Umanità

 

La tentazione di rivedere il suo viso è forte, vado a riguardarlo in un’intervista. Sorrido al suo modo buffo di pronunciare quella erre in contrapposizione alla sua corporatura forte, ai suoi tatuaggi e al suo coraggio.
Mi torna alla mente quanto poco ci volesse per sentirsi coraggiosi nel leggere le notizie riportate sul suo blog.
Mi chiedevo, spesso, dove si fosse trovato a scrivere e quante volte doveva essersi guardato intorno con circospezione. Forse aveva preso appunti appoggiato malamente su un piano di fortuna, forse si era accostato a un muro percorrendo una qualunque stradina di Gaza. Non riuscivo ad immaginare bene dove, come o quando, ma ero certa che lo facesse presto,anzi subito, prima di dimenticare quei dettagli che riteneva doveroso raccontare e portare alla luce per gli occhi di un mondo che ostinatamente abbassava le palpebre di fronte a quanto producesse impotenza ma, soprattutto, vergogna. Lo immaginavo accendersi per l’ennesima volta la pipa, finito di appuntare quanto poi avrebbe pubblicato sul blog o inviato a una redazione.
Esponeva tutto meticolosamente e non tralasciava di riportare anche il pianto di un bambino e la sua paura, la disperazione di una madre o di un compagno privato della persona amata con la quale aveva affrontato giorni e giorni di una vita difficile da tanto, troppo tempo.
Sì, davvero ci voleva poco ad essere coraggiosi, partecipi e quasi noi stessi meritevoli di plauso.
In ogni suo articolo o intervista si era raggiunti da un amore ostinato, dalla cura che dedicava anche a particolari apparentemente insignificanti, tralasciati da molti, per ottenere se non giustizia almeno informazione, coscienza collettiva.
Sembrava dire: Io sono qui e ti racconto, tu fai il poco o il tanto che puoi fare. Non importa in quanto riuscirai, solo non mollare”.

Fra i tanti interventi mediatici che oggi mi ruotano intorno, m’imbatto nel video che ieri avevo già guardato profondamente smarrita.
Rivederlo oggi fa ancora più male: solo uno sguardo e poi fermo il video.
                                                             STOP
Mi sento feroce commensale della sua paura. Non mi serve osservarlo ancora così nudo e solo, senza noi tutti.
Ancora mille domande seguono. Non ci sono risposte; io non le ho.

Resta la sua affermazione in quel “restiamo umani” e questo senso di sconfitta, questa tristezza e dolore che sembra continuare a coprire di grigio il cielo della libertà, fa certo parte di quel restare umani. Grazie, Vik.

Ogni morte ci priva di qualcuno e spesso – anche in caso di persone che non conoscevamo di persona – ci priva di qualcosa: di una parte dell’anima, della fiducia, della sicurezza. La morte di Vittorio Arrigoni ci ruba una voce coraggiosa e sincera, un uomo che conosceva il significato della parola “Amore” e della parola “Fratellanza”, un uomo che sapeva restare “UMANO” anche in mezzo alle più efferate azioni compiute da uomini che di umano hanno dimenticato il significato.

È naturale che la morte di Arrigoni, una morte violenta per mano di gente che non considera la Vita un valore, ma solo una merce e un mezzo per ottenere qualcosa – supposto che da una morte sia possibile ottenere altro che non sia violenza e abiezione – ci riempia di un dolore così forte da farci sentire arrabbiati oltre che sgomenti, sconvolti, e molto soli.
La rabbia, come ogni sentimento forte, può essere spinta in varie direzioni. Non lasciamo che la nostra rabbia diventi un sentimento negativo, un desiderio di rivalsa, di sfogo, ma spingiamola verso una sana e fattiva indignazione e impegniamoci a mantenere vivo Vittorio Arrigoni. Quando le persone non sono più – materialmente – accanto a noi le possiamo mantenere vive onorando i loro desideri e i loro insegnamenti. Non dimentichiamoci di essere umani come lo è stato Vittorio.

15 aprile 2011

Morena Fanti
Clelia Pierangela Pieri

Clelia

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