Un esercito di navi giganti
Intervista di Barbara Bertoncin a Sergio Bologna (*)
Un settore, quello delle navi giganti, che nonostante i ripetuti incidenti, e le implicazioni negative per gli Stati e i porti, continua a crescere; il complicatissimo puzzle proprietario; la convinzione che il futuro della logistica stia nel know how e nell’innovazione, non nelle infrastrutture; il brutto colpo, ma prevedibile, del mancato ingresso del sindacato in Amazon, problema aperto, però, che ora è al vaglio del Senato americano. Intervista a Sergio Bologna.
Sergio Bologna, già docente di Storia del movimento operaio e della Società industriale, è stato tra i primi a portare in Italia il tema della logistica.
Dopo l’incidente della Ever Given si è riaperto il dibattito sul “gigantismo navale”, che non è un tema nuovo. Nel pezzo pubblicato in Ritorno a Trieste lo fai risalire agli anni Settanta. Vorrei chiederti intanto cosa si intende con questa espressione, quali sono i processi e le “ragioni” che hanno portato a questo fenomeno, la sua reale efficienza e le prospettive.
Negli anni Settanta riguardava le petroliere, furono costruite navi da 500 mila tonnellate, ma è durata poco. Nel container invece la crescita delle dimensioni delle navi sembra non arrestarsi mai e quindi preoccupa (anche nelle crociere succede qualcosa di simile). In caso d’incidente, a parte i rischi per le persone e per le merci, può restare paralizzata un’intera economia cittadina (Amburgo per esempio) così come con l’incidente di Suez è rimasto semiparalizzato un intero comparto dei traffici marittimi mondiali. Gli armatori giustificano le loro scelte con le economie di scala, ma è stato dimostrato che non è del tutto vero. Ma anche se fosse vero significherebbe che loro ci guadagnano ma ci perdono le finanze pubbliche degli stati, costretti a investire grandi somme nell’adeguamento dei porti. È il caso di Genova per esempio che ha in programma di costruire addirittura una nuova diga foranea per permettere alle grandi navi di entrare nel porto. Che cosa cambia per le industrie, per i consumatori, per i cittadini se le merci arrivano con una nave da 16.000 Teu o con una da 24.000 Teu? Niente. Che cosa cambia per il porto? Niente, anzi con una nave più grande rischia una maggiore congestione.
Questa sorta di competizione sulle dimensioni porta con sé un’analoga rincorsa di scali e reti logistiche. Cosa sta succedendo da questo punto di vista? Cosa succede quando uno di questi giganti entra in un porto e in quali porti può entrare? Cioè di che contesto ha bisogno per funzionare?
Quanto più grande è la nave, tanto minore è il numero di porti che tocca nei suoi itinerari. Perché? Perché sempre meno porti hanno gli spazi e le attrezzature necessarie per sbarcare e imbarcare la merce di una nave gigante. Se mediamente una nave da 14.000 Teu tra sbarco e imbarco movimentava 800/1000 Teu per toccata, una da 24.000 Teu può anche movimentarne 6.000. Quindi rimane più tempo in porto e la sosta diventa molto cara. Allora diminuisce il numero delle toccate.
Ti faccio un esempio: una nave da 14.000 Teu che veniva dalla Cina poteva toccare Rotterdam, Liverpool e Amburgo. A una da 20.000 Teu non conviene e allora tocca solo Rotterdam e lì sbarca anche la merce destinata a Liverpool e Amburgo. Saranno necessarie altre due navi piccole per portare la merce da Rotterdam a Liverpool e da Rotterdam a Amburgo.
L’incidente, ma già la pandemia, ha messo in luce i limiti e le debolezze di un modello di sviluppo fondato su filiere globali e basso costo del lavoro. Anche qui quali sono le prospettive? C’è un qualche ripensamento in corso? Quali alternative?
Si parla da dieci anni almeno, dalla crisi del 2008, di riportare in Europa le fabbriche delocalizzate (re-shoring) oppure di accorciare le catene di fornitura. Qualcosa in effetti sta succedendo, dopo la pandemia ormai ci pensano un po’ tutti, qualcosa succederà. Però questo a medio termine non avrà effetti sul gigantismo navale. Le navi che sono in costruzione nei cantieri, il portafoglio ordini dei cantieri, è in gran parte per navi giganti. Solo la compagnia che gestisce la nave che ha bloccato Suez, la Evergreen, società cinese di Taiwan, ne ha ordinate venti. Nel 2023 è previsto che un esercito di navi giganti scenderà in mare. Ci sono capitali in abbondanza e il mercato finanziario è in mano alle Leasing Financial Companies cinesi. La vera ragione del gigantismo sta nel funzionamento della finanza dello shipping, sta nella finanziarizzazione del settore. Qui entriamo in un campo molto tecnico, provo a semplificare al massimo. Immaginiamo qualcosa che non è molto diverso dal prendere in leasing un’automobile. Una compagnia di navigazione ordina una nave a un cantiere. Firma un contratto di noleggio a lungo termine. I soldi per pagare il cantiere in pratica li riceve dal cantiere stesso tramite la sua società di leasing. I grandi cantieri del Far East, Corea del Sud, Cina, Giappone, per mantenere la loro leadership sono generosamente finanziati dallo stato non tanto con sussidi diretti quanto con crediti all’esportazione o con garanzie pubbliche sui prestiti. Fino a una decina di anni fa erano le banche commerciali a finanziare lo shipping, nel container erano le banche tedesche e i fondi tedeschi. Poi tutto è crollato nel 2012-2013. Ho analizzato questo fenomeno nel mio libro Banche e crisi. Dal petrolio al container. Spariti dal mercato i tedeschi, sono subentrati i cinesi, che hanno sviluppato al meglio la tecnica del leasing. La nave che si è incagliata a Suez è stata costruita in Giappone, ed è di proprietà della Shoei Kisen Kaisha, società di leasing, che ha un contratto di charter a lungo termine con Evergreen, l’armatore cinese di Taiwan. Quindi anche se porta dipinto sulla fiancata a lettere cubitali il nome Evergreen, la nave è di proprietà della società di leasing giapponese. E infatti l’Autorità del Canale di Suez, che pretende un risarcimento di 916 milioni di dollari, non lo chiede a Evergreen ma alla Shoei Kisen Kaisha e tiene sotto sequestro la loro nave finché non viene pagata.
Un’azione che a me non sembra molto distante da quella dei pirati nigeriani o somali che sequestrano navi e equipaggi e chiedono un riscatto per rilasciarli. Perché ritengo che la principale responsabile dell’incidente è proprio l’Autorità del Canale che ha permesso alla nave di entrare con forte vento senza imporle l’appoggio dei rimorchiatori, i quali, nel momento in cui la nave ha cominciato a “scarrozzare”, per usare un termine stradale, avrebbero potuto riportarla sulla rotta, così come accadde nel 2019 nel Canale della Giudecca a Venezia con una nave da crociera della Costa. Oltretutto pare che la Ever Given viaggiasse a 13,5 nodi mentre la velocità obbligatoria nel Canale è di 8/9 nodi. A questo proposito, per rendervi il quadro più completo, vorrei ricordare che la Ever Given non è nuova a questi incidenti: nel febbraio del 2019 mentre dalla foce dell’Elba stava navigando verso il porto di Amburgo, ha pensato bene di andare a sbattere contro un traghetto riducendolo in condizioni pietose, all’altezza della località balneare di Blankenese. E anche allora, se non vado errato, il porto di Amburgo non se l’è presa con Evergreen, esattamente come l’Autorità del Canale. Perché? Perché Evergreen è un grande cliente sia del porto di Amburgo che del Canale di Suez e coi grandi clienti non si chiude soltanto un occhio ma tutti e due, si preferisce trovare un capro espiatorio. Cosa succede allora quando qualcuno come Shoei Kisen Kaisha si vede messo in un angolo e costretto a pagare per gli errori degli altri (nel caso in questione l’errore dell’Autorità del Canale lo abbiamo già detto, l’errore del comandante della Ever Given è stato di andare a velocità non consentita senza l’ausilio di rimorchiatori)?
Succede che quello che rischia di restare con il cerino in mano invoca il general average, un’antica consuetudine marinara risalente all’antichità (la lex Rhodia) secondo la quale in casi analoghi la responsabilità del pagamento dei danni viene suddivisa tra tutti i proprietari della merce che è a bordo (per migliori spiegazioni https://www.aiom.fvg.it/leggi -la-nostra-newsletter/).
A bordo della Ever Given c’erano 20 mila Teu di roba, equivalenti a spanne a 13 mila “scatoloni”. Quanti saranno i proprietari? Difficile dirlo ma sicuramente migliaia. Riuscite a immaginare che razza di contenzioso rischia di aprirsi se tra i giapponesi, le società di assicurazione e l’Autorità del Canale non si trova un compromesso che chiude la partita? Senza contare il rischio d’incidente diplomatico con l’India perché l’equipaggio è tutto indiano e di fatto è sequestrato (al momento in cui scrivo hanno lasciato partire due marinai proprio per evitare accuse di sequestro di persona). Per tornare alla finanza: le banche italiane non hanno esperienza in materia di shipping anzi hanno fatto disastri: quando il Monte dei Paschi di Siena ha fatto crack si è scoperto che uno dei suoi maggiori debitori era una compagnia di navigazione di Torre del Greco finita in bancarotta fraudolenta, la Deiulemar, con un sacco di piccoli azionisti che han perduto i loro soldi. Bisogna proprio avere occhio per scegliersi un cliente così, a cui prestare dei soldi… L’ambiente dello shipping nel suo Dna ha parecchie cellule con la benda nera sull’occhio destro e se uno non è ben attrezzato, non conosce bene l’ambiente, ci lascia le penne…
Tu, assieme ad altri, sostenete che il futuro della logistica non è nelle economie di scala, ma nella connettività. Puoi spiegare? Ho visto che sei recentemente intervenuto anche sulla questione della cosiddetta sovranità logistica dei Paesi europei che, se ho capito bene, consideri una partita persa, almeno per il nostro paese…
No, io sostengo che il futuro della logistica sta nel know how e nell’innovazione, non nelle infrastrutture. La Torino-Lione migliorerà la logistica? Non produrrà effetti rilevanti nemmeno nel trasporto merci. L’allargamento del Canale di Suez ha migliorato la logistica? La risposta l’abbiamo sotto gli occhi. Vi ricordate quanto baccano si è fatto attorno al Corridoio 5? Almeno per vent’anni non abbiamo sentito parlare d’altro, fior di professori si sono costruiti la carriera, la cattedra, sproloquiando di Corridoio 5. E adesso? Nessuno ne parla. Dov’è questo Corridoio 5? Dove lo vedo, su Google Maps? Sì, recentemente mi hanno invitato a parlare di problemi che hanno a che fare con l’autonomia delle imprese italiane nella gestione della logistica. Vi rimando alla mia intervista (https://www.shipmag.it/ italia-subalterna-alla-logistica-straniera-bologna-i-giochi-sono-stati-fatti-negli-anni-90-lanalisi/). Me n’ero già occupato per la Banca d’Italia vent’anni fa. In vent’anni la situazione non è cambiata, anzi è peggiorata.
Siamo un paese totalmente subalterno sul piano della logistica di sistema e su quello della logistica industriale, tranne alcune eccezioni. Eppure continuiamo a gonfiarci il petto dicendo che siamo “una piattaforme logistica naturale in mezzo al Mediterraneo”. Tant’è vero che le navi giganti, quelle dai 19.000 Teu in su, quando escono da Suez vanno direttamente a Gibilterra per salire poi verso Rotterdam, non si fermano nemmeno in un porto italiano, se ne infischiano della “piattaforma naturale”. Quindi il gigantismo delle portacontainer ci metterà ancora di più ai margini.
Quando ho cominciato a occuparmi di trasporti dal punto di vista professionale – non come studioso o osservatore esterno ed era il 1983/84 – ho conosciuto della gente straordinaria, uomini di grande intelligenza che mi hanno insegnato un sacco di cose, mi hanno fatto capire le mille sottigliezze di questo mestiere così trascurato e snobbato che è il trasporto merci. Oggi in quell’ambiente io vedo crescere l’onda degli imbecilli… puoi incontrare gente che si frega le mani per lo scioglimento dei ghiacci del Polo perché così le navi portacontainer dalla Cina, passando dal Mare Artico, potranno arrivare in Europa qualche giorno prima di oggi… Per fortuna che uno dei più grossi armatori mondiali pare abbia detto che lui dalla rotta artica non ci vuol passare…
Infine volevo chiederti un commento sul (purtroppo fallito) tentativo di ingresso del sindacato in Amazon negli Usa, che sarebbe stato un fatto epocale. Come dobbiamo interpretare l’esito e cosa aspettarci adesso?
Risponderei dicendo di andarvi a leggere l’articolo di Luis Feliz Leon su “In These Times” (https://bit.ly/2S8MyP3). Quello è un episodio di una vicenda globale, di una rivolta globale contro Amazon che continuerà in futuro e forse diventerà sempre più dura. Il voto in Alabama -che ben pochi speravano si concludesse positivamente per il sindacato- aveva una grande importanza in America perché si svolgeva in contemporanea alla discussione in Senato dove i repubblicani, con il loro ostruzionismo, cercano di bloccare il Protecting the Right to Organize Act, che è una delle iniziative legislative più qualificanti dell’Amministrazione Biden. Se i repubblicani ce la fanno a stopparla, quello sì è un brutto colpo. Ma quella è la strada giusta, il problema delle libertà sindacali in azienda non potrai cancellarlo dall’agenda tanto facilmente.
(*) ripreso da «Una Città» numero 274; qui il sommario: http://www.unacitta.it/it/sommario/?id=294