«Un debole per quasi tutto» di Aldo Buzzi
di Pierluigi Pedretti – Libri da recuperare: nona puntata (*)
Mutuando l’epiteto da un suo libro ne hanno parlato come un Čechov italiano, Un autore appartato Aldo Buzzi, che andrebbe (ri)scoperto a oltre un decennio dalla morte. E si potrebbe cominciare a leggerlo ripubblicando «Un debole per quasi tutto» (Ponte alle Grazie, 2006) esaurito da tempo. Lo merita. Raccoglie il materiale narrativo degli ultimi anni di vita e si apre con l’auto-intervista con cui presenta se stesso (e la sua filosofia di vita).
Comasco di origini, con avi valtellinesi – “I Buzz di Sondrio, forse parenti, alla lontana, del Butz, il barboncino marrone (canis aquaticus) che accompagnava Schopenhauer nella sua passeggiata quotidiana.” Il padre era un chimico, che per lavoro si spostava con la famiglia da una regione all’altra, dal Piemonte alla Toscana: “Una maestra lombarda correggeva con lapis rosso, sui temi, certe espressioni toscane, giustissime. Inutile arrabbiarsi”. La madre tedesca era giunta a Prato nel 1895 con il padre dirigente di azienda: “Si chiamava Kathe, cioè Caterina, un nome troppo difficile per i miei parenti italiani, che la chiamavano Ketty”.
La vita di Buzzi trascorse fra il lavoro di architetto e quello per il cinema. Aiuto regista di Lattuada, ma anche per Fellini (ne scriveva nel «Taccuino dell’aiuto-regista»). Dopo la pensione si dedicò alla scrittura. Anche se un suo primo scritto apparve su «Il Selvaggio» di Maccari, il vero e tardivo esordio fu con il brillante «Cechov a Sondrio e altri viaggi», che fu segnalato come Libro notevole dell’anno (1966) per «The New York Book Review». Il suo libro più famoso è però legato alla passione per la cucina, «L’uovo alla kok» (1979) in cui attraverso le ricette ci offre una brillante metafora delle nostre esistenze. “Lo scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo, di cuochi, di pranzi mi ispira diffidenza, come se mancasse qualcosa di essenziale”.
In tutti i suoi libri, in modo limpido e asciutto, lo scrittore comasco ci racconta della leggerezza della vita contro la gravezza del presente. Senza però nessuna pretesa di saggezza. Un autore originale, misconosciuto in Italia, ma paradossalmente tradotto in tutto il mondo. “A novant’anni il più giovane scrittore italiano” scrissero di lui negli Usa, dove era conosciuto anche per il lavoro di traduttore e per la profonda e lunga amicizia con Saul Steinberg, grande disegnatore del «New Yorker», che fu suo compagno di studi in Architettura a Milano.
Un delizioso divertissement è «Un debole per quasi tutto». Intelligenza e curiosità si sposano con l’ironia quando Buzzi mette insieme ricordi di vita e di viaggi, citazioni e miti quotidiani. Sembra di entrare con il suo libro in un gioco estremamente colto e leggero nello stesso tempo, in cui il lettore può divertirsi e scoprire nello stesso tempo un retrogusto di raffinata riflessione sul nostro mondo, spesso così greve. Un autore fintamente disimpegnato che ci costringe ad osservare le situazioni da un punto di vista tutt’altro che scontato. Buzzi parte dalle più piccole cose intorno a noi, convinto che nascondano significati più profondi, porgendocele con una grazia inimitabile, lontano dal pessimismo amaro di un Flaiano, a cui pur è stato paragonato. E allora lo stupore fa breccia quando si scopre uno scrittore così particolare, fuori dal coro, che offre alla nostra amara quotidianità soluzioni di graffiante freschezza, facendoci nello stesso tempo sorridere, sorprendere, e pensare.
“Buzzi, le spiace aver iniziato tardi a scrivere?”
“Uno scrive quello che ha dentro, se comincia presto finisce presto”
(*) L’idea di questa rubrica è di Giuliano Spagnul: «… una serie di recensioni per spingere alla ristampa (o verso una nuova casa editrice) di libri fuori catalogo, preziosi, da recuperare». Siamo partiti il 2 aprile (con Giuliano ovviamente) a raccontare Gunther Anders: «Essere o non essere». Poi L’epica latina: Daniel Chavarrìa (14 aprile) di Pierluigi Pedretti, «Poema pedagogico» di Anton Makarenko (30 aprile) di Raffele Mantegazza, «Il signore della fattoria» di Tristan Egolf (12 maggio) di Francesco Masala, «Chiese e rivoluzione in America latina» (26 maggio) di David Lifodi, «Teatro come differenza» di Antonio Attisani (9 giugno) ancora di Giuliano Spagnul, «Dizionario della paura» di Marcello Venturoli e Ruggero Zangrandi (23 giugno) di Giorgio Ferrari e «Arrivano i nostri» di Dario Paccino (il 7 luglio) di Giorgio Stern.
Ci siamo dati una scadenza quattordicinale, all’incirca. Se qualcuna/o vuole proporre e/o inserirsi troverà le porte aperte. [db per la “bottega”]