Un film necessario

Degli uomini e degli dei. Così avrebbe dovuto intitolarsi il film vincitore del Grand Prix al festival di Cannes (Des hommes et des dieux in originale), se la distribuzione italiana non lo avesse traslato nel fuorviante Uomini di Dio. Ma perchè un film così poco allettante, presumibilmente lento, ha conquistato il pubblico francese incassando ben 8 milioni di euro e, ora candidato all’Oscar, sta avendo un crescente successo in Italia e nel mondo?

Ispirato ad una storia vera, quella dei sette monaci trappisti francesi del monastero di Tibhirine, in Algeria, assassinati nel 1996 nel corso della sanguinosa guerra civile, non ci racconta la loro morte bensì la loro vita. Una vita fatta di silenzi e di preghiera come di lavoro nei campi e di assistenza medica e materiale ai poveri abitanti del villaggio, con cui convivono con grande armonia al di là delle differenze di fede. Finchè la minaccia degli integralisti islamici si fa più vicina e devono prendere la decisione: partire o restare a rischio di essere uccisi. C’è chi vuole restare e chi vuole andarsene, tutti sono pieni di dubbi e di paure, nessuno ha voglia di morire.

Xavier Beauvois, il regista, ci mostra questo travaglio interiore, fatto di umana fragilità, di debolezze e paure, affidandolo al talento degli interpreti e all’incisività dei primi piani.

Mentre il pericolo si fa sempre più incombente e gli abitanti del villaggio chiedono loro di rimanere, sentendosi protetti dalla loro presenza, i monaci devono anche affrontare la crescente ostilità dell’esercito, che preme in ogni modo perchè partano (notevole la scena in cui i religiosi resistono con i loro canti al rombo intimidatorio di un elicottero). Alla fine tutti decideranno di restare, rimanendo così fedeli allo spirito del loro impegno. In fondo, “non c’è miglior prova d’amore che morire per il prossimo”. Ognuno ha seguito un personale percorso interiore per arrivare a questa decisione, ognuno ha trovato la sua risposta. Magari perchè, molto semplicemente, non saprebbe proprio dove altro andare.

Anche la natura, splendidamente fotografata, ha un suo ruolo. Sia come materia viva, sia come luce di paesaggi mozzafiato, è una presenza che accompagna e conforta. Come la nevicata in cui, nel finale, la colonna dei rapitori e delle vittime lentamente si dissolve, quasi ad alleviare il peso di quel destino.

Girato in modo essenziale, rigoroso, con pochi movimenti di macchina (l’uso di primissimi piani nella sequenza dell’ ”ultima cena” ha portato diversi critici a citare Dreyer, Bresson e persino Pasolini) riesce ad essere emozionante perchè propone una storia di esseri umani che operano con coraggio difficili scelte etiche, che si sacrificano per quello in cui credono, che sono coerenti con la loro visione del mondo come fratellanza. E qui sta il motivo del successo del film. Evidentemente c’é molta gente che ha ora bisogno di storie così, che vuole commuoversi per storie come questa e cerca narrazioni di ciò che unisce piuttosto che di ciò che divide.

Come ha detto Beauvois in conferenza stampa a Cannes, “Il film giunge in un buon momento, perchè in Francia si sta cercando di aizzare l’uno contro l’altro, nascono falsi problemi, come quello del burqa, scuse per di sviare l’attenzione dai problemi economici e sociali. Mentre ci sono persone curiose della bellezza dell’altro”

Il rapimento avvenne il 26 marzo del 1996. Due mesi più tardi gli estremisti del GIA rivendicarono l’uccisione dei religiosi, di cui furono ritrovate solo le teste. Ma esistono dubbi di parte francese su questa versione degli avvenimenti, nei quali avrebbe avuto un ruolo anche l’esercito algerino.

Possiamo essere assolutamente sicuri che chiunque li abbia rapiti lo ha fatto per motivi politici – ha recentemente affermato alla BBC Etienne Comar, co-sceneggiatore del film insieme a Beauvois – Il problema non è mai la fede, c’è sempre la politica dietro la fede.”

 

Massimo Lambertini.

 

Donata Frigerio

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