ricostruzione che ha raccolto 250.000 dollari, oltre a donazioni di 150.000 libri. L’esercito israeliano ha affermato che il suo obiettivo non era il negozio,  ma l’edificio che lo ospitava, in quanto a suo dire conteneva una struttura di Hamas per la produzione di armi e la raccolta di informazioni.

Mansour si prepara ora a riaprire sia come libreria che come biblioteca, in una nuova sede a meno di 100 metri dal sito originale. Il nuovo edificio, che è costato 340.000 dollari, ha dovuto essere abbattuto e ricostruito e Mansour ha speso 70.000 dollari dei suoi risparmi personali costruendo scaffali in legno, piastrellando e installando forniture elettriche. Tutti i fondi generati dalla campagna, lanciata dagli avvocati per i diritti umani Mahvish Rukhsana e Clive Stafford Smith, sono andati al progetto, con il blocco imposto a Gaza che ha fatto aumentare i costi.

Rukhsana, avvocatessa americana per i diritti umani che lavora presso 3DC a Londra, ha affermato che le donazioni di libri sono arrivate da tutto il Regno Unito, oltre che dall’estero, con il primo container di 50.000 libri arrivato nella Striscia di Gaza la scorsa settimana. Seguirà la spedizione dei libri rimanenti.

“Ero così felice quando ho visto che la prima spedizione era arrivata… mi sono sentito come una fenice rinata”, ha detto Mansour. “Non mi aspettavo tutto questo supporto. E’ stato qualcosa al di là dell’immaginazione e qualcosa di più che meraviglioso”.

“Ha perso circa 90.000 libri nel bombardamento e il nostro obiettivo era raccoglierne 100.000”, ha detto Rukhsana. “Siamo stati immediatamente inondati da libri e da volontari che volevano donare tempo, furgoni, camion, denaro e libri”.

Un volontario di Peterborough, Rabea Zia, ha aiutato Rukhsana a gestire i 70 punti di raccolta di libri sparsi in tutto il Regno Unito; solo a Londra c’erano 20 punti di consegna.

“È iniziato nelle case dei volontari. Poi è diventata una sfida perché garage, cucine e soggiorni sono stati rapidamente inondati di libri. Alcune persone li hanno tenuti in drive in, ristoranti e caffetterie, anch’essi occupati rapidamente e che hanno dovuto essere sgombrati regolarmente”, ha affermato Rukhsana. “Abbiamo lanciato un appello per i furgoni. I volontari hanno preso in prestito dei furgoni e hanno iniziato a sgomberare le case. Sono stati affittati magazzini per accogliere il crescente numero di libri. Il nostro garage ad Ascot si è riempito velocemente di circa 30.000 libri. Altri 20.000 sono arrivati ​​dalla Scozia. Altri 20.000 da Leicester, Manchester, Croydon. E le piccole case editrici hanno donato nuovi libri».

L’avvocatessa ha detto che ogni volta che nasceva un nuovo problema, veniva trovata una soluzione. “Un’azienda cargo ci ha contattato tramite i social media e si è offerta volontaria per mettere i libri sui pallet e impilarli con dei carrelli elevatori in un magazzino. Da lì, un’altra meravigliosa azienda chiamata Awesome Books ha offerto volontariamente camion per il ritiro dai depositi in tutto il paese. Sono stati ordinati per genere e confezionati in contenitori di stoccaggio”, ha detto. “È stato impegnativo a causa della carenza di autotrasporti legata alla Brexit, ma tutti hanno lavorato insieme pazientemente. È stato incredibile vedere come una comunità globale si è riunita e ha voluto sostenere questo progetto. Oltre 4.800 donatori hanno donato denaro da tutto il mondo per sostenere i costi”. Rukhsana ha anche spiegato come i donatori siano stati incoraggiati a scrivere messaggi all’interno dei libri, lasciando i loro indirizzi e-mail in modo che i nuovi proprietari possano mettersi in contatto, se lo desiderano.

L’unica richiesta che Mansour ha fatto è stata per i libri di Harry Potter, molto popolari tra i bambini di Gaza. Molte persone hanno acquistato i cofanetti di Harry Potter da spedire, ha detto Rukhsana, con un volontario che ha venduto cupcake e prodotti da forno per un mese per raccogliere fondi per acquistare i set di libri di JK Rowling e Roald Dahl.

Un uomo di Santa Barbara ha speso oltre 300 dollari per spedire tre scatole di libri e altri libri sono stati spediti da Grecia, Francia, Italia, Emirati Arabi Uniti, varie città degli Stati Uniti e Singapore. “Abbiamo ricevuto numerose  richieste di organizzare raccolte di libri a livello internazionale. Abbiamo dovuto rifiutare perché avevamo superato rapidamente il nostro obiettivo”, ha affermato Rukhsana. “I volontari hanno lavorato fino all’una di notte guidando e ritirando libri e poi ci hanno ringraziato per essere stati coinvolti in modo tangibile”.

Il nome del negozio, quando aprirà il 12 febbraio, rimarrà lo stesso, Samir Mansour Bookshop. “Penso che la comunità sosterrà l’idea della nuova libreria, soprattutto perché è vicina allo stesso luogo che è stato distrutto”, ha affermato Mansour. “Siamo in una pessima situazione economica. Quindi speriamo per il meglio e vedremo cosa accadrà in futuro”.

Rukhsana ha detto che lei e gli altri volontari sono stati “davvero orgogliosi di vedere arrivare i libri a Gaza, a persone che hanno veramente bisogno di letteratura e di evasione.

“Quando gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato questa libreria, è stato un ulteriore attacco all’accesso della comunità alla conoscenza. Questa campagna è stata un gesto di solidarietà, un tentativo di restituire dignità e diritto fondamentale ai libri”, ha affermato. “Il supporto globale su larga scala è stato inaspettato. Inaspettato è stato anche l’intenso desiderio di tante persone  di voler essere coinvolte in modo tangibile  in un’azione giusta”.

(Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org)

da qui

Il silenzio degli israeliani ha permesso la violazione dei diritti umani. Tutto questo deve finire – Zehava Galon

Dopo oltre 70 anni di voluto silenzio, gli ex combattenti della Brigata Alexandroni, che diffamarono e denunciarono il ricercatore Teddy Katz per aver rivelato il massacro due decenni fa e, in un’ingiustizia che grida al cielo, lo portò alla spoliazione del titolo accademico, ora hanno ammesso in un documentario di Alon Schwarz che c’è stato davvero un massacro a Tantura. Inoltre, i documenti delle Forze di Difesa Israeliane mostrano che una fossa comune è nascosta sotto il parcheggio della spiaggia di Dor Beach.

Il cuore trema. Una fossa comune, un termine a noi familiare da altri luoghi in cui furono sepolti i nostri antenati, fu scavata da soldati ebrei. E in seguito, un’intera rete di organizzazioni ebraiche coprì il misfatto, lo nascose sotto il tappeto, lo insabbiò e lo cancellò.

Il Paese ha subito un ulteriore sconvolgimento la scorsa settimana dopo che Tomer Ganon del quotidiano Calcalist ha riferito che la polizia ha utilizzato il programma spia Pegasus per monitorare gli attivisti politici e ha persino contrassegnato uno di questi attivisti come vittima di estorsioni a causa del suo orientamento sessuale. I veterani dell’Unità 8200 dell’IDF ci hanno avvertito sette anni fa che il SIGINT (Spionaggio di Segnali Elettromagnetici) dell’Unità è usato proprio per questo scopo: contro i palestinesi. Ci hanno avvertito, ma siamo rimasti tutti in silenzio.

Eppure qualcuno nell’Unità SIGINT della polizia non poteva più rimanere in silenzio e lo ha riferito a Calcalist. Grazie a quell’agente, ora sappiamo come la polizia ha tradito la fiducia del pubblico.

Yuli Novak, ex direttrice esecutiva di Breaking the Silence, ha descritto entrambi nel suo libro in lingua ebraica “Mi At Bichlal?” (E Comunque, Tu Chi Sei?) e in un’intervista con Haaretz versione ebraica del 21 gennaio, come una campagna di incitamento guidata dall’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dal futuro Primo Ministro Naftali Bennett ha trasformato la sua vita in un incubo. La gente l’ha minacciata e aggredita fisicamente, al punto che ha sentito di dover fuggire dal Paese. Il suo crimine è stato aiutare i soldati israeliani a parlare di ciò che lo Stato chiede loro di fare con il pretesto di proteggere la nostra sicurezza.

Da allora, una generazione di soldati è stata inviata a svolgere il lavoro dell’occupazione e, quando vengono smobilitati, lo Stato chiede che dimentichino. Perché se ricordano, lo Stato li trasformerà istantaneamente da “i migliori dei nostri figli” in traditori.

Israele ha sempre considerato i suoi cittadini come strumenti che potevano essere usati e gettati via. Ai sopravvissuti all’Olocausto che immigrarono qui negli anni ’40 e ’50 fu chiesto di tacere. Se non lo facevano, venivano scherniti, oppure chiamati “sapone” (ancora una volta, il cuore trema) o “rifiuti umani”.

Solo quando Israele ha processato Adolf Eichmann gli fu permesso di parlare pubblicamente. Da allora li ha usati per mantenere viva la memoria dell’Olocausto, ma allo stesso tempo li ha abbandonati a se stessi.

Ai soldati, fin dai tempi in cui Uri Avnery pubblicò il suo libro “The Other Side of the Coin” (L’altro Lato Della Moneta), che descriveva le atrocità della Guerra d’Indipendenza (e che poi fu pubblicato in inglese come la seconda metà del suo libro “1948”), fu sempre chiesto di tacere su ciò che è stato fatto loro e anche su ciò che hanno fatto. Ma non possiamo continuare a vivere sopra una fossa comune.

Dobbiamo rompere il silenzio e tenere e una conversazione ardua e onesta con noi stessi, per capire da dove veniamo, quello che abbiamo fatto, cosa stiamo ancora facendo. Solo allora sapremo dove stiamo andando.

Ogni persona ha il diritto fondamentale al riconoscimento come fine piuttosto che come mezzo. Questo è il fondamento dei diritti umani, e i diritti umani non discriminano tra diversi esseri umani. Quando chiediamo ai funzionari pubblici di tacere, li priviamo della loro natura fondamentale di esseri umani e li trasformiamo in strumenti.

“Se un cuore non è né chiuso né corrotto”, diceva la famosa sentenza nel caso del massacro di Kafr Qasem del 1956, identificherà la bandiera nera che sventola sui crimini di guerra. Ma troppe istituzioni e individui qui hanno chiuso e corrotto i nostri cuori.

Il risultato è una continua violazione dei diritti umani la cui cessazione è impedita dal nostro silenzio. E come mostra lo scandalo di Pegasus, tali violazioni superano facilmente dei confini che non dovrebbero essere oltrepassati. Tutto questo deve finire.

Zehava Galon è un politico israeliano, membro della Knesset (Parlamento) dal 1999 al 2017. È stata la presidente del partito politico Meretz dal 2012 al 2018, quando aveva da cinque a sei seggi alla Knesset.

(Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org) –  da qui

NOTA DELLA BOTTEGA SULLE IMMAGINI

Tutte le vignette, tranne la prima di Carlos Latuff, sono di Enzo Apicella: è il nostro modo di ricordare un compagno morto a ottobre 2018 (cfr E’ morto Vincenzo Apicella)

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Partita la ICE (Iniziativa Cittadini Europei) #StopSettlements: è possibile firmare per il blocco del commercio con gli insediamenti illegali. Per farlo e avere ulteriori informazioni andate qui: stopsettlements.org  
    Basta affari con le colonie, è tempo di regolamentare le transazioni commerciali dell’Europa con entità basate su territori illegalmente occupati secondo il diritto internazionale. Ovvero di impedire l’ingresso nei mercati dell’Unione dei prodotti provenienti da colonie, ovunque si trovino. È partita il 20 febbraio la raccolta firme, lunga un anno, con cui una rete di oltre 100 organizzazioni non governative europee e internazionali, movimenti di base e sindacati chiede all’Unione europea coerenza. Si chiama Iniziativa dei Cittadini europei, e non è una semplice petizione: se paragonata al sistema legislativo italiano, è una sorta di legge di iniziativa popolare. Ovvero uno strumento di democrazia diretta con cui i cittadini dell’Unione possono muovere una proposta legislativa alla Commissione, in qualità di – si legge nel testo dell’Ice – «Guardiana dei Trattati» e dunque responsabile della «coerenza delle politiche dell’Unione e il rispetto dei diritti fondamentali».
    A promuovere l’iniziativa è il Coordinamento europeo per la Palestina (per contatti: iniziativacittadinieuropei@gmail.com). Con un obiettivo importante: un milione di firme da raccogliere entro un anno in tutti i Paesi della Ue (ognuno con una soglia da raggiungere, pena la non ammissibilità dell’intera ICE: per l’Italia un minimo di circa 58mila firme) perché la Commissione europea discuta del blocco dell’importazione e dello scambio di merci con tutti gli insediamenti illegali costruiti in territori occupati, da quelli israeliani nei Territori palestinesi a quelli marocchini nel Sahara occidentale. Si chiede dunque di fornire un quadro normativo applicabile a tutte le occupazioni e non a casi specifici (per i quali si opera con sanzioni mirate), sulla base di quanto dettato dal diritto internazionale che considera la colonizzazione di un territorio occupato crimine di guerra. «La Ue considera gli insediamenti illegali un ostacolo alla pace e alla stabilità internazionali. Nonostante ciò la Ue autorizza il commercio con tali entità. Un commercio che genera profitto dall’annessione e che contribuisce all’espansione di insediamenti illegali nel mondo», spiega la campagna.
    Per l’Italia, tra i tanti promotori dell’iniziativa ci sono Cobas, Fiom-Cgil, Arci, Assopace Palestina, Cospe, Libera, Medicina democratica, New Weapons Research Group, Ebrei contro l’occupazione, Fondazione Basso, Un ponte per, Cultura è Libertà. Potete trovare la lista completa, italiana e internazionale, su stopsettlements.org, dove ogni cittadino e cittadina italiani può depositare la propria firma.
    Vedi anche l’articolo di Chiara Cruciati: «Basta affari con le colonie, ovunque si trovino» (https://ilmanifesto.it/archivio/?fwp_author=Chiara%20Cruciati)

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