Un luddista: «Una mattina mi son svegliato» – 2/7

Un luddista si dondolava sopra un filo di ragnatela

riflessioni su opensource, creative commons e sul capitalismo della sorveglianza

di jolek78


Capitolo 1 – Una mattina mi son svegliato

Chi (non) vuol essere individualista
Quella che oggi si chiama “citizen science” nacque grazie a un piccolo sogno: la ricerca di intelligenze extraterrestri. Il progetto SETI, acronimo di “Search for Extra-Terrestrial Intelligence”, è noto al pubblico per essere quel tipo di ricerca astronomica che scandaglia il cielo in banda radio, analizza i dati e cerca d’individuare se, nell’oscurità del cosmo, qualche lontana civiltà extraterrestre sta cercando di comunicare con noi. Questo lavoro lo fa utilizzando i tempi morti delle antenne radio sparse per il mondo. Una serie di pionieri della radioastronomia si domandarono come fare ad aumentare la potenza di calcolo: bisognava distribuire un software, installabile dagli utenti sui propri personal computer, che permettesse di elaborare pochi dati alla volta ma in un tempo rapido. Quel pacchetto si chiamava “Seti@Home” e il suo compito era di scaricare i dati, analizzarli con la FFT – trasformata veloce di Furier – e restituirli indietro al centro radioastronomico di Arecibo. La risposta fu immediata: quasi due milioni di appassionati scaricarono il programma in tutto in mondo e fu letteralmente un successo planetario.(*1)

Analogamente nel 2006 la dottoressa Ilaria Capua, che si trovava a lavorare sul virus H5N1 – la meglio nota influenza aviaria – prese una decisione storica: decise di pubblicare l’intera sequenza genica di cui era in possesso su un database “open access” chiamato GenBank. Questa decisione, presa in polemica con buona parte dell’accademia, si rivelò provvidenziale. Rendendo pubblici i dati, si rese partecipe di un estremo atto di fiducia verso la comunità scientifica. Anche qui la risposta fu immediata: quasi un anno dopo l’azienda medica Sanofi Pasteur produsse il primo vaccino contro l’aviaria e si poté cominciare a combattere una influenza che, a memoria d’uomo, non aveva mai avuto una mortalità cosi alta. (*2)

Questi sono soltanto due piccoli, ma importanti, esempi che ci dicono qualcosa di fondamentale: l’individualismo, mantra dei nostri tempi, è dannoso per l’intera umanità. La collaborazione fra esseri umani liberi e indipendenti è capace di accelerare lo sviluppo e portare ad un progresso. Mettere un blocco – che sia esso sociale, politico o economico – è sconveniente per tutti, rallenta la diffusione delle idee e impedisce la loro rapida evoluzione.

Sediamoci a capotavola
Nel libro del 2019 “Talking to my Daughter”(#2), Yanis Yarufakis – economista greco ed ex-ministro delle finanze nel governo Siriza – spiega:

“In questo periodo storico, siamo nel mezzo di un processo di meccanizzazione e automazione, di digitalizzazione e intelligenza artificiale. Sfortunatamente però, questo processo ci porterà nella direzione opposta a una soluzione, poiché il suo presupposto non è quello di conciliare gli uomini con le macchine ma di rimpiazzare i primi con le seconde”.

L’esperienza di Yarufakis è piuttosto significativa, considerando che politicamente tocca con mano la crisi post-2008 e accademicamente è un esperto di “game theory”, disciplina tramite la quale si studia l’evoluzione di sistemi complessi come quelli economici. Ma in che modo l’economia interseca i processi tecnologici che stiamo vivendo? Dobbiamo a questo punto fare un salto indietro nel tempo, e andare al 1998 quando Larry Page e Sergey Brin, giusto due anni dopo l’uscita del browser web Netscape (*4), fondarono una azienda che di lì a poco sarebbe diventata un colosso mondiale. Si chiamava Google, era un motore di ricerca e incorporava al suo interno una semplice idea: assegnare un valore a ogni sito web a seconda del numero di link da cui veniva richiamato. Questo famoso algoritmo si chiamava “page-rank” e Google diventò, nel deserto quasi caotico di quegli anni (Yahoo – Altavista etc…), il motore di ricerca sul web più utilizzato al mondo. Fondato però da due geek che si rifiutavano, con tutte le forze, di introdurre le inserzioni pubblicitarie, Google stava rischiando di diventare rapidamente una magnifica idea che sarebbe morta nel giro di pochi anni (*5).

All’apparire dei cookies – piccoli oggetti che tracciavano la navigazione di un utente su ogni sito web – quindi Google ebbe l’idea: cominciare a sviluppare una sorta di IA – intelligenza artificiale – che creasse una esperienza personale e privata – quella che oggi chiamiamo filter-bubble – da poter vendere sul mercato degli inserzionisti (*4). Nella prima fase i fruitori di Google non avrebbero visto inserzioni pubblicitarie ma avrebbero avuto una esperienza di ricerca “personalizzata” per le loro esigenze. Successivamente, quando arrivarono le inserzioni, discrete e ben identificabili, con i metadati degli utenti già presenti nei database, Google potè cominciare ad indirizzare i “consigli per gli acquisti” a chi ne era potenzialmente interessato. Come possiamo leggere nel monumentale libro “The Age of Surveillance Capitalism” (#3) scritto dalla sociologa e filosofa Shoshana Zuboff:

“Quando un capitalista assume dei lavoratori, li integra nella produzione e provvede a un salario. Ma non qui, dove i lavoratori non sono pagati per il loro lavoro, e non sono integrati nella produzione. […] Spesso si sente dire che gli utenti sono il prodotto. Non è esatto. Il prodotto del capitalismo della sorveglianza è quello di prevedere le nostre azioni”

E aggiunge

“Gli utenti sono usati come oggetti di un non-mercato, in modo da sviluppare la missione di Google che è quella di classificare coerentemente le informazioni disponibili sul web, e renderle accessibili e utili a tutti”.

È così che cominciò tutto: un semplice metodo creato per poter sopravvivere sul mercato, e per impedire a un’idea, oggettivamente migliore delle altre, di scomparire nell’universo dei motori di ricerca. Fu nel 2001, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, che i metadati divennero letteralmente oro digitale per i governi di tutto il mondo. Possederli diventava priorità nazionale, da realizzare a tutti i costi, privacy inclusa. Da allora, cercando di tutelare la sicurezza internazionale, cominciammo lentamente a perdere la sicurezza personale, trasformando lo “stato di eccezione” in “stato di normalità”.

Homebrew Computer Club e Goedel
Nel 1975, sulle pagine della newsletter del Homebrew Computer Club, apparve una lettera scritta da Bill Gates (*6), che faceva pressappoco cosi:

“Come la maggior parte degli hobbisti sa, molti di voi hanno rubato il mio software. Per voi poco importa se chi ha scritto il codice non abbia ricevuto compenso per il suo lavoro. Questo secondo voi è giusto?”

Negli anni ‘70 l’informatica, come la conosciamo oggi, stava letteralmente esplodendo. Da lì a poco si sarebbe passati dagli amplificatori a valvole ai transistor (*7) e i computer, tanto grandi da riempire stanze intere, si sarebbero rimpiccioliti fino al punto da diventare “personal”. Ma a quei tempi c’era anche una guerra di idee in corso. In questa battaglia, che correva sul filo delle tastiere, si confrontavano due fazioni: la prima lottava per la libertà di programmazione, il codice sorgente aperto e la condivisione delle idee (*8), mentre la seconda sosteneva la necessità di tutelare il lavoro informatico, sosteneva il software proprietario, e scoraggiava così la pirateria e la condivisione delle fonti.

L’evento storico che scatenò la diatriba fu la vendita, da parte della MITS – Micro Instrumentation and Telemetry Systems – di un nuovo gioiello tecnologico basato su processori Intel. Questo primo personal computer, denominato Altair-8800, veniva venduto fornito di un interprete, l’Altair-BASIC (*9), creato da una neonata azienda fondata da un giovane fino ad allora sconosciuto: l’azienda si chiamava Micro-Soft (*10) e il giovane era un certo Bill Gates. Durante la presentazione del progetto, un piccolo – e storico – gruppo di appassionati di informatica, l’Homebrew Computer Club, si presentò a Palo Alto per assistere all’evento. Fu qui che Steve Dompier, uno dei membri del club, trafugò una copia del BASIC rendendola disponile anche agli altri iscritti.

Ma c’è dell’altro. Le due schede di memoria fornite con il computer non erano le migliori sul commercio, erano difettose e avevano problemi di progettazione. Fu così che Robert Mash, un altro membro del Club, lavorò sui sorgenti e produsse nuove e migliorate memorie a 4k, compatibili con l’Altair e con il BASIC. In breve tempo, molti appassionati cominciarono a comprare l’Altair-8800 dalla MITS insieme alle schede di memoria compatibili. Per quanto riguarda il BASIC, beh per quello si poteva sempre averne una copia di straforo da qualcuno…

La pirateria ebbe i suoi effetti: in due anni il BASIC divenne l’interprete più popolare per macchine con processori Intel e un suo porting, sviluppato da una altra neonata azienda – la Apple – cominciò a girare sul celeberrimo personal computer Apple II(*11). Avrebbe detto Kurt Gödel: “se un sistema assiomatico può dimostrare la sua stessa coerenza, allora deve essere incoerente”(*12). L’assioma del “io produco software, io devo essere pagato” stava così lentamente crollando su se stesso.

Just for Fun
Mentre negli Stati Uniti si sviluppava la battaglia fra “hobbisti” e “professionisti”, in un altro continente un giovane ragazzo finlandese, Linus Benedict Torvalds (#6), riceveva in regalo il suo primo computer. Era Un Commodore Vic20 (*13) – uno dei primi personal computer “popolari” – e fu amore a prima vista. Il ragazzo, inesperto e goffo, – come siamo tutti a quell’età – si appassionò così tanto a quella strana diavoleria che decise di imparare il suo primo linguaggio di programmazione. Era il BASIC, oggetto della diatriba che stava occupando le cronache oltreoceano. Il giovane decise di trasformare quella passione in una professione e cominciò a studiare informatica all’università di Helsinki. Decise di specializzarsi sui sistemi operativi, rivolgendo l’attenzione verso un microkernel in licenza BSD chiamato MINIX (*14). Nei suoi esperimenti però, Torvalds si accorse quasi subito di non esserne completamente soddisfatto e cosi, just for fun, come ebbe a dire lui stesso, cominciò a sviluppare un nuovo kernel monolitico basato sulle linee di codice che aveva potuto leggere nei sorgenti di MINIX. Il suo sistema era ancora in fase di test quando, nel 1991, decise di superare quella naturale timidezza che lo affliggeva da tempo. Indirizzò così una e-mail (*15) al newsgroup comp.os.minix:

“Salve a tutti gli utilizzatori di MINIX. Sto sviluppando per hobby un sistema operativo per macchine AT-386. Il mio sistema ha qualche somiglianza con MINIX – in particolare il file system per ragioni pratiche […] Sto attualmente lavorando per inserire sia l’interprete bash che il compilatore gcc, e quindi credo che il sistema operativo sarà pronto entro pochi mesi”

In pochissimo tempo quel sistema operativo “per hacker fatto da hacker” riscosse una certa popolarità e numerosi collaboratori si aggiunsero al progetto. Nacque git, un sistema strutturato per tenere “in bolla” gli aggiornamenti del software, e lentamente si aggiunsero nuove applicazioni fino a includere tutto il pacchetto sviluppato dalla Free Software Foundation. Cambiò la licenza d’uso in GPL – Gnu Public License -, il sistema passò da essere un semplice emulatore di terminale a un kernel vero e proprio, e cominciò a implementare il sistema Xwindow per integrare una interfaccia grafica. Tre anni dopo, dopo tanto lavoro, si era arrivati alla prima versione stabile e Linus Torvalds, in un’aula magna gremita, la presentò presso l’università di Helsinki dove era studente. Il ragazzo era cresciuto. Ed era nato Linux (*16).

Hacker lo è chi hacker lo fa
Nell’universo Open Source ci sono due figure che, più di altre, brillano come fossero i punti cardinali. La prima è quella di Richard Stallman (#7), fondatore nel 1985 della Free Software Foundation (*17), che letteralmente ha fornito l’architettura software al sistema operativo oggi più utilizzato al mondo. Le fondamenta che stanno alla base della FSF sono semplici e quasi elementari: vi deve essere la libertà di scrivere software, di leggere come è stato realizzato e la libertà di re-distribuirlo modificato. Nella popolare licenza GPL – oggi arrivata alla terza versione – si chiarisce infatti come si possa modificare e distribuire il codice sotto forma di nuovo software ma solo e soltanto attribuendone la fonte. Questo principio è noto come “copyleft” e permette al programmatore di vedere il suo lavoro riconosciuto, senza però interrompere lo sviluppo del software stesso da parte di altri soggetti. La seconda è quella di Eric S. Raymond – meglio noto come ESR, programmatore, evangelista informatico, e fondatore della open source initiative, OSI (*18) – che ha contribuito a diffondere ad un pubblico di non specialisti il movimento hacker. Lo jargon file (*19), da lui scritto, è semplicemente diventato un pezzo di storia dell’informatica. Nel suo “The Cathedral and the Bazaar” (#4) Raymond descrive alcune cose fondamentali. La prima: hacker è un approccio mentale. Non si è hacker perché si sa programmare in Perl, Lisp, C o Python. Si è hacker se si riconosce che il mondo è pieno di problemi straordinari che attendono di essere risolti. La seconda: hacker è una comunità. Partendo dal presupposto che nessun hacker dovrebbe risolvere i problemi due volte, vi è l’obbligo morale di diffondere le soluzioni – ammesso che ci siano – nel miglior modo possibile. Lo scopo: rendere il mondo un posto con meno problemi irrisolti. La terza, e forse la più importante: l’attitudine ad essere hacker non è un sostituto alla competenza, motivo per cui è incoraggiato un costante e assiduo apprendimento.

In un mondo così complesso, pieno di problemi e affamato di soluzioni, il bazaar informale raffigurato graficamente dalla comunità open source, si contrapponeva alla cattedrale raffigurata dai grandi monopoli dell’informatica che agivano solo per interessi economici e non per pura e genuina curiosità. Secondo la famosa “legge di Linus” (*20) – denominata così in onore di Linus Torvalds -:

“dato un campione abbastanza ampio di programmatori, tutti i problemi forniti saranno analizzati rapidamente e pertanto la soluzione sarà ovvia per almeno alcuni di loro”

La cultura hacker è una cultura libertaria, quasi anarchica oserei dire che, durante il passare degli anni, ha sviluppato un approccio pragmatico ai problemi. È questo in sostanza l’open source: un modello collaborativo, che integra al suo interno la necessità di sopravvivere in un mondo capitalista e, allo stesso tempo, di lavorare insieme per uno scopo comune. Da qui all’idea che Internet, il sistema operativo Gnu/Linux, l’open source e il free – as a beer – software (*21), fossero adatti a integrarsi nel sogno mai interrotto di avere una società migliore, il passo fu assolutamente breve.

Indymedia
La World Trade Organization (WTO) nacque nel 1995, come una sorta di seguito e “miglioramento” a quello che era il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT). Nacque con l’intento preciso di favorire lo scambio delle merci a livello internazionale, di incentivare i commerci, di ridurre al massimo i dazi commerciali e per stimolare gli accordi multilaterali. In questo gioco complicato delle parti, dove il denaro e le merci si spostano da un posto all’altro e i grandi Paesi e/o le grandi multinazionali prendono accordi, non tutti erano trattati allo stesso modo. In particolare, i Paesi del cosiddetto Terzo Mondo erano tenuti fuori dai giochi. Una delle tante cose che fece gridare allo scandalo fu la cosiddetta “green room”, un organismo interno al WTO dove soltanto alcune nazioni – le più ricche, ça va sans dire – prendevano le decisioni più importanti. Quando tutto ciò avveniva, un movimento nato dal basso, spontaneo e organizzatosi tramite internet, cominciò a riversarsi nelle strade con lo scopo preciso di rappresentare una massa critica silente che, per anni, aveva subìto le decisioni economiche e sociali delle grandi multinazionali, dei Paesi più ricchi del mondo e delle organizzazioni create a loro tutela.

Così nel novembre 1999, durante l’ultimo convegno del millennio, quel movimento manifestò lungo le strade di Seattle (*22) per protestare e impedire la realizzazione della riunione del WTO. Fu l’evento in cui ci fu la prima apparizione di quello che da allora venne riconosciuto come il “blocco nero” – i black block – cioè teppisti organizzati che vedevano la protesta come un momento per distruggere quelli che si ritenevano “i simboli del capitalismo”: banche, fast food, uffici di multinazionali e non solo. La protesta e la repressione furono feroci: vennero sparati sui manifestanti proiettili di gomma, lacrimogeni e molti dei manifestanti – anche e sopratutto pacifisti – vennero malmenati. Fu il battesimo di fuoco del movimento. L’evento venne ricordato successivamente dai media come “la battaglia di Seattle”. Il G8 di Genova (*23) nel luglio 2001, gli eventi della Diaz, Bolzaneto e la morte di Carlo Giuliani furono soltanto l’escalation di quella prima e scomposta repressione.

E l’open publishing
Durante quell’enorme disastro però era avvenuto un miracolo. Un piccolo pacchetto software, distribuito attraverso internet, aveva permesso a milioni di persone di partecipare e manifestare in piazza. Il movimento alla base di tutto si chiamava Indymedia (*24) e la sua sezione australiana aveva creato il cosiddetto “active software”(*25), un blocco basato su piattaforma LAMP (Linux Apache Mysql Php) che, sulla base di un template univoco a tre colonne, permetteva di riprodurre un identico sito web in ogni parte del mondo. Questa piattaforma fu poi modificata, in seguito, dai vari “nodi” di Indymedia sparsi per il mondo – alcuni sostituirono, per esempio, il database Mysql con Postgresql – e diventò rapidamente il primo esempio di social network “decentralizzato”. Nacquero così i “media center”, gruppi organizzati di attivisti che mantenevano aggiornato il software diffondendo, attraverso il news feed, le notizie non rilanciate dai media tradizionali. Attraverso le chat IRC ci si coordinava e si organizzavano nuovi eventi di protesta. Nascevano web radio composte da giovani giornalisti. Nascevano esperienze come RadioGAP, coordinamenti che univano i nuovi media sotto un cappello unico. E, attraverso questa esperienza, avvenne qualcosa di ancora più affascinante: nacque l’open publishing (*26).

Fu Matthew Arnison, uno dei programmatori che avevano lavorato alla stesura del “active software”, a definirlo così nel giugno 2001. I princìpi che stavano alla base di questa idea erano semplici. Come per il free software, se uno parlava di libertà delle idee, l’altro parlava della libertà di codice, ma entrambi erano una risposta alla privatizzazione delle informazioni realizzata da parte dei monopoli internazionali. Citando lo stesso Arnison:

“Il prodotto è liberamente disponibile e il processo di produzione è libero e trasparente. Se a qualcuno non piace, lo può prendere, modificare e redistribuire. L’unica cosa che non si può modificare è la sua libertà”

Quel movimento stava cambiando il mondo. E qualcuno stava cominciando ad accorgersene.

Per un pugno di MP3
C’era un tempo, tanti anni fa, che la musica si ascoltava soltanto attraverso supporti fisici. Prima i vinili, poi i minidisk, poi le audiocassette, poi i cd. Ma i supporti prendono spazio, si rovinano e non si possono trasportare agilmente. Fino agli anni ‘90 si poteva (e lo si faceva) convertire una traccia audio in un file digitale ma era un processo dispendioso in termini di risorse e il file finale occupava molto spazio su disco. La storia vuole che, lavorando sulla decodifica di un brano di Suzanne Vega, un team internazionale coordinato dall’ingegnere Leonardo Chiariglione (*27), riuscisse a creare l’algoritmo di compressione mpeg. Il nuovo formato musicale mp3 – mpeg layer III – aveva un vantaggio rispetto agli altri: era estremamente compatto e nella compressione quello che rimaneva nel file finale erano soltanto le frequenze acustiche udibili dall’orecchio umano (*28). Con la disponibilità di file musicali rippati da audio cd si diffuse, in una internet ancora in fase di definizione, la pirateria audio e nacquero in poco tempo siti web che rendevano possibile il download di album interi per artisti di ogni genere. Era il periodo delle connessioni a 24/56k (*29), c’erano i forum e le newsletter, e stava emergendo lentamente quell’idea dell’internet come “territorio di nessuno”. Lo scandalo della dotcom sarebbe arrivato soltanto pochi anni dopo.

In quell’innovativo humus culturale, due amici, Sean Parker e Shawn Fanning, crearono un piccolo software che avrebbe rivoluzionato l’intera industria musicale. Si chiamava Napster (*30), era un programma di file sharing P2P e aveva un funzionamento che poi, in seguito, avrebbe mostrato le sue vulnerabilità. Permetteva in sostanza agli utenti di ricercare file mp3 contenuti nelle macchine degli altri utilizzatori del network. In questo sistema, Napster fungeva soltanto da indicizzatore delle risorse, mentre i computer locali degli utenti fungevano da archivio fisico. Il sistema purtroppo aveva una falla: quando l’industria musicale cominciò ad accorgersi del danno ricevuto, bastò buttare giù il server centrale per risolvere il problema. Fu soltanto con Gnutella e sopratutto con BitTorrent, due migliorati sistemi di P2P, che il processo non poté più essere interrotto.

BitTorrent in particolare, oltre all’assenza di un nodo centrale, aveva introdotto una interessante novità: gli utenti erano diventati essi stessi nodi del network e, attraverso il sistema del “segmented file tranfer”, si potevano scaricare pezzi di file da diversi nodi allo stesso tempo, accelerando così di molto la velocità totale del download. Inoltre, il protocollo utilizzava un algoritmo crittografico che rendeva virtualmente impossibile risalire a chi stava condividendo il file. Questo fu essenzialmente motivo per cui l’unica cosa che, legalmente, si riuscì a fare, fu di chiudere siti come PirateBay (*31) che indicizzavano le risorse. Ma chiuso un indice ne nasceva un altro e un altro ancora. E inoltre BitTorrent era soltanto un protocollo di scambio file, non un’azienda da poter chiudere. Nella realizzazione di una internet libera e indipendente andava dunque aggiunto un altro tassello fondamentale: la decentralizzazione.

Il Creative Commons
Erano passati appena 30 anni dalla definizione del protocollo TCP/IP che aveva reso possibile identificare e far comunicare i computer all’interno di un network, e giusto 10 anni dalla definizione del web come luogo dove i contenuti potevano essere condivisi attraverso il protocollo HTTP (HyperText Transfer Protocol). La “information superhighway” (*32) era giusto dietro le spalle e si stava creando nuovo terreno in cui internet sarebbe stata la piattaforma del futuro. In un universo come quello cyberpunk, dove la tecnologia stava ri-definendo regole e cancellando confini geografici, serviva un’idea, qualcosa di nuovo che delimitasse cosa e come, al pari del software, fosse appropriato condividere oppure no. Mentre sulle strade scoppiava la protesta e negli zainetti degli adolescenti circolava “No Logo” (#8) di Naomi Klein, in questo nuovo universo virtuale stava per nascere un’entità che avremmo avuto difficoltà a dimenticare. Era il gennaio 2001 e un giurista statunitense di nome Lawrence Lessing fondò l’organizzazione no profit Creative Commons (*33). L’idea che stava alla base dell’organizzazione era semplice ma ambiziosa: la ridefinizione del concetto di copyright. Era necessario creare un nuovo standard di regole in un mondo dove, virtualmente, le regole erano diventate assenti.

Pochi anni dopo, nel dicembre 2002, la CC rilasciò le 6 licenze che cambiarono il corso della storia:

Attribution // cc by
Questa licenza permette di utilizzare, modificare e distribuire, anche a scopo commerciale, l’opera originale a patto di citare la fonte.

Attribution Share Alike // cc by-sa
Questa licenza permette di utilizzare, modificare e distribuire, anche a scopo commerciale, l’opera originale a patto di citare la fonte. L’unica differenza con “cc by” è che il nuovo lavoro deve equipaggiarsi della stessa licenza dell’originale.

Attribution No-Commercial // cc by-nc
Questa licenza permette di utilizzare, modificare e distribuire l’opera originale a patto di citare la fonte. L’unica differenza con “cc by” è che il nuovo lavoro non può essere utilizzato per scopi commerciali.

Attribution No-Derivatives // cc by-nd
Questa licenza permette di utilizzare e distribuire, anche a scopo commerciale, l’opera originale a patto di citare la fonte. L’unica differenza con “cc by” è che il nuovo lavoro non può presentare modifiche rispetto alla versione originale.

Attribution No-Derivatives No-Commercial // cc by-nc-nd
Questa licenza permette di utilizzare e distribuire l’opera originale a patto di citare la fonte. L’unica differenza con “cc by-nd” è che il nuovo lavoro non può essere utilizzato per scopi commerciali.

Attribution No-Commercial Share-Alike // cc by-nc-sa
Questa licenza permette di utilizzare, modificare e distribuire l’opera originale a patto di citare la fonte. L’unica differenza con “cc by-nc” è che il nuovo lavoro deve equipaggiarsi della stessa licenza dell’originale.

Queste licenze fornirono a quelli che oggi chiamiamo i “creatori di contenuti” uno strumento importante per decidere se diffondere o no, se permettere di modificare o no, se condividere o no, un lavoro di cui erano gli autori. Era apparso quel fenomeno che avremmo chiamato “web 2.0”, dallo standard RDF stava per nascere il suo figlio illegittimo RSS (*34) e stava letteralmente per esplodere la condivisione dei contenuti. E, dalla storia, arrivò un altro piccolo regalo. Nel gennaio 2001, praticamente in contemporanea alla nascita della Creative Commons, un imprenditore statunitense di nome Jimmy Wales ideò una piattaforma aperta editabile dai suoi iscritti per creare una “sorta” di enciclopedia on-line. Si sta parlando ovviamente di Wikipedia (*35) e, già dalle prime release, cominciò ad utilizzare, al suo interno, una piattaforma open source chiamata MediaWiki. Wikipedia è attualmente editata in 313 lingue, ha più di 55 milioni di voci pubblicate, ed è letteralmente uno dei siti più popolari del mondo.

Passeranno pochi mesi e, nel numero #36 di Amazing Spiderman (*36), l’amichevole ragno di quartiere si staglierà fra le rovine dei grattacieli di New York mentre Doctor Doom, nella nona tavola, verserà le sue lacrime sulle vittime degli attentati. Nei testi di Straczynski e nei disegni di John Romita jr. si rappresenterà visivamente tutta l’angoscia di chi avrebbe potuto fare e non aveva fatto, di chi avrebbe potuto vedere e non aveva visto. Una tragedia che avrebbe ridefinito il mondo. Era arrivato l’11 settembre 2001 (*37).


Riferimenti
(*1) https://www.engadget.com/2020-03-04-seti-home-stops-for-now.html
(*2) https://www.wsj.com/news/articles/SB114221407089396217
(*3) https://www.screamingfrog.co.uk/adwords-history/
(*4) https://web.archive.org/web/20090216175708/http://browser.netscape.com/history
(*5) https://arxiv.org/abs/cs/0105018
(*6) https://web.archive.org/web/20120323162213/http://startup.nmnaturalhistory.org/gallery/notesViewer.php?ii=76_2&p=3
(*7) https://www.101computing.net/from-transistors-to-micro-processors/
(*8) https://learn.canvas.net/courses/4/pages/history-of-free-and-open source-software
(*9) http://altairbasic.org/
(*10) https://news.microsoft.com/2000/05/09/microsoft-fast-facts-1975/
(*11) https://apple2history.org/history/ah04/
(*12) http://www.ams.org/notices/200604/fea-davis.pdf
(*13) http://www.computinghistory.org.uk/det/2535/Commodore-VIC-20/
(*14) https://www.cs.vu.nl/~ast/reliable-os/
(*15) https://www.cs.cmu.edu/~awb/linux.history.html
(*16) https://www.linuxfoundation.org/
(*17) https://www.fsf.org/
(*18) https://open source.org/
(*19) http://www.catb.org/jargon/html/
(*20) https://arxiv.org/abs/1608.03445
(*21) https://www.gnu.org/philosophy/free-sw.en.html
(*22) https://www.democracynow.org/1999/12/2/the_battle_in_seattle_hundreds_arrested
(*23) https://www.amnesty.org/en/latest/news/2010/03/convictions-abuse-during-genoa-g8-protests-upheld/
(*24) https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/0163443720926039
(*25) http://purplebark.net/maffew/cat/imc-rave.html
(*26) https://wiki.p2pfoundation.net/Open_Publishing
(*27) https://www.scientificamerican.com/article/digital-revolutionary-int/
(*28) https://www.researchgate.net/publication/323969962_Compression_history_detection_for_MP3_audio
(*29) http://www.windytan.com/2012/11/the-sound-of-dialup-pictured.html
(*30) https://www.jstor.org/stable/1600355?seq=1
(*31) https://torrentfreak.com/the-piratebay-is-down-raided-by-the-swedish-police/
(*32) http://www.netvalley.com/cgi-bin/intval/net_history.pl
(*33) https://creativecommons.org/2005/10/12/ccinreviewlawrencelessigonhowitallbegan/
(*34) http://www.aaronsw.com/weblog/000574
(*35) https://history-computer.com/wikipedia-history-of-wikipedia-by-jimmy-wales-larry-sanger/
(*36) https://imgur.com/gallery/83xZp
(*37) https://www.theguardian.com/world/2001/sep/12/september11-usa



https://archive.org/details/un-luddista-si-dondolava



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Contatti
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calibre https://calibre-ebook.com/
gimp https://www.gimp.org/

Musica ascoltata
https://cryochamber.bandcamp.com

Copertina
immagine: https://www.deviantart.com/mclelun
font: https://github.com/googlefonts/Inconsolata

Licenza
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Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International (CC BY-NC-ND 4.0)

Avvertenza
Ogni lavoro ha dei refusi e/o errori. E questo non è differente. Nessun imbarazzo quindi: se trovate anomalie, sentitevi liberi di segnalarle all’indirizzo jolek78@tutanota.com. Le correzioni verranno inserite nella prossima versione. Grazie!



Licenza: CC BY-NC-ND 4.0
Prima bozza completata: 13/02/2021
Seconda bozza completata: 25/04/21
Terza bozza completata: 13/01/2022



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jolek78
Un tizio che pensava di essere uno scienziato. Si ritrovò divulgatore scientifico. Poi si addormentò su un aereo e si risvegliò informatico. Ma era sempre lui.

2 commenti

  • Interessantissimo
    ma faccio una fatica boia a leggere da pc
    ho provato a stampare usando l’apposita icona ma mi mette dentro praticamente tutta la Bottega, con dei margini che portano i capitoli a un numero ennesimo di pagine: la mia stampante protesta, il mio compagno mette veti di budget
    che alternative posso usare? non esiste un pdf?
    grazie per il lavoro!!!

  • chiedo subitissimo al compagno marketing (eh??) e ti faccio sapere 🙂

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