«Un mondo di mondi»: la storia globale e …

e i problemi del nostro tempo.

Intervista di Alberto Deambrogio a Giorgio Riolo (*)

Il libro che tu e Massimiliano Lepratti avete scritto si può per molti versi considerare “inattuale”. In un tempo come il nostro, caratterizzato da forti tensioni populiste, sovraniste e per altri versi piegato a un presente eterno da gestire tecnocraticamente, voi fate una scelta nettamente eccentrica, che si annuncia fin dal doppio esergo affidato ad Edgar Morin e Fernand Braudel: sguardo critico, globale, sistemico, attento alla complessità degli intrecci. Vuoi spiegarci perché è utile oggi ripercorrere la storia dell’umanità attraverso una precisa scelta metodologica e storiografica, che riprenda il lascito di intellettuali come appunto Braudel o Wallerstein, Arrighi, Frank, Amin, Wolf?

«Questo libro nasce dal desiderio di dare un contributo alla cultura critica e alternativa al corso dominante nel mondo contemporaneo. Tanto più necessaria oggi. Nella buona divulgazione della storia, in primo luogo, e, in secondo luogo, nel contrastare le concezioni dominanti nel nostro tempo. Essendo culture e subculture fortemente impegnate a mostrare che questo è “il migliore dei mondi possibili”, che “c’è stata storia, ma ora non più” (Marx). Il presente come ultimo stadio dell’evoluzione umana e pertanto reso eterno. Insomma, un libro che mira a contrastare la filosofia complessiva del neoliberismo e della globalizzazione capitalistica.

È un tentativo nella direzione della critica radicale dell’eurocentrismo, dell’occidentalocentrismo, del pregiudizio della “superiorità bianca”, anche a sinistra, dell’economicismo e del determinismo.

Le culture che hanno contribuito a formarci agiscono sempre. Il nostro vecchio terzomondismo, allora, tra fine anni sessanta e anni settanta, da palingenesi netta, da salvezza nostra attesa dal Sud del mondo, oggi, riveduto e corretto, agisce ancora, a mio parere efficacemente. E allora si guadagna una giusta visione della storia globale, delle dinamiche Nord-Sud, centri-periferie, degli apporti delle altre culture, delle altre civiltà, degli altri continenti. Si tratta di ripensare l’intero sviluppo umano.

Consideriamo solo il fatto che per tanti secoli l’Europa è stata “periferia”, mentre il mondo arabo-islamico, l’India, la Cina ecc. costituivano il baricentro del pianeta e dello sviluppo. Nell’economia, nello sviluppo della scienza, delle tecniche, nella cultura, nelle visioni del mondo.

In tutto questo avevamo come retroterra, nel nostro bagaglio culturale e politico, la lezione soprattutto di Fernand Braudel, di Immanuel Wallerstein, di Samir Amin e di altri storici e studiosi del sistema-mondo. Ovviamente a partire da Marx e dal sistema di categorie, di concetti, di nozioni, di metodi ecc. che abbiamo ereditato da Marx stesso e dai marxismi che hanno continuato intelligentemente la sua opera. Non dimenticando altri apporti, fuori dai nostri recinti, come gli apporti di studiosi così fecondi come Karl Polanyi.

Infine, dici bene, “inattuale”. Perché la tendenza nel neoliberismo e nel postmoderno affermato è quella di estirpare nella coscienza diffusa la dimensione storica dei problemi e la stessa possibilità di una visione unitaria, di cogliere i nessi e le interazioni tra i diversi aspetti della società e della storia. Questa operazione omologante, omogeneizzante, è decisiva per il potere.

Oltre l’effimero, oltre il frammento, si tratta di avere un orizzonte più vasto oltre l’immediato e oltre l’esperienza del singolo individuo, oltre la superficie e soprattutto si tratta di avere lo sguardo della “lunga durata” (la longue durée di Braudel). Il respiro della storia globale, appunto».

Il vostro testo, facendo tesoro di precedenti esperienze di tipo formativo, si pone anche direttamente sul terreno della trasmissione della storia. Quella che voi tentate insomma è, usando le parole dell’introduzione di Giordana Francia del CISP, “una operazione culturale” per “raccontare in modo semplice e accessibile a tutti la storia dell’umanità attraverso la lente di alcuni grandi temi”. Qual è secondo te lo stato di salute dell’insegnamento della storia nelle nostre istituzioni scolastiche? Quali potrebbero essere gli sforzi da fare, specialmente in ambito non accademico, per generare occasioni di educazione diffusa, basata su conoscenza globale della storia e dell’economia, nonché delle vicende del pensiero umano?

«È proprio questo. È un’operazione culturale nelle intenzioni. Quanto efficacemente conseguita, non sta a noi dirlo. Trasmettere a un pubblico largo, di persone anche senza formazione storica, ma che si pongono criticamente nei confronti della realtà, che la storia è questione importante nella formazione complessiva del cittadino e della cittadina. Oltre che nella formazione politica. Come, d’altra parte, in generale è la formazione umanistica. Ricordiamo sempre la famosa, commovente ultima lettera dal carcere di Antonio Gramsci al figlio Delio.

La storia come disciplina è messa male nella scuola. Già marginale ai nostri tempi, oggi diventa ancor più secondaria con il trionfo delle famose “3 i”, incoraggiate queste ultime da governi di centrodestra e di centrosinistra, dai mezzi di comunicazione di massa più diffusi. “Inglese, Internet, Impresa”, con in più la visione sacrale, indiscussa, “neutrale” della scienza e della tecnologia. Semplificazione perfetta di come il neoliberismo e il postmoderno modellano non solo la scuola, ma ancor più l’intera società. Con l’aggravante oggi del trionfo definitivo dell’effimero, del frammento, del narcisismo consumistico, delle parole in libertà ecc. dei cosiddetti social network e della rete.

Allora ancor più il compito nostro, in ogni dove, con tutti gli strumenti a nostra disposizione, compresi quelli politici, di attivismo politico, sociale, associativo, sindacale ecc., dovrebbe consistere in un lavoro quotidiano, ostinato, controcorrente. È il compito di sempre della controcultura e della controinformazione. Una ferma apologia della storia, della letteratura, soprattutto dei classici, della filosofia e del pensiero umano in generale. Comprese le visioni complessive, esistenti in tutte le culture umane, che denominiamo “religioni”, istituzionalizzate o meno, “positive” o meno.

Come sappiamo, per rimanere nei nostri ambiti, la politica privilegia l’immediatezza. E questo, in primo luogo per la sinistra politica e sociale, è veramente deleterio. L’etica e la cultura richiedono tempi più lunghi, ricadono nella braudeliana “lunga durata”. La scuola, l’università, la vita quotidiana, la vita sociale e la vita politica in generale sono interpellate. Si direbbe, con una facile battuta, pane, lavoro e cultura. Ma qui emergono i soliti, grandi problemi del lavoro, del tempo di lavoro, del tempo libero ecc. In breve, i problemi permanenti dell’emancipazione umana, degli uomini e soprattutto delle donne e dei soggetti deboli in generale».

In un capitolo da te curato si ricostruisce la genealogia dell’attuale livello della globalizzazione con tutte le sue disuguaglianze, i suoi rischi e i suoi baratri a partire da quello ambientale e climatico. Ancora una volta è Braudel che aiuta a ordinare ciò che si è sviluppato in tempi diversi: l’immediato della decisione politica, il tempo medio della tendenza economica, il lungo periodo dove sedimentano le culture. Come valuti l’attuale fase della globalizzazione?

«La concezione del tempo è questione veramente importante. Non solo in filosofia o nelle religioni. Abbiamo accennato prima alla questione del tempo e tu riporti bene il pensiero di Braudel.

Il pensiero dominante, va da sé, pone la globalizzazione come questione “neutra”, quasi fosse un dato di natura e non scaturente da precise dinamiche e da precise scelte. In realtà è altro nome della potente dinamica del capitalismo a espandersi, a occupare ogni angolo del pianeta, ogni ambito non- o semicapitalistico. Samir Amin preferiva usare la nozione di mondializzazione (anche perché privilegiava la lingua e la cultura francofona, oltre che araba).

La globalizzazione o mondializzazione del capitalismo non è fenomeno nuovo nella storia del pianeta. Dal XV secolo in avanti, la prima globalizzazione-mondializzazione si è dispiegata nella forma del colonialismo e della corrispondente rapina coloniale, un’altra globalizzazione-mondializzazione si è avviata a fine Ottocento-inizi del Novecento (imperialismo classico ecc.) e questa nella quale siamo immersi rappresenta la terza epoca di questa dinamica.

Dopo l’avvio del neoliberismo con l’avvento al governo di Margareth Thatcher e Ronald Reagan, la spinta decisiva è venuta dalla svolta del 1989 e dalla fine del socialismo reale. Con annessa fine del terzo polo mondiale dei movimenti di liberazione nazionale e dei progetti nazionali e popolari, come li definisce Samir Amin, dei paesi un tempo detti non-allineati.

Il capitalismo ha rappresentato dall’origine una grande accelerazione nell’esperienza umana. Ha messo la febbre al pianeta. Così nei riguardi dei gruppi umani e del lavoro salariato e nei riguardi dell’ambiente. Senonché con i mezzi tecnici e conoscitivi a disposizione nel nostro tempo, dalla fine del Novecento, questa accelerazione è divenuta vertiginosa. Così, parallelamente, nella spinta alla diseguaglianza umana e così negli effetti sull’ambiente e sul cambiamento climatico.

La sfida lanciata dalla globalizzazione neoliberista era ed è grande e all’altezza di questa sfida doveva essere pertanto la possibile risposta di chi oppone a questo stato di cose.

Con un’ultima osservazione. Dal lato dei dominanti le cose non vanno così bene. Non solo a causa della crisi economica, a partire dal 2008, e della crisi ambientale-climatica. La pandemia-sindemia ha rivelato la bancarotta del neoliberismo. Lo Stato e l’intervento pubblico tornano a essere invocati per la possibile riproduzione del sistema».

So per certo che non sei incline alla rassegnazione per lo spettacolo di macerie che abbiamo di fronte, sei stato non a caso tra i primi a organizzare la riflessione su questi temi nel nostro paese attraverso il seminale convegno milanese intitolato L’orizzonte delle alternative. Contro la globalizzazione dell’esclusione e della miseria (1999). Oggi il movimento globale nato 20 anni fa non gode di ottima salute, ma troppi l’hanno liquidato come semplice espressione della società civile mondiale, in grado di denunciare solo gli elementi più gravi di ingiustizia e diseguaglianza. È stato davvero così? Quali sono, pur nelle difficoltà, le emergenze positive di un movimento che ha provato e prova a restare su un livello immediatamente globale?

«Personalmente ho avuto la fortuna di collaborare con persone come Samir Amin e come François Houtart. Due figure grandi, è dir poco. Veri internazionalisti, veri esponenti di un terzomondismo maturo, non ingenuo, veri costruttori di movimenti sociali alternativi su scala mondiale. Veri costruttori della “convergenza nella diversità”, tra marxismo, cristianesimo, solidarismo laico e religioso, tra i vari movimenti e soggetti storici antisistema (operaio, contadino, ambientalista, femminista, dei diritti ecc.).

Già negli anni ottanta, con il Cipec, il centro culturale di Democrazia Proletaria, e poi con l’Associazione Culturale Punto Rosso. Sono stato da subito da loro coinvolto nella costruzione del Forum Mondiale delle Alternative (Fma) nel 1997. Nel gennaio 1999, il Fma promosse l’AltraDavos, a Davos stessa, a latere e in contrapposizione del Forum Economico Mondiale. Furono coinvolti alcuni esponenti del mondo intellettuale e dei movimenti sociali (Sem Terra brasiliani, sindacati sudcoreani ecc.), provenienti da varie parti del mondo.

E poi si tenne, nel novembre di quello stesso anno, quel grande convegno tenutosi a Milano. Impensabile prima. Il Fma, il Punto Rosso e Mani Tese come promotori, accanto ad altri organismi che hanno collaborato alla riuscita dell’iniziativa.

Dall’AltraDavos è venuta l’idea e la proposta di costituire annualmente, come risposta costruttiva e propositiva ai dominanti mondiali del Fem di Davos, un Forum Sociale Mondiale (Fsm), da tenersi in un luogo del Sud Globale, come visione alternativa della società e della storia. Con il Fsm Porto Alegre 2001 è iniziata la storia dei Forum Sociali Mondiali. Un inizio travolgente, veramente grande, emozionante.

Questo fino alla grande manifestazione globale contro la guerra Usa all’Iraq del marzo 2003. Il punto più alto. Dopo è iniziato un lento declino. Anche a causa del venir meno della solidarietà tra le varie anime del Fsm. Non mi dilungo. Il risultato è questo indebolimento di quel movimento altermondialista così promettente, così esaltante. Fuori dalla retorica e dalla metafisica che spesso investono i soggetti sociali e politici, anche alternativi. Movimento che sembrava veramente essere “la seconda potenza rimasta sul pianeta” (enfasi del New York Times di allora, gli Usa ovviamente la prima potenza).

Tutte le ragioni di questo movimento rimangono vivi e vitali, sono all’ordine del giorno. Perché la sfida della globalizzaizone neoliberista rimane. Anzi si aggrava. E l’attuale pandemia (o sindemia, che dir si voglia) mostra impietosamente tutte le minacce non solo ai gruppi umani e al pianeta, ma anche alla civiltà umana».

Nel libro è ben delineato il contributo che diversi filoni culturali, politici e anche religiosi hanno dato nel corso del tempo per conformare non solo l’idea, ma anche la pratica di alcuni principi come ad esempio quello di eguaglianza. In questa occasione mi interessa approfondire con te la feconda convergenza tra cristianesimo e correnti socialiste, comuniste, solidali. Come valuti gli odierni apporti della Teologia della Liberazione, in particolare degli ultimi lavori e interventi di Leonardo Boff, sul terreno di una teoria critica profonda e di una larga prassi trasformatrice?

«Qui tocchi un punto veramente decisivo. Prima evocavo la parola d’ordine “convergenza nella diversità”, contenuta nel Manifesto del Forum Mondiale delle Alternative. Giulio Girardi, un altro nostro comune ispiratore, altra bella figura nel nostro percorso formativo e nell’azione sociale e politica trasformatrice, parlava anch’egli di “confluenza”. Nell’arricchimento reciproco che marxismo e cristianesimo sperimentavano nella loro collaborazione-interazione.

Tutti noi, provenienti dai cristiani di base e dalla precoce militanza nei movimenti di allora, anche socialista e comunista, siamo passati attraverso il bagno purificatore della Teologia della Liberazione. Un processo, potente, vivo, vivificante, di coscientizzazione e di attivismo. Grazie ai vari Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff, José Ramos Regidor ecc. e grazie ai tanti cristiani da essa ispirati. Fino a che è comparso Karol Woityla, vero reazionario, vero esponente della Restaurazione, paladino dell’anticomunismo e della riproposizione del cattolicesimo come universalismo al pari dell’altro universalismo medievale, l’Impero, rappresentato dall’era moderna dal capitalismo.

La sua azione demolitrice è stata nefasta. Un solo dato. Nel Brasile tra anni sessanta e 1984, ispirate dalla Teologia della Liberazione, erano sorte circa 100.000 comunità di base, coinvolgenti milioni di persone. Con l’attacco senza quartiere di Woityla e delle gerarchie ecclesiastiche queste comunità sono state cancellate. Il risultato è stato che quel vuoto è stato negli anni progressivamente occupato, con il concorso di fondi statunitensi, dalle chiese evangeliche di matrice Usa. Base di massa di conservatori e reazionari, non ultimo base di massa del fascista Bolsonaro.

Nonostante tutto, oggi la Teologia della Liberazione continua la sua opera. Il pensiero di Leonardo Boff oggi è uno dei principali ispiratori dell’altermondialismo. Ed è, come dici tu, una vera e propria “teoria critica della società e della storia”, una delle voci più lucide della giustizia sociale e della giustizia ambientale, della giustizia climatica. Fonte viva di tanta società civile mondiale che si muove per un futuro migliore.

Non a caso, una voce potente proveniente dal Sud Globale. Dal “rovescio della storia”, dallo sguardo degli oppressi, come ama dire da sempre questa corrente del cristianesimo che interpreta e rende operante nelle alternative al sistema “il grido della terra” e “il grido dei poveri”».

Nel capitolo in cui fai i conti con l’attualità pandemica e con la sua capacità rivelatrice rispetto al sistema socio-economico in cui viviamo, provi anche a indicare direzioni di uscita, tutte da costruire, tra un’ipotesi “minima” di “Green New Deal” e una più “radicale” di ecosocialismo. Sappiamo bene che rimanendo anche semplicemente sul versante “minimo” non sarà per nulla facile. Non credi però che per coltivare bene l’utopia concreta sia utile ripensare la prassi umana fuori dai limiti della propria condizione di esistenza? Certo questo comporta fatica e sofferenze, perché un nuovo modo di cooperare non è immediatamente dato, ma va costruito. Su questo tema ha insistito a lungo Giovanni Mazzetti richiamando la fine dell’epoca del lavoro salariato, dei suoi vincoli organizzativi accanto alla necessaria e drastica riduzione dell’orario di lavoro. Tu che ne pensi di questo percorso di trasformazione sociale e di autotrasformazione individuale?

«Nell’ultima parte del libro, proprio come appendice dal momento che tutto è in evoluzione, si compendia il discorso sul mondo contemporaneo. È la crisi epidemiologica in cui siamo immersi a illuminare tutto. Lo stato del mondo nella dimensione economica e sociale e nella dimensione ambientale e climatica è “svelato”, “smascherato” dal Covid-19. In questa appendice si indicano provvisoriamente alcune alternative possibili a questo stato di cose.

E qui emergono alcune aporie della storia nostra. Della storia del movimento operaio, socialista e comunista. L’indugiare all’economicismo e al determinismo. A considerare gerarchicamente le contraddizioni dell’esistenza umana, della società e della storia. La primogenitura, assunta come scontata, della contraddizione capitale-lavoro salariato, fondamentale sicuramente, che oscura l’importanza della contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente, della contraddizione uomo-donna, di genere si dice, le contraddizioni potere-senzapotere, dei diritti umani ecc.

La collocazione sociale, il condizionamento sociologico, materiale, economico, sono naturalmente importanti, ma non esauriscono tutto. Elementi culturali e antropologici, l’etica, la cultura e la politica, diventano sempre più rilevanti. I condizionamenti strutturali, materiali, economici, rimangono, ma passano sempre attraverso il filtro di atti di coscienza. Insomma, i soggetti non sono dati. I soggetti vanno costruiti. O, meglio, si “autocostruiscono” attraverso processi di autoapprendimento collettivo, come è avvenuto nei movimenti antisistemici e nel movimento altermondialista.

Occorre ripensare e ridefinire le forme politiche e le forme organizzative. Oggi la morfologia sociale è profondamente mutata e parallelamente sono mutate le forme di coscienza. Non è possibile pensare di continuare con una forma-partito modellata secondo vecchie forme gerarchiche, verticali. Secondo il calco o modello della forma-impresa e della forma-Stato. Senza scadere nella visione minimalista, veltroniana per esempio, ma non solo, del cosiddetto “partito leggero”. Fatta salva l’importanza di sempre dell’organizzazione, quest’ultima risulta efficace se si adottano forme orizzontali, di gerarchie funzionali e non cristallizzate, fondate su relazioni di puro e semplice potere.

Si parla sempre di “nuovo”, di soggetto politico “nuovo”, aperto, inclusivo, non di testimonianza, non votato al minoritarismo ecc. Ma poi le mort saisit le vif. Il vecchio si impone sul preteso nuovo. La tradizione, la forza dell’abitudine, la persistenza delle vecchie forme prendono il sopravvento e rimane la scatola vuota delle parole “nuove”, delle frasi “nuove”, fino alla turlupinatura vera e propria. Triste quadro che condanna la sinistra, da quella moderata a quella alternativa, a non essere attrattiva per i soggetti sociali che dovrebbe rappresentare.

La riduzione del tempo di lavoro è all’ordine del giorno da molto tempo. Per ovviare alla disoccupazione da innovazione nelle tecnologie produttive, oggi molto aggravata questa disoccupazione a causa della crisi epidemiologica e dalla conseguente spinta ulteriore alla innovazione nei processi di produzione. Come si dice banalmente, un robot non si iscrive al sindacato o a un partito, non si ammala, non sciopera, non protesta.

Ma la riduzione dell’orario di lavoro significa molto di più. Contiene una dimensione antropologica e culturale. Oltre la visione tradunionistica, nella storia del movimento operaio ha significato avanzamenti di civiltà, di possibilità di una vita conforme alla dignità umana, di progettare e attuare nuove forme di vita, di organizzarsi socialmente e politicamente.

Così oggi. Nella sfera del tempo libero si decidono molte cose. A condizione che sia liberato a sua volta dalla morsa del consumismo, della sempre più netta invasione capitalistica di questa sfera decisiva, per trasformare il tempo libero, potenzialmente di liberazione umana, in tempo di consumo. Questo nel Nord del mondo.

Nel Sud Globale siamo sempre alle prese con condizioni ottocentesche e novecentesche nelle quali per le classi subalterne il tempo di vita coincideva con il tempo di lavoro. Altro che riduzione del tempo di lavoro.

Infine. Usiamo una espressione corrente. Il “Green New Deal”. Declinato secondo i contenuti della sinistra alternativa e dei movimenti sociali antisistemici, per noi significa un nuovo “patto sociale” e un nuovo “piano del lavoro”, ma entro un radicale ripensamento del rapporto uomo-natura e produzione-ambiente. Una radicale coscienza ambientalista non “accanto”, bensì “entro” le forme storiche del movimento operaio, socialista e comunista. Secondo la visione di cui sopra, aliena dalla concorrenza, o addirittura contraddizione, tra i soggetti del cambiamento.

Ancora una volta “convergenza nella diversità”. E l’ecosocialismo, o altrimenti detto socialismo ecologico, allora diventa acquisizione definitiva di un marxismo all’altezza dei problemi del nostro tempo. Questa corrente è ormai uscita dalla marginalità di convegni, riviste e libri e finalmente è approdata a coscienza diffusa in non trascurabili settori politici, sindacali e di movimento.

Ripeto, finalmente. Poiché siamo ancora colpevolmente indietro rispetto alla sfida di una aggressione alla natura e di un degrado ambientale mortali e di cambiamenti climatici così netti e non più negabili. Sebbene i negazionisti siano ancora all’opera nelle nostre fila. Il produttivismo, lo sviluppismo industriale e la visione ingenua del progresso non muoiono mai.

La qualità dello sviluppo implica una capacità di innovazione enorme. Altro che dibattito drogato della polarizzazione tra “crescita illimitata” e “decrescita”. E infine a decidere della qualità dello sviluppo, con György Lukács, è sempre la capacità di contribuire allo “sviluppo della personalità umana” e non solo allo “sviluppo delle capacità umane”. E qui il retroterra decisivo dell’aumento del tasso di etica e di cultura costituisce il fondamento necessario della buona politica. Non solo entro i partiti della sinistra. Tutto ciò investe anche i movimenti sociali, il movimento sindacale, l’associazionismo, il solidarismo, la società civile tutta. Nessuno può ritenersi esentato, nella sfera individuale e nella sfera collettiva».

(*) da Transform Italia.

Un mondo di mondi. L’avventura umana dalla scoperta dell’agricoltura alle crisi globali contemporanee di Massimiliano Lepratti e Giorgio Riolo è pubblicato da Asterios editore: 400 pagine, 30 euro.

Redazione
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