Un cambiamento verrà

di Maria G. Di Rienzo

Roya Toloui è una giornalista curda iraniana ora in esilio. Era l’editrice responsabile di «Rasan», un mensile che trattava di questioni relative alle donne, nonché la fondatrice dell’Associazione Donne Curde per la Pace e i Diritti Umani. Questi sono i motivi per cui fu tenuta in prigione per 66 giorni, durante i quali fu violentata e torturata: i suoi aguzzini volevano che confessasse il falso, e cioè di essere l’organizzatrice delle proteste nelle aree occidentali dell’Iran abitate da curdi. Questa è la sua testimonianza.

«Sei uomini e una donna irruppero in casa mia e la misero sottosopra. Dopo la perquisizione mi arrestarono e mi portarono alla stazione di polizia. Nove poliziotti mi fecero un mucchio di domande e uno di loro mi disse: “Ti abbiamo tollerata, e ti avevamo detto di non scrivere articoli contro il governo. Se tu avessi smesso, non avremmo dovuto arrestarti”. Io gli risposi che scrivere articoli non avrebbe dovuto essere una ragione per trarmi in arresto: ero una giornalista, era il mio lavoro scrivere articoli. Gli dissi anche che i giornalisti dovrebbero essere liberi di esprimersi.

Comunque, dopo parecchie ore, smisero di interrogarmi. Il giorno successivo mi mandarono in tribunale dove il giudice decise di trasferirmi dalla custodia della polizia alla prigione gestita dai servizi segreti. Sapevo che molte persone era già morte là di tortura. Pregai il giudice di lasciarmi in prigione dov’ero, ma non mi ascoltò. Uno dei poliziotti che mi accompagnarono durante il trasferimento mi disse: “Dottoressa, per favore, prenda sul serio gli ufficiali dei servizi. Non sarà una cosa civile come la notte scorsa. Sarà dura per lei”. E aveva ragione.

Mi misero in isolamento, in una stanza da quattro metri per quattro, con le pareti bianche, era tutto bianco. C’era una piccola finestra schermata sul soffitto. Cominciai a segnare sulle pareti il tempo che passavo là dentro: furono 17 giorni. Durante il primo mi interrogarono a schiaffi. Volevano che confessassi di essere l’organizzatrice delle proteste e di aver diffuso i volantini, ma non era vero. Se non rispondevo diventavano pazzi di rabbia. Mi facevano domande giorno e notte, ero esausta. Il sesto giorno l’inquisitore di turno si arrabbiò e al suo posto venne un funzionario della magistratura (che riconobbi). “Ti giustizierò” mi disse “Stai certa che intendo ucciderti. Sei una leader contro il governo e contro l’Islam”. Io ribattei gridando: “Uccidimi pure, ma io so di non aver fatto nulla di sbagliato”. Poiché era un uomo potente non tollerò che gli rispondessi in quel tono e fu lui a stuprarmi.

La notte successiva mi interrogarono in due. Uno mi chiese di firmare quel che loro avevano scritto e io rifiutai. L’altro uomo disse: “Non sei una donna saggia. Se brucio i tuoi bambini davanti a te, come ho bruciato davanti a te le illustrazioni della tua rivista, allora ammetterai tutto”. Fu questo a spezzarmi. Ero disperata. Sapevo che erano pazzi e che avrebbero fatto qualsiasi cosa. Allora gli baciai le scarpe, dissi che avrei firmato tutto purché non toccasse i miei figli. Mi fecero dapprima firmare un foglio in cui era scritto che non mi era accaduto nulla di male. Poi dovetti leggere e mandare a memoria ciò che loro avevano preparato per me e ripeterlo di fronte a una videocamera. La condizione principale per il mio rilascio dall’isolamento era la promessa che non avrei denunciato lo stupro al medico della prigione: io promisi, ero terrorizzata all’idea che non mi lasciassero più andare. Infine fui trasferita alla prigione femminile di Stato. Solo vedere altra gente mi sembrava un miracolo. Non che le condizioni fossero migliori: ho dovuto assistere a torture e umiliazioni subite da altre donne. Quando permisero a un giornalista di visitare la prigione, io fui spostata in una cella diversa e mi fu detto che l’avrei pagata cara se gli avessi raccontato qualcosa di quel che avevo passato. Dopo 66 giorni totali di galera mi lasciarono uscire su cauzione: sono riuscita a fuggire, con uno dei miei figli, un paio di giorni prima che il governo emettesse l’ordine di non lasciarmi uscire dal Paese. Il processo contro di me si tenne comunque e fui condannata a morte in primo grado. Visto che però non c’erano prove a mio carico, la sentenza fu commutata in 6 anni di prigione».

Ai membri della famiglia di Roya non sono state risparmiate molestie e sofferenze. Sebbene si sia riunita anche agli altri figli e abbia ricostruito la propria vita, la sua lontananza dall’Iran è un dolore costante per lei e per i suoi parenti che vi sono rimasti. Tuttavia continua a scrivere dall’esilio di democrazia e diritti umani. Ed è convinta che «un cambiamento verrà».

 

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