Una canzone non più urgente per il Nicaragua
Silvio Rodríguez, il cantautore rivoluzionario che aveva compreso fin dall’inizio la deriva autoritaria dell’orteguismo.
di Bái Qiú’ēn
El espectro es Sandino, con Bolívar y el Che / Porque el mismo camino caminaron los tres. / Estos tres caminantes, con idéntica suerte / Ya se han hecho gigantes, ya burlaron la muerte. (Silvio Rodríguez)
Nella primavera del 1977, Leo Brower, compositore cubano di musica classica e direttore d’orchestra il cui vero nome è Juan Leovigildo (e oggi ha 84 anni), ci accompagnò con una Fiat 128 argentina nelle strade tortuose e intricate de La Habana vecchia, dal Palacio del Segundo Cabo (O’Reilly y Tacón) in stile barocco coloniale, dove aveva il suo ufficio fino all’EGREM, la casa discografica dove si teneva un incontro nazionale tra musicisti. Con la partecipazione dell’allora ministro della cultura Armando Hart Dávalos. Purtroppo, mancava Silvio Rodríguez Domínguez, che da un anno era in Angola come combattente volontario internazionalista. Mai scorderemo però la lunga e allegra chiacchierata con il violinista Enrique Jorrín, quasi ignorato “inventore” del ritmo del chachacha (da molti erroneamente attribuito a José Dámaso Pérez Prado) e con altri artisti più o meno noti.
Pochi anni dopo Silvio compose Canción urgente para Nicaragua, dedicata al trionfo della Rivoluzione Popolare Sandinista contro gli abusi e gli omicidi del regime di Somoza: «Se partió en Nicaragua otro hierro caliente / Con que el águila daba su señal a la gente. / Se partió en Nicaragua otra soga con sebo / Con que el águila ataba por el cuello al obrero». Fu inclusa nell’album Unicornio, registrato a La Habana nel 1982 e immediatamente fu canticchiata dai giovani di mezzo continente: la musica è assai vivace e mette immediatamente di buon umore.
L’anno successivo, dal 18 al 23 aprile 1983, si riunirono a Managua le voci più rappresentative della nuova canzone latinoamericana “impegnata” in un Concierto por la paz en Centroamérica nella Plaza de la Revolución: tra loro Mercedes Sosa, Daniel Viglietti, Alí Primera, Chico Buarque, Silvio e tantissimi altri (disco, video e musicassette: Abril en Managua). Anfitrioni erano Carlos e Luis Enrique Mejía Godoy (oggi esuli in Costa Rica). Le parole di quella canzone furono cantate in coro dalle migliaia di persone che parteciparono, seguendo il ritmo della salsa con il battito delle mani e l’ondeggiamento ritmico del corpo, militari e poliziotti compresi.
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Venticinque anni dopo Silvio tornò in Nicaragua per alcuni concerti. Al primo, che si tenne domenica 2 marzo 2008 nel Centro de Eventos de Pharaos Casino, sulla Carretera a Masaya (km 4,5), parteciparono oltre diecimila persone Non appena il cantautore cubano lasciò il palco, la folla cominciò a chiedere il bis. Per cui risalì e aggiunse una canzone a quelle cantate in oltre due ore di spettacolo, per salutare di nuovo il pubblico. Non fu sufficiente per la folla, che scandì ritmando: «¡Ur-gen-te! ¡Ur-gen-te! ¡Ur-gen-te!».
Con una totale tranquillità, Silvio comunicò al pubblico: «Es una canción con la que tengo mis problemas». Mentre le bandiere nicaraguensi, cubane e rosso-nere sventolavano senza sosta, riprese in mano la chitarra e al microfono aggiunse. «Es que las realidades han cambiado». Cantò ancora, però un’altra canzone, senza dubbio pensando che da poco più di un anno (da quando Daniel era tornato alla presidenza della Repubblica, il 10 gennaio 2007) si era ormai messo da parte qualsiasi programma della costruzione di una nuova società per affidarsi a ricette economiche molto più associate al neoliberismo: avvertì che qualcosa stava marcendo e distorceva nel profondo quel sogno collettivo che era stata la Rivoluzione Popolare Sandinista. Che la curul presidenziale si stava trasformando in un trono, al quale il monarca Daniel si aggrappava e si aggrappa con le unghie, come un gatto, dopo che per sedici anni era stato l’eterno candidato perdente di un FSLN ormai completamente nelle sue mani e dal quale molti dirigenti e militanti si erano allontanati non accettando le politiche contraddittorie di un governo che ufficialmente si dichiarava di sinistra.
L’ultima volta che Silvio cantò Canción urgente fu il 29 marzo 1990 durante un concerto in Cile, nello Stadio Nazionale di Santiago stipato di persone, poco più di un mese dopo la clamorosa e inaspettata sconfitta elettorale del FSLN: «Puede que haya quien piensa que no es el momento de cantarla, pero… yo creo que es el momenro, más que nunca. Para darle valor al sandi».
Al noto cantautore rivoluzionario erano bastate poche ore di permanenza nel Paese che fu di Sandino per rendersi conto dei peggioramenti sostanziali di una Rivoluzione che non era più tale e in quella che pomposamente era denominata “seconda fase” stava imboccando una deriva che nulla aveva a che vedere con gli anni Ottanta del secolo precedente quando: «Ahora el águila tiene su dolencia mayor / Nicaragua le duele, pues le duele el amor / Y le duele que el niño / vaya sano a la escuela / porque de esa madera / de justicia y cariño / no se afila su espuela». La sera di quel 2 marzo 2008 Silvio aveva lanciato un messaggio politico forte e chiaro non soltanto a Daniel, malamente identificato come la personificazione della Rivoluzione Popolare Sandinista, ma a tutti coloro che in qualsiasi parte del mondo, solo a parole, pretendono di rappresentare i poveri e i diseredati, il proletariato, le classi popolari. A tutti coloro che usano un linguaggio pseudo-alternativo e praticano con regolarità una doppia morale, proclamandosi rivoluzionari senza macchia e sostengono governi che con la sinistra ben poco hanno a che vedere. Troppo spesso, però, le orecchie hanno dei muri, come recitava uno slogan del maggio francese.
L’atteggiamento di Silvio con il suo rifiuto di cantare la canzone richiesta poiché «en el actual contexto es imposible cantar esta canción», dimostrò il grande discredito che il leader del partito di governo aveva già nel 2008 a livello di quella sinistra internazionale coerente e critica, che non poteva accettare il divieto totale di abortire, pure in situazioni di abuso sessuale (anche su minore) o di rischio per la vita della madre come contropartita all’appoggio della Chiesa locale, che non poteva eccettare la più completa libertà di sfruttamento senza limiti dei lavoratori da parte degli imprenditori in cambio della loro neutralità politica. Una sinistra che aveva e che ha come base essenziale il rifiuto di qualsiasi forma di totalitarismo comunque mascherato e che oggi è definita spregiativamente «confusa» da qualche geniale politologo che non ha mai fatto i conti con lo stalinismo (fenomeno degenerativo che, volenti o nolenti, appartiene alla sinistra).
Oppure, con la tipica faciloneria della propaganda, si vuole annoverare Silvio Rodríguez tra i controrivoluzionari al soldo dell’Impero come oggi qualcuno afferma per quegli Stati latinoamericani che hanno offerto la loro nazionalità ai nicaraguensi deportati e resi apolidi lo scorso febbraio?
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Poche settimane dopo la vittoria di Daniel nelle elezioni del novembre 2006, con il 37,99% dei voti (grazie al patto politico del 1999 con il corrotto Arnoldo Alemán per ripartisi quote dei poteri dello Stato) Celia Hart, figlia del suddetto Armando e di Haydée Santamaría, oltre che membro del Partito Comunista di Cuba (altra «confusa») aveva scritto l’articolo «Las elecciones rosa de Nicaragua» (pubblicato nel sito web Rebelión il 18 novembre 2006 e dedicato «A la memoria rojinegra de Carlos Fonseca Amador») in cui criticava aspramente l’atteggiamento di falsa sinistra che il FSLN rappresentava già in quel momento storico, probabilmente ricordando che Marx aveva detto che il proletariato non può impadronirsi della macchina statale borghese e metterla in moto per i propri fini (La Guerra civile in Francia, 1871): «Il massimo che si può ottenere è una presa di possesso formale della sovrastruttura borghese del potere e il passaggio di quel governo al socialismo che, nelle condizioni di consolidata legalità borghese del potere formale, deve usare quello stesso potere per schiacciare violentemente tutti coloro che tentano, in in un modo o nell’altro, di fermare l’avanzata verso una nuova struttura sociale». Analisi lucida e oltremodo profetica: dodici anni dopo, la protesta spontanea di migliaia di nicaraguensi di tutti i ceti e di tutte le convinzioni politiche, fu appunto «schiacciata violentemente» e accusata di tentare un golpe blando. Che la maggioranza dei protestantes fosse militante o simpatizzante sandinista, poco importava e poco importa quando in gioco è la poltrona da occupare per l’eternità.
Riflettendo sulla mancanza di coerenza di una forza che si dichiara di sinistra ma stringe alleanze con le élite conservatrici del Paese (compresi esponenti dell’ex Contra), Celia prosegue: «Di fronte a me ci sono gli eventi delle elezioni nicaraguensi (l’involuzione rosa della rivoluzione rossonera). Un processo diverso dagli altri, che non posso analizzare freddamente. Nessun rivoluzionario al mondo può farlo, tanto meno un rivoluzionario cubano la cui giovinezza è stata in gran parte plasmata da un combattivo e splendido Nicaragua: una gioventù che amava i versi colorati e coraggiosi di Carlos Mejía Godoy, quella “soga con sebo” [corda insaponata] di Silvio Rodríguez che è stata tagliata nel 1979, quella “patria rossonera” insanguinata dai contras e dall’imperialismo, morta alle urne. […] E peggio ancora, la dirigenza del FSLN – senza trarne le dovute lezioni – si è recata alle urne quattro volte. Ogni volta il rosso della sua bandiera si sbiadiva. Ora pensano di aver finalmente vinto la battaglia. Si dà il caso che si siano spostati così tanto a destra da essere ora solo un altro di quei partiti che abbondano nel nostro continente. I sandinisti, me compresa, dovrebbero denunciare a gran voce che la loro dirigenza ci ha rubato il nome e lo ha dato a un partito che, per vincere, ha ritenuto opportuno legarsi ai nemici».
Non c’è che dire, l’analisi politica seria e puntuale è una cosa, la propaganda è un’altra. Due pianeti che mai potranno incontrarsi.
Questo testo di Celia, deceduta nel 2008 in un incidente stradale a soli 46 anni, è contenuto nel volume Escritos políticos 2003-2008, Caracas 2009 (pubblicato dalla Presidenza della Repubblica Bolivariana del Venezuela).
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Dal canto suo, il subcomandante Marcos (all’anagrafe: Rafael Sebastián Guillén Vicente), in un’intervista a The Guardian, il 12 maggio del 2007 aveva definito Daniel un traditore. E, sempre nel sito Rebelión, il 22 giugno 2018 è stato pubblicato un suo documento dal titolo assai significativo «Fuera el gobierno criminal Ortega-Murillo de Nicaragua!» sottoscritto da vari esponenti della sinistra latinoamericana nel quale si afferma che «In sua difesa, il governo Ortega-Murillo intende distorcere la verità dei fatti e vuole presentarsi come vittima di un presunto piano “controrivoluzionario” diretto da forze straniere […]. Certo, i settori conservatori e liberali, la Chiesa cattolica e qualsiasi opposizione politica al FSLN beneficeranno della crisi creata dalle misure neoliberiste del governo Ortega e dalla sua feroce repressione, ma l’alternativa che Ortega presenta a questi settori non è un progetto rivoluzionario e popolare, ma piuttosto un governo che per anni è stato d’accordo con il mondo degli affari, la stessa Chiesa e i liberali e, peggio ancora, ora cerca di imporre un regime che si regge solo con il terrore della più feroce repressione».
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Silvio, Celia, sup Marcos… tre «confusi» controrivoluzionari, stando ai propagandisti di uno stalinismo che ancora serpeggia nei cervelli di troppi propagandisti.
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Ormai l’anniversario del 19 luglio, al quale si partecipa esclusivamente su invito come se fosse un “pranzo di gala”, vede soltanto la presenza di giovani acefali e di funzionari statali obbligati a partecipare, pena il licenziamento e la disoccupazione. Come ciliegina sulla torta, negli ultimi anni dopo il 2018 la coppia regnante si è circondata di esponenti dell’inutile e insulsa gioventù sandinista, di funzionari governativi e degli alti comandi dell’Esercito e della Polizia. E, più di recente, ha persino raccattato dall’immondezzaio della Chureca un bel po’ di viscerali antisandinisti storici, trasformandoli in propagandisti un tanto al chilo, pronti a tornare ai vecchi amori appena il vento cambia direzione: «Un clericale, un liberale che diventano socialisti, sono altrettante macchine a sorpresa che possono da un momento all’altro esplodere con effetti letali per la nostra compagine. […] Chi si è convertito, è sempre un relativista. Ha esperimentato in se stesso una volta quanto sia facile sbagliarsi nello scegliere la propria via. Pertanto gliene rimane un fondo di scetticismo. Chi è scettico non ha il coraggio necessario per l’azione» (Antonio Gramsci). Da parte sua, il mitologizzato Pueblo Presidente vede ormai questa data solo come un semplice giorno festivo, nel quale non si lavora (chi un lavoro formale ce l’ha).
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Dal 2007 in poi non si contano le dichiarazioni di Daniel che parlano di ordine e di stabilità sociale garantite dal governo che lui stesso dirige.
«Il mio governo garantisce l’ordine, la pace e la stabilità sociale, nonostante forze strane promuovano il disordine e minaccino la tranquillità e il benessere del popolo nicaraguense» non sono però parole sue dopo l’aprile 2018, bensì di Anastasio Somoza Debayle, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici prima della fuga dal Paese il 17 luglio 1979.
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Un racconto fantastico, ma non troppo, uscì dalla fervida immaginazione di Gabriel García Márquez e fu pubblicato in spagnolo nel 1975: El otoño del patriarca. È un’affabulazione a più voci che si dipana senza specificare a chi appartengano i vari “monologhi”, intrecciando e sovrapponendo svariati punti di vista narrativi. È la storia di un soggetto talmente anziano che neppure ricorda la propria età, ma con pugno di ferro comanda da tempo su un Paese non meglio identificato e collocato geograficamente sulle sponde del Mar Caribe. È il prototipo del dittatore latinoamericano del XX secolo, per quanto in piena decadenza e in completa solitudine.
Il patriarca è legato sentimentalmente a Leticia Nazareno, la quale controlla tutto e nella sostanza dirige un governo parallelo, esercitando una grande influenza su di lui, riuscendo a essere sempre più invisa sia all’interno della cerchia del potere sia della popolazione in generale. Assieme, però, i due sono la caricatura parodistica di una famiglia della monarchia assolutista di stampo medievale.
Vari personaggi con biografie assai diverse riescono a ottenere un immenso potere e ne abusano costantemente, senza alcun ritegno. Mentre la madre del patriarca, Bendición Alvarado, vive in una povertà estrema senza sapere di essere una delle donne più ricche del mondo, poiché il figlio le ha intestato tutto il cospicuo patrimonio accumulato negli interminabili anni di potere.
Un bel giorno il patriarca decide di espellere dal Paese tutti i religiosi, rompendo pure le relazioni con il Vaticano, accusato di non voler santificare la propria madre, e ne espropria tutte le proprietà.
Le similitudini con la realtà del Nicaragua sono evidenti e non necessitano di commenti. Una realtà che, come spesso accade oltrepassa pure la più fervida fantasia superando di gran lunga qualsiasi realismo magico letterario.
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«Andará Nicaragua su camino en la gloria / Porque fue sangre sabia la que hizo su historia. / Te lo dice un hermano que ha sangrado contigo / Te lo dice un cubano, te lo dice un amigo».