Un ricordo di Vittorio Curtoni

di Domenico Gallo (dal numero 95 della rivista PULP)

“E fanculo il cancro” (Vittorio Curtoni, 2011)

La fantascienza italiana è, in qualche modo, una specie di terra desolata in cui si rincorrono i miti del moderno, mai sinceramente amati, e la descrizione della sterile condizione umana che proviene da una tradizione letteraria nazionale nata da Pirandello e Svevo. Forse nella cultura italiana non c’è stata la digestione lunga decenni dell’oggetto “romanzo” che è avvenuta, invece, all’interno di altre letterature. Northrop Frye, nel suo saggio La scrittura secolare, fornisce strumenti analitici importanti per comprendere l’evoluzione del vecchio “romance” nelle forme letterarie contemporanee. “Nel realismo il tentativo è normalmente quello di tenere l’azione orizzontale, usando la tecnica di causalità nella quale i personaggi siano prioritari rispetto alla trama, ove il problema è normalmente: «dati questi personaggi, che accadrà?» Il romance è più di frequente «sensazionale», cioè si muove da un episodio discontinuo all’altro, descrivendo cose che accadono ai personaggi, per lo più, esternamente. Possiamo parlare di questi due tipi di narrativa come della narrativa dell’«onde» e dell’«e poi»” (La scrittura secolare, pag. 59, Il Mulino, 1978). A differenza di altri paesi, in cui abbiamo assistito a un ampio sviluppo di entrambe le forme, in Italia il realismo (almeno nella definizione che ne da Frye) è stato assolutamente predominante. Il romance ha trovato la propria strada all’interno della cultura popolare trasfigurandosi, fino a oggi, anche nella fantascienza.
Ufficialmente nata in Italia nel 1952, con la pubblicazione delle prime riviste, come Scienza Fantastica e Urania, con oltre trent’anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti, la prima fantascienza italiana è sostanzialmente costituita da romanzi avventurosi scritti sotto pseudonimo e che cercano di copiare i modelli letterari anglosassoni e francesi. Si trattava di un piccolo gruppo di appassionati che erano contemporaneamente scrittori, traduttori ed editori. Le riviste che li ospitavano avevano titoli come I romanzi del cosmo, I narratori dell’Alpha Tau, Cronache del futuro, Superspazio, e vivevano alterne vicende, spesso chiudendo dopo pochi numeri. A partire dal 1961 era apparsa in edicola anche Galassia, una rivista che pubblicò 237 numeri e che ebbe un ruolo importante nell’evoluzione dei modelli letterari della fantascienza nazionale. In particolare, a partire dalla fine degli anni Sessanta, la rivista riesce a presentare una serie di autori che incarnavano la migliore qualità letteraria espressa fino a quel momento dalla fantascienza mondiale, soprattutto in rapporto al superamento di quella rottura tra la tradizione del romance, con la sua attenzione alla costruzione delle situazioni, e la narrativa di stampo realista, così concentrata allo sviluppo della psicologia dei personaggi. A partire da Philip K. Dick, nelle cui pagine di Galassia sono tradotti Ubik e Il cacciatore di androidi, fanno la loro comparsa in Italia le opere più importanti di Barry Malzberg, Thomas Disch, Roger Zelazny, Samuel Delany, Raphael Lafferty, Michael Moorcock, David Compton, Charles Platt. Questo gruppo di autori costituiva l’avanguardia letteraria della fantascienza e le loro opere influenzarono profondamente alcuni degli autori italiani. Galassia, in quel periodo, era diretta da Gianni Montanari e Vittorio Curtoni, e soprattutto Curtoni giocherà un ruolo fondamentale nel modificare i centri narrativi della fantascienza italiana.
Nato il, 28 luglio 1949 a San Pietro in Cerro, un piccolo paese vicino a Piacenza, Vittorio Curtoni inizia giovanissimo a dedicarsi alla fantascienza, e a soli vent’anni inizia la sua esperienza di curatore di Galassia. In particolare nel dicembre del 1969, pochi mesi dopo lo sbarco sulla Luna della missione Apollo 11, cura, assieme a Gianni Montanari e a Gianfranco de Turris, l’antologia di racconti italiani Destinazione uomo. L’intenzione era di presentare una selezione di racconti in cui risulta “assolutamente predominante l’impegno introspettivo (…) che fa assumere sovente più importanza ai personaggi che alla trama”. Curtoni partecipa con un suo racconto intitolato “Ritratto del figlio”, una storia ambientata in un mondo in cui è scoppiata una guerra nucleare. Un contadino italiano si confronta sul proprio futuro con un militare statunitense, una sorta di invasore gentile sul modello della Seconda guerra mondiale. Nella nazione devastata dalle radiazioni, dove gli animali domestici sono mutati e diventati sterili, riprendono vigore “vecchie idee razziste”. Sin dai primi racconti Curtoni individua la fragilità della nazione uscita dalla guerra, vive in prima persona l’angoscia dell’equilibrio del terrore tipico della Guerra fredda ed è, come molti suoi coetanei, all’inizio di un percorso politico dai tratti libertari e ribelli. Nel gennaio del 1971, sempre su Galassia, appare un’ulteriore antologia italiana intitolata Amore a quattro dimensioni. Il racconto di Curtoni è “L’esplosione del minotauro”, una storia che propone in maniera molto diretta i temi di James Ballard. Sullo sfondo di una missione terrestre su Marte, un uomo costruisce una vendetta simbolica nei confronti del padre. Anni dopo, Curtoni commenterà il suo racconto e l’ispirazione ballardiana con queste parole: “e io penso che questo oscillare tra l’immaginario collettivo e l’immaginario individuale sia proprio una di quelle cose che all’epoca stavano più a cuore a Ballard”. Maggio 1972, mentre in Italia si sta sviluppano la strategia della tensione, esce una terza antologia coraggiosamente dedicata al futuro politico del paese. Sedici mappe del nostro futuro propone ancora un racconto di Curtoni; è “La vita considerata come un’interferenza tra nascita e morte”. La storia presenta esplicite influenze del volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Un prigioniero comunista è catturato e interrogato da soldati americani durante un’invasione dell’Italia avvenuta in una sorta di nuova guerra mondiale. Durante i suoi pochi giorni di prigionia, il cui esito è scontato, scrive al fratello, anche lui un partigiano in lotta “per salvare la nostra nazione dall’imperialismo americano”, le proprie riflessioni sull’esistenza. L’idea è di utilizzare l’esperienza storica della lotta antifascista in una chiave contemporanea, di collocarla all’interno della Guerra Fredda e della lotta contro i comunismi orientali. La scelta di Curtoni è chiara e amara, sceglie apertamente una parte ma da una prospettiva di debolezza, quasi di sconfitta inevitabile.
I tre racconti di Curtoni sono tra i più interessanti delle antologie e rappresentano proprio il tentativo di superare le limitazioni dei modelli letterari che Frye aveva individuato nel suo saggio. Questa scrittura mette in relazione Curtoni con quella particolare corrente della fantascienza mondiale identificata come New Wave. È forse l’unico scrittore, assieme a Mauro Antonio Miglieruolo, ad assimilare e a lavorare su modelli che, oltre all’ambientazione e alla trasformazione del presente, siano attivi sui personaggi e, contemporaneamente, sulla scrittura. Ma la priorità che Curtoni dedica ai personaggi è molto diversa da quella rigorosamente psicologica dei maestri italiani della letteratura tradizionale. Il romanzo Dove stiamo volando è, in questo senso fondamentale, infatti l’universo drammatico in cui i personaggi sono calati amplifica, e non appiattisce, le loro potenzialità psicologiche. Il mondo è stato sconvolto da una guerra nucleare e tra i sopravvissuti molti sono mutanti. Charles, il protagonista del romanzo, non sa se considerarsi maschio o femmina perché è nato senza organi sessuali. Questa sua differenza nascosta, e la conseguente incapacità di scegliere e praticare un’identità riconducibile a quella degli altri, lo porta ad abbandonare la casa paterna per intraprendere un lungo viaggio attraverso lande desolate verso Nuova Parigi e il suo ghetto. Lo accompagna uno strano essere, il minuscolo fratello Ivo. Nel ghetto, una riproduzione amara e diretta delle trascorse esperienze di segregazione razziale urbana, i mutanti vivono un’esperienza comunitaria che, vista l’epoca in cui è stato scritto il romanzo, risulta come una rappresentazione delle svariate versioni utopistiche e di egualitarismo sociale. Tuttavia la novità del ghetto, e la sorprendente esperienza di una socialità tra mutanti, in cui la differenza da una supposta normalità rende ognuno diverso, e quindi supera il concetto stesso di un canone fisico da rispettare, perde rapidamente la sua forza per smascherare la realtà di segregazione e di sottrazione delle libertà fondamentali. Separati e controllati dai normali, i mutanti vivono in miseria. “Tutti così siamo: caricature di qualcosa già immaginato, e la società ci rinchiude in una vetrina che non è di cristallo e neppure di vetro ma solo di rabbia, e ogni tanto ci viene a guardare e ci raccomanda di sopravvivere”; ma la rabbia esplode, e come gli ebrei del ghetto di Varsavia, i mostri dell’immaginario nazista, tentano una patetica e predestinata insurrezione. Tra i mutanti si svolge un dibattito sui temi della lotta armata e sulla giustificazione della violenza che difficilmente si può astrarre dal diffuso dibattito dell’epoca sulle prospettive rivoluzionarie e sulle risposte politiche e militari alla strategia della tensione. All’inizio del 1972, tenendo conto che alcuni elementi storici non si sono ancora completamente sviluppati, è sorprendente la lucidità con cui Vittorio Curtoni riesce a trasferire la sfera politica contemporanea al romanzo. La debolezza del progetto ribellista si dispiega in maniera tragica. I mutanti in armi sono vittima di un inganno. I normali, meglio armati e organizzati, dopo aver creato le condizioni materiali dell’insurrezione mutante, li attendono e ne approfittano per sterminarli. Ma la storia personale di Charles non si dissolve nel dramma di una generazione votata alla sconfitta, parallelamente Curtoni delinea un secondo piano narrativo che riguarda la presa di coscienza del protagonista attraverso la trasformazione sessuale del corpo, la scoperta dell’amore, fino al disvelarsi di un secondo inganno. L’uomo che si era finto suo padre, che aveva spinto Charles a raggiungere Nuova Parigi, attendeva il suo ritorno e la scontata scelta di operarsi e scegliere un sesso, quello femminile. L’uomo la violenta, e, dopo l’atto, Charles lo uccide; ma il dramma non si conclude con l’omicidio. Il piccolo Ivo è in realtà una creatura sintetica, “nell’interno del suo involucro la lucida successione dei pezzi metallici, transistors diodi altoparlanti avvolgimenti commutatori rélais, tutto ciò che lo faceva sembrare una creatura umana”. Il minuscolo mutante non era altro che un robot, uno strumento artificiale di una serie di inganni concentrici organizzati dal falso padre. La densità dei temi che Curtoni riesce a presentare nel romanzo è impressionante. Dove stiamo volando si rivela essere una ricerca politica e antropologica alla pari di un altro importante romanzo dell’epoca, Una favolosa tenebra informe di Samuel Delany, meglio noto in Italia con il titolo di Einstein perduto. In entrambi i romanzi assistiamo al tentativo di una generazione di comprendere il proprio passato attraverso la scoperta e riscoperta del linguaggio e di protendersi verso il futuro, nella prospettiva di porgere strumenti e conoscenze destinate a una continua trasformazione.
Non deve quindi stupire che Vittorio Curtoni diventi rapidamente il riferimento letterario per un’intera generazione di nuovi lettori. L’intero universo letterario che trabocca da Dove stiamo volando (di cui si sono tralasciate le innovazioni stilistiche e l’evidente rapporto con la controcultura dell’epoca) si riversa nell’impostazione di una nuova rivista dedicata alla fantascienza che esce in edicola nell’aprile del 1976. Robot si presenta con un’insolita formula alla statunitense, completamente diversa dalla monolitica e asettica linea di Urania. I racconti sono alternati a informazioni e brevi saggi, ma, soprattutto, la rivista è un luogo in cui convergono le tensioni letterarie e culturali di quel periodo. Fedele alla lezione della New Wave e di New Worlds, anche se non ne riprende lo sforzo grafico di associare alla narrativa una serie di provocazioni visuali che caratterizzarono l’ultima fase della rivista inglese, Curtoni presenta in Italia le più importanti firme della narrativa breve di fantascienza come Sturgeon, Ellison, Dick, Delany, Malzberg, Disch, Lafferty, Bester, Sheckley. La rassegna dei primi venti numeri è in grado di evidenziare che la fantascienza sta complessivamente elaborando e realizzando quello sforzo di evolvere il modello puramente dedicato alla descrizione del contesto per integrarlo con una sempre più profonda attenzione all’elemento umano e alle sue trasformazioni. Ma la provocazione di Robot, così distante dall’apparente casualità dei titoli di Urania e dai modelli avventurosi e semplicistici degli italiani nascosti da grotteschi pseudonimi, non poteva che naufragare su un tema che era basilare e non poteva essere evitato: il rapporto fra scrittura e politica. Non è necessario oggi ripercorrere quella che, anziché essere una fondamentale riflessione sul rapporto tra letteratura e potere (un argomento addirittura classico del dibattito culturale), sia rapidamente degradata in una sterile e surreale polemica. Oggi possiamo constatare che la fantascienza, e soprattutto il fantasy, sono stati per oltre 30 anni un ambiente privilegiato di sviluppo per una sorprendente teoria letteraria e ideologica riconducibile agli ambienti più radicali della cultura di destra. Su questo tema Vittorio Curtoni, ancora una volta in anticipo sugli aspetti culturali fondamentali della sua epoca, viene pesantemente sconfitto. Nell’ottobre del 1978 abbandona la direzione della rivista, forse stanco delle polemiche e della mancanza di coraggio di molti lettori. Attorno a lui il Paese sta entrando in quel vortice che qualcuno ha definito “anni di piombo” (forse travisando il senso del titolo di un film di Margarethe Von Trotta, Die bleierne Zeit, che alcuni studiosi tendono ora a tradurre come anni plumbei e riferendoli al periodo nazista). Furono anni plumbei anche per la fantascienza italiana e caratterizzati da una pesante ristrutturazione letteraria segnata dall’abbandono di quel processo di rinnovamento stilistico e di capacità di rappresentare temi importanti della sfera culturale contemporanea.
Il percorso di Curtoni prosegue come scrittore di racconti. Una produzione attenta, rigorosa e rarefatta. Nel 1976 appare La sindrome lunare e altre storie che contiene racconti importanti, proprio come “La sindrome lunare”, che presta il titolo alla raccolta, e che solo superficialmente può essere liquidata come una ispirazione ballardiana. La narrazione si sviluppa lungo un percorso  costantemente indeterminato. Forse in conseguenza di un bombardamento con allucinogeni, quattro personaggi , o quattro elementi autonomi della stessa  psiche, raccontano in prima persona lo specifico destrutturarsi della loro realtà. Probabilmente ispirato al romanzo di Brian Aldiss Barefoot in the Head, che descrive proprio di un mondo sconvolto da bombardamenti effettuati con sostanze allucinogene, il racconto di Curtoni mantiene un costante aggancio alla realtà politica italiana. “È cominciato tutto quando quei cretini dei comunisti si sono lasciati prendere la mano dagli estremisti, dagli studenti, dai poliziotti”. La fantascienza di Curtoni inizia a implodere, intuendo quel collasso dell’immaginario sul reale che, in seguito, caratterizzerà tutta la cultura postmoderna. Poi “La luce” e “Volo simulato”, sempre attenti alla lezione di Ballard ma mai scontati.
Dopo qualche anno Vittorio Curtoni torna in edicola con una nuova rivista, Aliens; superficialmente potrebbe sembrare che riprenda la formula di Robot, ma è evidente che non si pone alcuna delle sfide che avevano caratterizzato l’esperienza precedente.
Dopo anni di lavoro oscuro di traduttore, esce una nuova antologia, Retrofuturo, con una introduzione di Valerio Evangelisti che, per primo, si addentra all’interno della complessità della sua narrazione. “L’esplosione del Minotauro” e “La volpe stupita” sono certamente le storie più interessanti della raccolta. Nel primo viene descritta, in una nuova versione, sempre calandola in quelle atmosfere patologiche che si attribuiscono a James Ballard, una storia di vendetta verso il padre che sembra richiamare il finale di Dove stiamo volando, ma è il problema della percezione del tempo a impegnare quasi tutti i racconti dell’antologia. Nel 2001, su Urania, un’altra antologia intitolata Ciao Futuro, una collezione di racconti già pubblicati affiancati ad alcuni inediti. I nuovi lavori sembrano sfuggire a un denominatore comune, e forse “Quando avrò 64 anni”, un bel racconto sul mito del rock e sulla sua morte, è proprio il segno di un progressivo allontanamento dal tentativo di usare la fantascienza per analizzare il contemporaneo.
Nel 2003 riprende la pubblicazione di Robot. La fantascienza sta vivendo da anni una crisi di creatività a livello mondiale, troppo lontana dai capolavori degli anni Sessanta e Settanta, ma soprattutto è schiacciata dal diffondersi a ogni livello di un immaginario visuale e virtuale che procede a una rielaborazione della realtà troppo tempestiva. La nuova Robot sceglie coraggiosamente una realtà di nicchia, coerente con le nuove forme assunte dalla fantascienza. Vittorio Curtoni, sicuramente consapevole che questo genere letterario ha modificato il proprio ruolo privilegiato di lettura della realtà, sembra avere abbassato il livello di provocazione che lo aveva contraddistinto. Poi, improvvisamente, la notizia della malattia, quel cancro che era stato una costante dei suoi racconti, una sorta di ribellione dei corpi costretti a vivere le esistenze mutanti provocate dalle guerre nucleari o segno del manifestarsi di una patologia del corpo che risuona con il disagio della psiche dei suoi personaggi. Il 2011 è l’anno della sua ultima antologia, Bianco su nero e altre storie, ma ciò che colpisce è il gioco del destino della sua morte. Il 4 ottobre muore e dopo poco tempo esce il numero 64 di Robot. Probabilmente l’editoriale è il suo ultimo scritto, ed esce qualche settimana dopo la sua scomparsa. La citazione che apre questo ritratto letterario è tratta proprio dalle ultime sue righe: “e fanculo il cancro”.

Redazione
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  • Bellissimo articolo, bellissimo saggio. Complimenti. Vic, sei sempre con noi.

  • Bell’articolo, Nico. Sarà forse il caso di ricordare che “Dove stiamo volando” è stato appena ripubblicato da Urania e che il racconto “La vita considerata come un’interferenza tra nascita e morte” è stato riproposto nell’antologia “Ambigue utopie” (Bietti 2010): per non dimenticare Vic.

    • Come giustamente Gipiquadro ricorda “Dove stiamo volando” arriva in edicola – a metà febbraio 2012 – come numero 109 di Collezione Urania: 336 pagine per 5,90 euri. C’è il romanzo (del 1972 ma con un capitolo inedito), 6 racconti eccetera. La mia recensione è in blog alla data 7 febbraio. Non perdetelo ma se per caso vi scappa tenete presente che nel 2011 Delos Book ha pubblicato (io ancora non l’ho letto) un’altra antologia di Curtoni intitolata “Bianco su nero e altre storie”.

  • La fantascienza come “lettura privilegiata della realtà” non mi convince. (Perché poi ancora privilegi?) Da amico intimo di Vittorio, ma da suo lettore non completista, mi sembra di poter dire che fosse uno scrittore molto arrabbiato e un uomo tormentato. Non avrebbe potuto – né avrebbe voluto, credo – aspirare al ruolo di acutissimo interprete del reale perché sapeva che altri lo avevano preceduto su quel terreno. Non era mica un superficiale, Vitt; sapeva che c’erano già stati i Kubrick, i Ballard, i Dick, i Moorcock, i Disch e in Italia gli Aldani. Dopo quei cannoni tu potevi al massimo aggiustare il tiro, quanto a precisione radiografica del nostro scombussolato presente. Potevi però (ed è questo che lui ha fatto, diventando una voce personale della narrativa) mettere in croce te stesso. Nella vita “reale” e sulla pagina. Dissezionandoti, lacerandoti, mostrando le piaghe purulente inferte a te e agli altri, arrabbiandoti, volendo distruggere tutto (fanculo il cancro: ma che frase è…?), ti conquistavi più di una nicchia, anzi un posto di qualche rilievo nella tradizione del malessere letterario italiano. A ben pensarci, nei suoi racconti non c’è abbondanza di utopie positive: quel ruolo, nella vita di Vittorio, l’hanno avuto le sue riviste. “Galassia”, “Robot” e “Aliens” sono state utopie per lui nient’affatto ambigue. Come curatore poteva permetterselo, come autore molto meno.

  • Grazie Giuseppe di avere aperto prospettive nuove alla lettura dell’Opera di Virttorio Curtoni.Spero tu voglia allargare e approfondire il punto di vista esposto. Io lo condivido, altri forse no, ma anche a questi ultimi credo non dispiacerebbe leggere eventuali approfondimenti.

  • Quello che volevo dire è che per interpretare il reale (non parliamo poi di interpretarlo “in modo privilegiato”), occorre imbastirne una rappresentazione ad ampio respiro, come fu ad esempio quella di “Come ladro di notte”. Vittorio ha lavorato meno in questo senso – sebbene in alcuni punti di “Dove stiamo volando” vi si avvicini considerevolmente – che sull’altro versante, quello di descrivere un malessere e il disagio di una condizione. Vedo la sua narrativa più come autobiografia che come analisi del tempo. Ha traslato molto bene le angosce di un uomo degli anni Settanta e Ottanta nella forma narrativa che gli era congeniale, il racconto, ma nel concentrarsi su questo sforzo capillare ha tralasciato, dopo il primo romanzo, tentativi di sintesi più vasta. Certo che un autore non può essere giudicato in base a un solo aspetto della sua produzione: Vittorio Curtoni è stato anche curatore, traduttore, organizzatore, eccetera. In questo senso è stato, più di tutti quanti noi, l’Uomo-fantascienza del XX secolo, colui che ha finito per identificarsi con una poetica e il suo costume, influenzandolo radicalmente. Della complessa realtà che gli stava intorno ha scelto un facet, un aspetto, e lo ha giocato abilmente, facendone un termometro del suo umore. Umor nero a volte, aggraziato in altre occasioni, certo molto più stratificato e allusivo di quello che un racconto o un articolo possano lasciar trapelare esplicitamente. Così, io penso a Vittorio come a un iceberg di cui abbiamo visto soltanto la punta; sotto c’è molto altro, ma è da scoprire con l’immaginazione e la sensibilità, perché a chiare lettere lui non l’ha detto.

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