Un ritratto di Desmond Tutu

Vescovo anti-apartheid, premio Nobel per la pace, sostenitore della “teologia nera”. Uno degli uomini che più ha contribuito a evitare che la scelta in Sudafrica fosse fra un razzismo mostruoso e una guerra civile sanguinosa.

Nato a Klerkdorp il 7 ottobre 1931, Desmond Tutu a 12 anni si trasferisce a Johanneburg. Vorrebbe diventare medico ma la sua famiglia non può pagargli l’università. Studia al Pretoria Bantu Normal College, poi insegna alla Johannesburg Bantu High School. Quando viene approvato il Bantu Education Act dà le dimissioni per protestare contro la discriminazione dei sudafricani neri. Continua i suoi studi in teologia e nel 1960 è ordinato sacerdote anglicano. Nel 1972 è nominato vice-direttore del “Fondo per l’educazione teologica” del Consiglio mondiale delle Chiese e poco dopo diacono alla cattedrale St. Mary a Johanneburg, prima persona non bianca a tale incarico.

Nel 1976 le proteste di Soweto si trasformano in una massiccia rivolta contro l’apartheid, seguita da un massacro con oltre 500 morti. Nella repressione successiva viene arrestato, torturato e ucciso Steve Biko, il giovane leader della «black consciousness» che a Tutu si ispira. Da quel momento Tutu appoggia il boicottaggio economico del suo Paese e per questo il governo gli ritira il passaporto. Nel ’78 diventa segretario generale del Sacc (Consiglio ecumenico delle Chiese sudafricane) e può contestare l’apartheid con il consenso di quasi tutte le Chiese. I suoi scritti sulla “teologia nera” e sul “Vangelo del perdono” si trovano in «Anch’io ho il diritto di esistere», tradotto da Queriniana nel 1985. Continua a cercare una via pacifica alla tragedia sudafricana e il 10 ottobre 1984 il suo impegno gli vale il Premio Nobel per la pace.

Dopo la fine dell’apartheid, Tutu guida la “Commissione per la verità e la riconciliazione”. Su questa importante e complessa esperienza esistono in italiano molti libri; vale consigliarne due: «Verità senza vendetta», curato da Marcello Flores per Manifesto-libri nel 1999 e «Guarigione di popoli» di Maria Chiara Rioli (Emi, 2009) che mette a confronto l’esperienza sudafricana con quella successiva in Sierra Leone. Dopo la fine del regime razzista non ha certo abbandonato il suo impegno per la giustizia, trovandosi talvolta in disaccordo con i governi “a guida nera”.

Il suo impegno non si limita al Sudafrica. Tutu giudica il trattamento dei palestinesi da parte dello Stato di Israele una forma di apartheid. Pochi mesi fa, durante l’assedio di Gaza, firma (con Vaclav Havel e altri) un appello dove fra l’altro si legge: «Perdere tempo è sempre deplorevole. Ma il tempo perso in Medio Oriente è anche fonte di pericolo per tutti». Da tempo denuncia con forza anche gli abusi e le violenze di Robert Mugabe, al potere in Zimbabwe, definendolo «la caricatura di un dittatore africano».

Commentando l’elezione (nell’agosto 2003) di Gene Robinson, dichiaratamente gay, a vescovo della Chiesa episcopale statunitense, Tutu afferma: «Nella nostra Chiesa qui in Sudafrica, ciò non fa differenza. Possiamo solo dire che, al momento, noi riteniamo che dovrebbero rimanere celibi e quindi non vediamo quale sia il problema». Commentando l’elezione di Ratzinger, Tutu si dice «rattristato» perché giudica improbabile che la Chiesa cattolica cambi la sua opposizione ai preservativi nella lotta all’Hiv-Aids in Africa: «Avremmo sperato in qualcuno aperto ai più recenti sviluppi del mondo e alla questione del ministero delle donne». Auspicando invece l’elezione (poi avvenuta) di Obama a presidente degli Usa, Tutu dichiara: «Se salirà alla Casa Bianca inizierà una nuova era (…) Sarà meraviglioso per tutte le persone di colore del mondo, ma quelli che per esempio hanno acclamato Obama in Germania non erano solo neri. (…) A volte si parla di sentimenti antiamericani. Non è la mia esperienza. Di sicuro in molte parti del mondo c’è un risentimento contro l’atteggiamento arrogante e unilaterale degli Stati Uniti, che si comportano a volte come un bambino litigioso. Un Paese che rifiuta di firmare il protocollo di Kyoto (…) è una minaccia contro l’esistenza stessa dell’umanità. Un Paese che invade l’Iraq (…) qualcosa che si è tramutata in un disastro orrendo. Speriamo il nuovo governo si tiri fuori da quella brutta macchia che è Guantanamo (…).I Paesi ricchi devono rivedere i princìpi fondamentali del capitalismo, che tende a esaltare alcuni degli aspetti meno nobili del carattere umano».

BREVE NOTA

Questa mia scheda è uscita nella primavera-estate 2009 in un numero speciale della rivista «Confronti». (db)


 

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