Una brava ragazza

di Roxane Gay

tratto dall’articolo “What we hunger for” (12 aprile 2012): traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo. Roxane scrive per svariate riviste. Il suo sito è http://www.roxanegay.com

Quando ero ragazzina – vecchia abbastanza perché mi piacesse un ragazzo ma troppo giovane per capire cosa significava davvero – credevo di avere un “fidanzato”. Lui diceva di essere il mio ragazzo anche se a scuola faceva finta di non conoscermi. E’ una storia triste e sciocca che un mucchio di ragazze sanno sin troppo bene. Lui era bello, popolare e persuasivo. Io ero una sgobbona senza amici. Perciò, accettavo le cose come stavano.

Quando eravamo insieme, mi diceva cosa voleva che io facessi. Non mi chiedeva se volevo fare o no quella determinata cosa. Io non ero ne’ ritrosa ne’ volonterosa. Non provavo niente comunque. Volevo solo che lui mi amasse. Volevo che fosse felice. Se manipolare il mio corpo lo rendeva felice, facesse pure. Il mio corpo non significava niente per me: era solo carne e ossa attorno al mio vuoto interiore. Non facevamo sesso nel senso della penetrazione, ma tutto il resto sì. A scuola, lui continuava a fingere che io non esistessi. Mi sentivo morire, ma ero contenta. Ero felice perché lui lo era. Ero felice perché pensavo che se gli avessi dato abbastanza avrebbe potuto amarmi. Ora che sono adulta, non capisco perché gli ho permesso di trattarmi in quel modo. Non capisco come lui abbia potuto essere così farabutto. Non capisco perché mi sono sacrificata così disperatamente.

Ero la cosiddetta “brava ragazza”. Sempre la migliore della classe. Obbedivo. Ero rispettosa con i più anziani, affabile con i più piccoli. Andavo in chiesa. Non mi è mai passato per la mente che potevo dire di no. Lui cominciò a far pressione perché facessimo sesso veramente. Io non dissi di no e non dissi di sì. Volevo dire di no, ma non potevo farlo, perché allora lo avrei perduto e sarei stata di nuovo una nullità.

Un giorno andammo a fare un giro in bicicletta nel bosco. All’interno, dopo circa un miglio, c’era un capanno da caccia abbandonato che era spesso usato dagli adolescenti per fare le cose che gli adolescenti fanno quando si nascondono nei boschi. Era un luogo piccolo e disgustoso, sporco, pieno di lattine di birra schiacciate, pacchetti vuoti di sigarette e preservativi usati. C’era una panca. E una finestra dai vetri rotti. C’erano pure un bel po’ dei suoi amici di scuola. Non li conoscevo, li avevo solo visti nell’atrio o in cortile. Erano tutti carini e popolari: non avevano ragione di socializzare con una ragazza come me, quieta, timida, stramba. Non ho capito subito cosa stava accadendo. Nonostante tutto ero davvero molto ingenua. Ma non ero a mio agio. Gli dissi che volevo continuare il nostro giro in bicicletta. Questo lo feci. Tentai di salvarmi. Erano tutti fisicamente più grossi di me e io cominciavo ad avere paura. Avevo paura, ma non sapevo come dire di no. Tentai di correre fuori dal capanno, ma mi presero appena fuori la porta. Ho urlato. Ho aperto la bocca e ho gridato ed il suono delle mie grida echeggiava nel bosco e nessuno è venuto al mio richiamo. Nessuna persona mi ha sentito urlare. Il capanno era troppo in profondità, nel bosco.

Il ragazzo che io credevo essere il mio “fidanzato” mi ha sbattuto a terra. Mi ha tolto i vestiti e io sono rimasta là, senza corpo, solo un mucchio flaccido di pelle e ossa di ragazzina. Ho tentato di farmi scudo con le braccia, ma non ci riuscivo. Gli altri ragazzi mi guardavano, ridevano bevendo birra e dicevano cose che non capivo, perché ero brava a scuola e però non sapevo nulla di quello che un gruppo di ragazzi può fare a una ragazza. Io credevo in Dio, così pregai. Pregai Dio di salvarmi perché non potevo salvarmi da sola. Ho sussurrato il “Padre Nostro” perché era l’unica preghiera che sapevo a memoria: andavo in chiesa, ma la maggior parte del tempo che passavo là dentro lo passavo sognando. Ho implorato Dio di farli smettere. Non ha risposto. E allora ho detto di no, ho trovato la voce, e non mi è più importato di gettar via il mio primo amore, il mio primo amore per un ragazzo che aveva di me una stima così bassa.

Mi hanno tenuta là per ore ed ore. E’ stato terribile come immaginate. Sono tornata a casa spingendo la bicicletta, odiandomi per aver pensato che quel ragazzo mi amasse. Ero una brava ragazza e una brava ragazza era ciò che i miei genitori dovevano vedere anche se tornavo a casa essendo completamente differente. Mi sono chiusa nella mia stanza e mi sono rimessa in ordine abbastanza per essere quel che loro volevano io fossi. Nascosi tutto. Non volevo passare guai: i miei genitori erano severi, e non si deve far sesso prima del matrimonio, e io ero una brava ragazza. Così ingoiai la verità, che andò semplicemente ad allargare quel vuoto che mi portavo dentro. Non volevo più andare a scuola, ma non avevo scelta, se volevo continuare ad essere una brava ragazza. Entrai nella classe di Francese e sedetti in seconda fila. Poco prima che la lezione cominciasse, il ragazzo seduto dietro di me mi afferrò la spalla: provai un flusso di adrenalina e di terrore. Lui si chinò verso di me. “Puttana”, mi disse. E tutti intorno lo sentirono e ghignarono. Da quel giorno in poi chiunque a scuola mi chiamava così. La vergogna era la cosa più brutta che avessi mai provato. “Puttana” fu il mio nome per il resto dell’anno scolastico, perché i ragazzi andavano raccontando in giro una storia molto diversa da quel che era accaduto in realtà nel bosco.

Ho imparato da allora che spesso la vita mette le ragazze in situazioni per le quali non sono assolutamente preparate, nemmeno le “brave ragazze”, nemmeno quelle fortunate a cui non manca nulla. A volte, quando meno te l’aspetti, diventi la ragazza nel bosco. Perdi il tuo nome e un altro ti viene appiccicato addosso di forza. E pensi di essere sola, fino a che non leggi la storia di un’altra ragazza come te. E cominci ad immaginare finali diversi per la tua, di storia, e molti migliori mondi possibili.

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