U juornu du burru (Il giorno del burro)

un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo

1

Giorno proverbiale. Grotteria ne ha riso per anni. Potete riderne anche voi. Sono sicuro troverete il resoconto (riporto quanto mi è stato detto) nello stesso tempo edificante ed esilarante. Abbiate la pazienza d’ascoltarmi alcuni minuti.

2

Anche se c’è ben poco da ridere. La giornata epica, gli attori disfatti, delusioni ed entusiasmi spartiti statisticamente in ugual misura: il che vuol dire che qualcuno dovette contentarsi della gramigna della delusione; ed altri furono contentati dalla sorte (e da sé stessi) al punto d’entusiasmarsi.

Purtroppo non ci sono stati abbastanza coraggiosi da affrontare i problemi di cronaca. Mettendomi perciò stesso in grado di costituire un parterre d’opinioni tale da consentire una ricostruzione degli eventi esatta e significativa. Le passioni smodate che caratterizzano gli abitanti del luogo e dei luoghi vicini, i quali amplificano e mettono la sordina ai casi della vita a seconda la loro implacabile considerazione, hanno fatto il resto. Alterare e drammatizzare e nascondere e diminuire ed esaltare tutto al punto che anche il più fedele compendio ne risulta stravolto. Mi contento di riferire lo spirito epico che spirava da ogni ricostruzione. Nonché esporre alcuni episodi significativi che sono riusciti a superare l’oblio con cui i decenni nascondono tutto. E uscire indenni (oddio, indenni!) all’arbitrio dei tanti narratori improvvisati che, verba volant, si sono cimentati nell’impresa.

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Gli episodi. Uno in particolare. Il più utile al racconto. Quello importante di un rude per finta (molti grotteresi, gratta gratta, si potevano annoverare in tale categoria) che fu corresponsabile del danno della moglie indugiando nel tentare di ottenere quanto gli spettava da un creditore riottoso che gli fece solo perdere tempo.

Costui, il debitore, un ridanciano oratore della malora, lo accolse festosamente, seduto davanti alla tavola addobbata per la prima colazione.

Non diede tempo a Zio Antonio (questo il nome del nostro primo eroe) detto anche Ziàntoni di aprire bocca. Sollevò dalla tavola un enorme grappolo di uva, bello giallo maturo che faceva venire l’acquolina in bocca al solo guardarlo e con voce roboante recitò:

Mi staju mangiando na pendula i racina!” (mi sto mangiando un grappolo d’uva)

Caspiterina. Quasi fosse l’unico nel mondo in grado di farlo. Al che Zio Antonio, dopo aver debitamente apprezzato, ricordò all’ospite quel che riteneva gli spettasse ricevere. Non quella recita da teatro omerico, apprezzabilissima quanto si vuole, ma non in grado di sfamare i suoi otto figli quando costoro avessero aperto la bocca cinguettando come tanti uccellini con la pretesa di essere sfamati.

Domani” promise l’eroe e attore omerico. “Domani mujjerima ritira la pensione e vi pago.”

Zio Antonio non credette una parola della facile promessa. Erano mesi che veniva liquidato più o meno con il medesimo argomento; ma rassegnato come solo sanno essere coloro che da generazioni sono liquidati con suoni vuoti di verità (nel migliore dei casi: nel peggiore a bastonate) si rassegnò a salutare e andarsene.

Aveva tuttavia perduto i pochi inopportuni minuti che provocarono la mezza disgrazia della moglie.

4

Uscendo dalla casa del glorioso mangiatore di “penduli i racina” andò quasi a sbattere con una femmina che correva affannata verso San Domenico. Si bloccò appena in tempo. Lo stesso ricevette quel che meritava.

Hiiii! E staciti attentu!” (state attento!)

Fu costretto a scusarsi.

Perdunati cummari, ma ‘ndaju na raggia!”

Chi vi succedì, cumpari?”

Nenti cunjhiudivu, nenti!” (niente ho concluso, niente)

Zio Antonio spiegò l’inconveniente del giorno, che era inconveniente di molti giorni. E così perse altri minuti preziosi.

Cu certa genti, sulu i scupettati…” (con certa gente solo colpi di doppietta) commentò la donna salutandolo. Andava proprio di fretta.

5

Aveva appena saputo che quella mattina era previsto venisse distribuito gratuitamente tra la popolazione una certa quantità di burro. Chi diceva un chilo, chi mezzo e chi ci metteva anche na cujura i pani (ciambella di pane).

La buona donna temeva d’arrivare tardi, a distribuzione avvenuta. Arrivata sulla piazza trovò invece una folla enorme, vociante, entusiasta e nello stesso tempo irritata. Irritata dal troppo lungo attendere. Una folla composta per lo più da donne, che sono le peggiori quando si tratta di fare gruppo. Senza perdere altro tempo con i convenevoli d’obbligo, passano subito al sodo. Cioè tagliare e cucire addosso al prossimo se si trattava di tagliare e cucire. Di oliare e avviare le macchine del buon vivere, se queste minacciavano di incepparsi. Mettere in riga i riottosi che s’allontanavano troppo da ciò che era considerato giusto e conveniente. E persino, in un batter d’occhi, combinare matrimoni, ricomporre fratture, organizzare il soccorso di vecchi, malati e inappetenti. Che tali erano coloro che passavano le giornate senza mangiare, perché non ne avevano.

Le pazze – che già l’umore volgeva in quella direzione, la pazzia – s’agitavano in un modo che minacciava addirittura di diventare furia. Irascibile voglia di menare le mani.

Al principio fu solo un interrogarsi a vicenda: quanto manca, quanto non manca, tenetevi pronta che fra un po’ si comincia, attenta che nessuno vi passi avanti. E chi avrebbe osato con chi era già ben in prossimità della follia? Seguirono le prima frasi contro l’arciprete, che mostrava di non tenere in alcuna considerazione “il popolo”, cioè loro. Il quale Arciprete, a dirla tutta, mai si sarebbe sognato che l’opportunità di far del bene, smuovendo tutta quella gran messe di gente, si sarebbe trasformata in male. Dovette ricredersi. Il vocio, le critiche aperte, date a voce sempre più alta, arrivarono fino a lui che chiuso nella canonica, ascoltava esterrefatto.

Ju Cazzu!” la prima che udì. “E quantu ci faci aspettari!”

Con un seguito in crescendo che lo indusse a sudare freddo:

Pari ca u faci apposta! Chi cazzu i previti ‘ndavimu!” (pare che lo fa appaosta! Che cazzo di prete abbiamo!)

Ed eu che ‘ndaju a me marito chi non staci bonu!” (E io che ho il marito malato)

Ca se mi faci muntari i cazzi a mia ‘ndavimu c’arridiri!” (che se mi fa incazzare a me, avremo di che ridere!)

Ancora na para i minuti, intru ‘nta chiesa, u pigghiu pa tonaca e lu levu strascinuni!” (ancora un paio di minuti, entro in chiesa, lo prendo per la tonaca e lo porto in giro trascinando)

Ed eu u pigghiu pe tripi du culu e u jettu all’anca all’aria…” (io lo prendo per le chiappe e lo getto in aria!)

Udendo siffatte solide intenzioni il poveretto dovette pensare che s’era ingannato tutta la vita credendo l’esser meglio aver a che fare con le congerie di pie donne che sempre affollavano la chiesa piuttosto che con gli atei scomunicati dei mariti loro! E come infatti, da un signor marito ricevette soccorso, un vedovo ancora giovane, ma che avendo ritenuto più opportuno “mangiari pani e cipuja” che i deliziosi manicaretti ch’erano solite preparare le buone mogli, se la passava da gran signore, passeggiando per la via, motteggiando a tutto spiano ed essendo sempre della partita quando ce n’era una da giocare. Vestiri vestiva alla buona, campando nel pieno di un disordine che faceva venire i brividi anche ai disordinati. In compenso poteva vantarsi d’essere uomo libero, di fare e disfare a suo arbitrio. Alzando il gomito finché gli pareva e facendo ridere il prossimo quando gli saltava il ticchio di farlo. Ed in verità, per un momento riuscì ad acquietare le marescialle che formavano la prima linea dello schieramento del popolo in attesa. Attirando su di sé le ire e scatenando subito dopo la lotta di tutti contro tutti.

Ma comu” esordì. “Non basati u curduni all’arcipreti?”

U scustumatu chi siti! Puh! porcarusu! Pe’ la faccia vostra!”

Bonu, bonu, u sacciu chi siti fimmani onorati. Dicivu accussi, pe’ l’arrisa. Pemmu mi scialu e mu vi fazzu scialari. Uguali u cumpari Natu che propetamente sempre sa sciala.”

Dassati stari a marituma!”

E pecchì? Tantu rispettu doppu cu u vittaru ‘ntà na cunetta cu na Giuiusana!”

Ma comu vi permettiti. Me marito è omu onorato, omu i famigghia, non unu che vaji appresso i magari!”

Sacciu cu è e cu non è vostru maritu? Riportu chiju chi dissaru a mia.”

Spiuni e malidittu. ‘Ndavarria mu vi sciancu i facci cu l’unjhi?” (spione maledetto! Dovrei graffiarvi la guance a sangue!)

A mia! E che vi fici? U cumpari Natu fici. Assà fici.”

Va, va jiti. Ca non sapiti chi stati dicendu.”

Chissà come, forse a causa della spasmodica attesa del burro, la coorte delle pie donne lo perdonò. Rapita ancora dalla prospettiva, non del tutto svanita, di avere un bel po’ di burro, lo lasciò cuocere nel suo brodo. Di malmenare l’arciprete, per un po’ non si parlò più.

6

Quella mattina, alle prime luci dell’alba, una notizia straordinaria aveva messo l’intero paese a soqquadro.

Da lontano si udì la trombetta du Bandituri e subito dopo uno dei suoi cantilenanti avvisi. Che suonavano più o meno in questo modo (tra smorfie, sbattere d’occhi, ondeggiamenti e scatarri vari): C’arrivaru malunaaa / abbasciu a piazzettaaa / a trenta lira o chiluuu.

Trenta lire al chilo. Corri corri corri, prima che finissero. Per quanto si corresse, metà delle maratonete rimaneva senza.

Oppure: Tutuuu! Tutuuu! C’arrivau u pisciii / abbasciu a piazzetta / a tricentu liri o chiluuu.

Corri corri, ma sempre un po’ meno di corsa, non erano in tanti a disporre della cifra, lo stesso qualche ritardataria se ne tornava a casa con le pive nel sacco.

Quella mattina, quella speciale mattina, l’avviso fu di tono diverso. Il banditore non nominava la piazzetta e nemmeno il costo della merce. Diceva solo che l’arciprete aveva organizzato una distribuzione di burro per tutta Grotteria.

Quel che accadde allora è molto sopra la mia capacità di descrizione. Solo darne una idea approssimata è fatica improba. Ma ci proverò. Memore, in piccolo parte, dell’antico entusiasmo che mi vide coprotagonista, anche se da lontano.

E allora parlerò degli entusiasmi, delle grida, dei richiami che si ricorrevano da finestra a finestra, le esclamazioni e il vocio crescente: curriti, curriti! u burru! U burru! regalanu u burru! L’accipreti, benedittu lu Signuri, o rigala a popolazioni! Come se, quasi che, tutta quella gente che sapeva del burro solo per averlo sentito nominare, ne fosse ancestralmente golosa e bisognosa di consumarlo.

E mentre la seduzione del gratuito diventata sedizione, con la fame che trovava un’altra linea di soccorso! piazza San Domenico si riempì di gente, tanta che riunita insieme non si era mai vista. U burru! U burru! La piazza di San Domenico con l’avvento del burro trovava un altro maniera per rendersi utile, diversa da quella solita domenicale e nelle feste comandate, di ospitare la gente in cerca di conforto religioso.

U Burru! U burru!

E burro sia!

7

Chi poté, lasciò perdere quello in cui era impegnato e andò a disporsi in fila, o meglio in massa, sperando di occupare buoni posti. Altri attesero in fretta alle loro faccende e, anche loro, buoni secondi, cercarono posto tra i fortunati che sarebbe stati gratificati per primi. E via va, tutti gli altri, mentre la voce si spargeva, entrava nelle botteghe dei barbieri, nei bar, nelle scuole e persino dentro il comune. Dal quale loco partirono le prime critiche all’opera dell’arciprete. Acciprete, secondo alcuni.

Anzitutto perché non si era degnato di avvisare, le autorità per prime, che cavolo! E l’ordine pubblico, allora? Poi la palese negligenza con la quale la distribuzione era stata proclamata. Bisognava avvisare per tempo, dare modo alla gente di prepararsi a quella sorta di mobilitazione generale. E bisognava fornire i criteri, suddividere la popolazione in categorie di accesso al bene. Per esempio, domenica – per dire – quella con il cognome dalla A alla D; lunedì poi quelli dalla E alla G; e infine, giorno dopo giorno, tutti i restanti. Precisando che le quantità sarebbero state graduate utilizzando criteri oggettivi. Quali il numero dei membri la famiglia, alle più numerose dosi più grandi; e alle ricche ancora più grandi…

8

Ma torniamo a noi. All’attesa spasmodica della benedetta distribuzione… vi prego, fate lo sforzo di immaginare l’impossibile. La folla gremita nello slargo davanti alla chiesa di San Domenico, il più vasto del paese. Più grande persino di quello che apre la serie delle case, innanzi la Chiesa del Santissimo Crocifisso. Immaginate il brulicare della folla, una folla che solo nella ricorrenza pasquale era dato vederne di simile (ma non l’uguale). Il brusio. Il luogo. Il vasto sereno del giorno; e l’aria pura di sempre, gli eventi e le persone. Insieme al vociare allegro o irato del tumulto incipiente, lo sguardo che s’ostinava a indugiare sulla prospettiva lunga che portava al mare, al meraviglioso mare dall’ora, un mare eroico, anche lui eroico, senza macchia e senza paura. Mentre le comari continuavano ad affluire e s’informavano se effettivamente era previsto che. Dialoghi brevi tipo:

Cummari mia pari ca sì. Ieri ad Antonimina dettaru menzu chilu a famigghia. Puru a Rucceja. Adesso, se Dio vuole, lo daranno anche a noi.”

Mezzo chilo di burro, ma come è possibile?”

Sacciu comu? Pari anche a mia impossibile. Ziatantu u dettaru…”

Delle distribuzioni a Roccella Jonica e a Antonimina non so dire, di Grotteria posso perché quel burro ho assaggiato. L’ha preso per noi, mia madre ed io, un vicino di casa, U Bedalatu, Dio l’abbia in gloria. Ora è morto. Si avvicina sempre più il giorno che lo potrò ringraziare più di quanto, ancora in terra, lo ringraziai al tempo vero della distribuzione. Che non so dire quel che fu per noi. Credo comunque che il Bedalato abbia capito, essendo la condizione sua non diversa dalla nostra.

9

Ed ecco, finalmente ci siamo, quasi a un passo dal giorno del burro. Se non proprio nel pieno della vicenda almeno vicino abbastanza da cogliere l’essenziale. Il nervosismo crescere. Le prime lamentele. Le braccia incrociate, le quali dicono molto sull’evolvere della situazione. Non soltanto il burro non arrivava, ed erano molto ore che le pie donne aspettavano. Per di più nessuno che si affacciasse sul sagrato per informare il popolo in attesa.

Anticipo un segreto che allora fu tale, ma che più tardi diventerà segreto di pulcinella. Che l’acciprete, finalmente consapevole dell’errore commesso, tentò di contattare i carabinieri, perché l’aiutassero in quel tragico frangente nel quale non poteva contare né sull’aiuto di Dio, non sulle preghiere, né sulla devozione delle donne. I quali carabinieri, inferociti per essere stati scavalcati brutalmente, non solo rifiutarono di intervenire, ma lo maltrattarono pure. Cosa gli veniva in mente di chiedere l’irresponsabile? Dopo aver smosso la marmaglia? che il locale Comandante della Stazione inviasse la totalità delle truppe disponibili, due corpulenti padri di famiglia, ad affrontare una folla inferocita di migliaia e migliaia di persone? Grotteria all’epoca faceva ancora un diecimila abitanti, glielo rammentarono, novemila dei quali era probabile si spolmonassero davanti alla chiesa. Lui aveva fatto il danno, provvedesse lui a ripararlo!

Il povero prete si vide perduto. Immaginò l’esercito delle donne che invadeva la chiesa. Il suo nome oltraggiato e maledetto. In ogni punto del paese dove due o più si riunissero, si riunivano per infamarlo. Nei vicoli, all’interno delle putiche (botteghe), nei crocchi delle comari, all’alba e al tramonto, prima di chiudersi in casa e attendere al meritato risposo, avendo ritirato sedie e sediole sulle quali se n’erano rimaste assise tutto il santo giorno per sputare veleno. E persino all’uscita della messa, la domenica mattina, sotto i suoi stessi occhi (ju cazzu!), a portate delle orecchie di un sempre più avvilito arciprete, che constatava amaramente la sconfitta, dopo che aveva quasi gustato il dolce sapore del trionfo. Essì, si fa presto a dire, venite, regaliamo burro, come si trattasse di inserire quel burro nelle bocche aperte e pronte di mezza Grotteria (se non tutta). Appartenevano forse a uccellini quelle bocche? E preti e diaconi erano forse amorevoli madri, il verme in bocca che accorrevano a nutrirli? Migliaia e migliaia di madri amorevoli…

Non è vero, comunque, anche questo segreto rivelo, che fosse stato afferrato per la tonaca e trascinato per tutta la piazza davanti a una popolazione inorridita, ma anche divertita.

10

L’ora fatidica, che definisce l’orrido giorno, finalmente arriva. Arriva il camion con il carico di burro. Che non stava, come tutti credevano, già nella disponibilità del prete. Il quale a sua volta aveva dovuto attendere i comodi del conducente del camion. Che a tutto sapeva resistere, anche alle tentazioni della carne, non però alle seduzioni di un bel bicchiere di vino. Per cui era solito fermarsi a ogni osteria davanti alla quale si trovasse a passare. Fermava il camion, scendeva, ne sorseggiava uno, anche due e riprendeva il cammino.

Arriva il camion, dunque. E si sparge la notizia dell’arrivo.

Un ennesimo urlo allora sale dalla folla. U burru! U burru! Arrivà u burru. Purtroppo dal lato apposto a quello della chiesa, edificata su uno slargo in prossimità della statale. Arrivò strombazzando suoni sgraziati e promesse. Come un sol uomo (meglio come una sola donna) la folla voltò le spalle e corse incontro al camion, che aveva appena appena superato il Vecchio Municipio. Si realizzò allora il dettato evangelico. Gli ultimi divennero i primi e i primi furono declassati a ultimi. Non senza proteste, spintoni e veementi tentativi di guadagnare le posizioni perdute. Si formò allora un pigia pigia tipo quello raccontato nella Secchia Rapita di Alessandro Tassoni. Che ha la sua vittima non in una donna, come nel giorno di Grotteria, giorno del burro, ma in un uomo, tale medico Cavalca (canto Decimo, ottave da 50 a 57).

Inutile insistere. Fu una strage. Svenimenti, malori, donne calpestate, liti furibonde, un anticipo della futura Terza Guerra Mondiale.

11

Tra le vittime una certa esile ma efficace fattrice (BEN OTTO FIGLI), malaticcia (e si capisce, dopo tanto figliare!) tale Concettina Bruzzese, moglie del già citato Ziantòni. Dovettero riportarla a casa semisvenuta, poverina. Schiacciata dalla pressione di mille corpi, proprio mentre stava cadere priva di sensi, fu salvata da uno sconosciuto, nessuno osò farne il nome, che provvide ad afferrarla per la vita e tenerla in piedi. E tenendola in braccio la portò fuori dalla ressa. Da lì, dolenti e piangenti altre comari e compari (mentre il salvatore si dava alla macchia), la riportarono a casa sdraiata su una coperta. Nella quale non cessò mai di piangere. Non tanto per lo svenimento e qualche gomitata rimediata non si sa come; o per la pignatta che si ruppe in cadendo in terra; ma per non essere riuscita ad avere la sua razione di burro.

A dirla tutta non fu l’unica a restare senza. Il disordine della distribuzione diede luogo a molti abusi e parecchi si misero in fila anche tre volte (con un famigliare sempre diverso); per cui vi fu chi ne ebbe da riempirsi la panza e chi fu costretto a guardare. Ben presto il burro finì e allora sì, il tumulto. Si fermò una banda di delusi decisi a recarsi al vicino comune e dargli fuoco. Furono dissuasi dai due corpulenti padri di famiglia, comunque inviati dalla stazione dei carabinieri; nonché da altri elementi di rinforzo convogliati su Grotteria dai paesi circostanti. Previggenti, questi carbonieri.

12

La storia è finita. Vi sia piaciuta o meno, la lapide dell’oblio è pronta a seppellirla. Comunque ritengo si sia conclusa più che bene, con quell’edificante tripudio di fuochi d’artificio finale. L’assalto al camion, la folla impazzita che muoveva verso il Comune, qualche poveretta e qualche poveretto che dovettero ricorrere alle cure del medico; e le gomitate, le furberie, le donne che si prendevano per i capelli e le voci che si alzavano per vanamente tentare di placare gli animi.

Finì, beneficiando tanti e tanti…

Il primo bene dei quali fu l’autista del camion, che mai più si concesse soste fuori ordinanza nell’esercizio delle sue funzioni. Bastò a convincerlo la folla di assatanati che gli andò incontro al grido di “u burru! U burru!”. Spallidì. Temette forse un linciaggio; o d’essere preda di una crisi etilica. Giurò che mai più avrebbe dato retta alla sua amante preferita, il potentissimo Savuto di Cosenza. Perseverò, è vero, negli incontri clandestini nella cantinetta dove era sicuro di trovarla (a ettolitri) l’amante sua, dicono se ne facesse cinquanta bicchieri a sera; durante il giorno, parco e parsimonioso neppure un goccio, un assaggio, neppur un fissare estatico il liquido rosso gorgogliante che scendeva nel bicchiere.

Meno bene finì per l’arciprete che, guardato in cagnesco, insultato e molto criticato, chiese e ottenne il trasferimento ad altra sede.

Positive le conseguenze sulle decisioni del salvatore di Concetttina, che ritenne opportuno cambiare continente. Forse aveva manijatu un po’ troppo. E si trasferì in fretta, dicono in quel di Zanzibar, nel posto più improbabile riuscì a reperire. Fece del suo meglio anche lì, accumulò notevoli somme di danaro e, alla dipartita di Zio Antonio, se ne tornò al paese per sfoggiare l’agiatezza acquisita. Non che se ne vantasse. Al contrario, quando gli chiedevano, tendeva a diminuire, a sottrarre, a dire che lui aveva appena il sufficiente per vivere. Ma lo diceva in un modo che gli interlocutori credevano invariabilmente il contrario. Che ne avesse troppi per poterli dichiarare.

Per quanto riguarda le donne che avevano manifestato intenzione di passare a vie di fatto con l’Arciprete, e si vantarono pure d’averlo fatto, so d’una che ebbe a che dire anche con un sacerdote della località in cui si trasferì. Ma escludo lo abbia preso per le chiappe e scaraventato in aria, come da programma; interessata più a far del bene al prete, che a fargli del male. Lo afferrò da ben altri parti!

13

Non resta che rendere conto dello Zio Antonio e di Concettina. Il quale Zio Antonio sopraggiunto tardi sulla piazza, cioè a ressa conclusa, informato sui fatti, si mise a urlare improperi contro la moglie e a minacciarla che, se non era morta, avrebbe provveduto lui ad ammazzarla. Ia cazza! Per un po’ di burro!

Qualcuno sostiene sia strappato una ciocca di capelli. Si sciappau, dicendo.

15

Non l’ammazzò, naturalmente. Neppure un rimprovero osò formulare.

Non appena arrivato a casa, bene intenzionato quantomeno a gridare “ti staci beni, ti staci. Così impari!” vedendola lamentarsi pallida, un tremito che le scuoteva ancora le mani, cadde in ginocchio, si prosternò.

“‘Ntoni, ‘Ntoni arrivasti…” la udì sussurrare.

Allora scoppiò a piangere e piangendo pronunciò le seguenti parole (che conosco perché, per anni, non fece altro che ripeterle):

Concettina mia, non mi dassari! Senza i tia non pozzu stari.” (Concettina mia, non mi lasciare. Senza di te non riesco a stare!)

Anche un poco poeta, il nostro Ziantòni. Gli era uscito un bel distico!

Col quale Ziantòni però non era possibile rievocare i clamori del giorno del burro, poiché subito dava di matto, insolentendo l’acciprete e sostenendo che, se mai, toccava a lui mettere a posto l’indegno, a causa della cui dabbenaggine aveva rischiato di perdere Concettina sua. E come avrebbe potuto andare avanti con due figli piccoli e sei già grandicelli, senza l’aiuto di una donna?

Come fanno tutti, cumpari. Trovandovi una nuova moglie!”

In casa mia una seconda non ci entra. Giuru sull’amina mia, cummari. Una, una sula!”

Anche drastico Zio Antonio!

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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