Un romanzo avvelenato
Gran libro «La fabbrica della felicità» di Giulio Di Luzio: dunque i media – quelli presunti grandi – non ne parleranno
«E’ meglio morire del male che di fame» oppure «Non fa niente che io crepo ma mio figlio deve lavorare lì» (sottinteso: come “indennizzo”): frasi simili ne ho sentite anche io varie volte da chi è nelle fabbriche della morte o da chi vive nei pressi e “gode” della ricchezza indotta e dei veleni connessi. Ma ne ho ascoltate anche di opposte, per fortuna: «bisogna distruggere un sistema che non mette limiti al profitto anche se questo significa dare ai padroni licenza di uccidere» così mi scrisse anni fa in una lettera/volantino un giovane/vecchio amico “operaiaccio”.
Mi sono fermato più volte a riflettere leggendo il romanzo «La fabbrica della felicità» (148 pagine per 14 euri) appena uscito da Stampa Alternativa, esordio narrativo del giornalista e blogger Giulio Di Luzio. Rivedevo così i volti di amici operai e di persone che ho conosciuto, magari di corsa, quando facevo due strani mestieri cioè il militante (del gruppo Lotta Continua) prima e poi il giornalista. Non credo che si possa essere neutrali neppure facendo il cronista, tanto è evidente che l’intera organizzazione del lavoro si preoccupa di fare risparmiare ai padroni tutti i soldi possibili, persino quelli che dovrebbero servire per tutelare la salute di chi lavora dentro le aziende o di chi vive lì intorno.
E’ soprattutto la chimica a uccidere come in «La fabbrica della felicità», basato su una tragica storia vera (di Manfredonia). Qui il primo veleno è la bugia del padrone buono venuto dal Nord per aiutare i poveri terroni.
E’ bravo Di Luzio a mostrare la strana alleanza fra il giovane medico Nicola La Porta – all’inizio «barricato nel mondo chiuso e ovattato della medicina e del suo potere indiscusso sull’uomo» – e Maurizio Russo, operaio ingenuo, scrupoloso e così stakanovista da esser diventato un capoturno. Impareranno molto l’uno dall’altro.
La voce narrante è spesso affidata al figlio: sono belli alcuni passaggi (i riti della domenica, i «sassi parlanti», gli studi come risarcimento sociale) dove i fatti sono immersi nella sua crescita difficile, nelle ignoranze, incertezze e paure.
«Una enorme nube biancastra»; è “l’incidente” del 26 settembre 1976 ma ci vorranno quasi 20 anni perché Maurizio Russo sappia di cosa si è ammalato, come e perché… per poi scoprire anche i medici di fabbrica sapevano, da subito, ma hanno taciuto. A esempio «arsenico» dev’essere una mala parola se nessuno fra quelli in camice bianco o in cravatta la pronuncia mai. Come fra i «tecnici» che sembrano avere una scienza infusa, però nei reparti non vengono.
Non racconterò la storia: anche se non è un “giallo” ci sono molti colpi di scena, psicologie, intrecci che sarebbe sbagliato rivelare. Leggetelo, è un gran libro.
In fabbrica «si parlava di tutto: dalle cosce delle dive… al calcio». Di tutto «tranne che di salute»; a quella ci pensa «il commendatore», com’è buono e non bisogna fargli «uno sgarbo» mettendo in giro certe voci.
Chiuso il libro, molte immagini, persone e frasi restano in mente: Renato, «l’operaio topo»; i giornalisti asserviti; «Perché se qualcuno ha sbagliato non deve pagare?»; il medico di fabbrica che fa fortuna e l’altro che carriera non farà ma spiega «il gradino più alto è accanto al paziente»; «la grattatrice»; il sindacato assente quando servirebbe; il coraggio e l’amore di alcune donne; «il male che cammina»; le toghe nere e l’avvocatessa controcorrente; gli interrogativi che ronzavano «come le zanzare ad agosto, ne schiacci due e ne trovi altre dieci». Se leggete questo libro fra tutte le infamie quella sui crostacei forse vi sembrerà frutto di pazzia… invece è cronaca “giudiziaria”.
C’è una frase del dottor La Porta che vale citare quasi per intero: «Nella nostra formazione la malattia non ha nulla a che vedere con la storia di chi lavora… E’ questo l’errore». Negli anni ’70 molti – relativamente molti, diciamo qualche migliaio di persone – compresero quell’errore cercando, in fabbrica e fuori, di trovare un’altra strada, un diverso sapere, nuove alleanze.
Nella bella prefazione scrive Gianni Vattimo: «vale la pena di salutare questo libro con sincero entusiasmo». Sottoscrivo in pieno. Sempre evviva Stampa Alternativa per il coraggio.
Nei «ringraziamenti finali» Giulio Di Luzio conferma che è tutto vero – quell’operaio si chiamava Nicola Lo Vecchio – ma trasformare le vicende in romanzo ovviamente gli ha consentito una maggiore libertà narrativa, soprattutto nella psicologia.
In apertura del romanzo c’è la frase di una canzone di Pierangelo Bertoli: «i crimini contro la vita li chiamano errori». Teniamole a mente queste poche, chiare parole e soprattutto quando – quasi ogni giorno – ascoltiamo “la voce del padrone” fedelmente amplificata dalla stragrande maggioranza dei media.
…avevo proprio voglia di un libro del genere, lo compro appena possibile.