Una conversazione con le ombre

recensione a «Piccolo, rosso e altri racconti» di Bozidar Stanisic (*)

«In un racconto tutto è possibile? Forse ancor di più che in un sogno?»: siamo alla fine di «L’ospite di Ivan Nikolajevic», la storia che apre la bella antologia «Piccolo, rosso e altri racconti» (Cosmo Iannone editore: 148 pagine, 12 euri) nella collana «Kumacreola scritture migranti» diretta da Armando Gnisci.

Dico subito che sono 6 splendidi racconti: il ritmo narrativo non si interrompe neppure ai cambi di storie. personaggi e stile. Una magia. Non racconterò le trame perché mi parrebbe di tradire i passaggi così ben costruiti da Bozidar Stanisic ma annoterò spunti, perle di scrittura, ironie, amarezze, personaggi squassanti sperando di farvi innamorare di questo libro come è accaduto a me, dalla prima pagina.

L’antologia si apre appunto con «L’ospite di Ivan Nikolajevic» fra campane, ratti, teatro delle ombre, «giornali spazzatura», vodka, cornacchie che «passano ancheggiando». Ogni umano ha il suo ratto: così disse il padre a Ivan e lui non lo ha dimenticato. Forse questo ricordo andrebbe buttato via, se hanno ragione quelli che ripetono: «gli uomini senza memoria esprimono meglio le proprie opinioni». Ma su Ivan i ricordi pesano assieme al fardello di lingue (tre ne conosce, aspettando che appaia «quella della comprensione»), di equivoci, di bandiere e Stati, della «malattia di essere qualcuno, ossia di avere-avere». E si chiede Ivan «quando si diventa stranieri?» ma anche perché i «giornali spazzatura» continuino a diffondere intolleranza «come i semi dai soffioni del tarassaco».

Uno dei personaggi di «La coccinella di Omero» è una strano essere umano «che pareva fosse riuscito ad armonizzare in un corpo quello che armonizzare non si può, Sancho e Don Chisciotte». Il racconto si muove nella Jugoslavia non ancora «ex» e negli sfaceli successivi dove, fra le sedie vuote in certi dibattiti, forse si è seduto anche «un dio invisibile preoccupato». Fra i tormenti degli amori, delle scritture e di una società che d’improvviso scopre l’odio rimane un posticino per i cibi (e per una ricetta che Bozidar Stanisic regalerà a chi legge) perché «ogni pietanza parla con i sughi del suo contenuto. Come le opere d’arte parlano con le proprie parole, i propri colori, suoni e forme». Nelle righe di questo racconto e di altri sono seminate le mine: «sparse a milioni nel cuore della Bosnia». Non verrà detto chi fabbrica questi efficienti ordigni di morte anche se il personaggio-narratore aggiunge: «talvolta rifletto sulle mani di coloro che le hanno posate ma anche sulle mani di coloro che le hanno posate». Erano spesso mani italiane, aggiungo io.

Fra 6 racconti tutti amati quello che mi ha più invaso è «Luli»: dall’incontro iniziale in un pomeriggio d’autunno («lo dico per abitudine anche se so bene che il metrò ha solo una stagione – la notte illuminata al neon») sino al colpo di scena finale, una freccia che strazia il cuore. E’ un racconto pieno di interrogativi senza risposta («ma che cosa ci è mai successo?») o di domande che non vengono poste (e chi legge giudicherà se sono taciute per delicatezza, ignavia, ignoranza o disinteresse) sull’ex Jugoslavia e sul mondo. Si viaggia per centinaia di chilometri per sentir dire: «la Bosnia è un Paese strano […] Davvero ogni volta non posso fare a meno di ammirare ogni occidentale che, appena messo piede fuori della sua cerchia, comincia subito a trarre conclusioni generali nelle quali non c’è il minimo spazio per un semplice forse». Chissà perché alcuni non capiscono il Montaigne di «Fra noi e noi stessi c’è tanta differenza quanta ve n’è fra noi e gli altri» oppure il Seneca di «Pensai fosse una grande cosa essere sempre lo stesso uomo».

Nel quarto racconto, «Al crepuscolo», nulla accade eppure le cose che non si possono dire, neppure pensare, sono più forti dei personaggi, dei loro tentativi di esistere; ovvio, se è vero quel che «prima della guerra» aveva scoperto uno scienziato, cioè che «l’anima peserebbe 14 grammi». Davvero troppo leggera per diventare protagonista.

«Una scena dopo l’altra, come in un teatro da dove non si può uscire»: così , sul taxi che gira senza meta, il dottor Slobodan Petrovic rivive pochi minuti (in realtà una vita) in «Piccolo, rosso». Se avesse inventato quel «vaccino» contro la realtà del quale aveva sognato – proprio quando «alla radio parlavano dei primi scontri in città» – ora le cose andrebbero meglio? Sette miliardi di persone, anzi di «clienti», eppure a nessuno lui può dire «ascoltami per favore». Non sa comprendere Petrovic cosa sia successo dai giorni nei quali ripeteva il suo indovinello «cos’è quella cosa piccola, rossa, che si muove su e giù?». Neppure sa se lui sia diventato un assassino.

«L’amore, l’amore soprattutto» chiude questa antologia. Con molta auto-ironia e tre domande. Nella prima Nadja, la protagonista contesta così lo scrittore: «Perché la guerra? Si rende conto che la gran parte dei lettori non si vuole rompere la testa con quella domanda?». Stranissimo, sarcastico, spiazzante il secondo quesito che Nadja riversa sul suo interlocutore: «Non sarai mica un lontano parente dell’imperatore Giustiniano?». E la terza domanda – «perché mai in un racconto si dovrebbe dire tutto?» – ci riporta all’inizio del libro, un testo («in vece della consueta prefazione») che io mi permetto di suggerire venga invece letto alla fine, dopo quei «contorni di un poncho» nei quali sfumano anche queste «vite casuali».

Il titolo del post – «una conversazione con le ombre» – riprende una frase del primo racconto: «Occorrerebbe, pensò Ivan Nikolajevic, che ognuno, prima di invecchiare del tutto, vuotasse la propria casa, accendesse una luce in mezzo a ogni stanza e iniziasse una conversazione con le ombre». Bozidar Stanisic sa farlo: le sue ombre si chiamano Balcani ma anche Italia. Ma lui ha scritto «ognuno»; possiamo prenderlo sul serio oppure pensare che siano solo parole in un libro.   

(*) Chi frequenta sovente codesto blog ha già incontrato Bozidar Stanisic come narratore e come giornalista-commentatore.  

Questa recensione si colloca nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita (e mi capiterà?) di non parlare in blog di alcuni bei libri, magari letti e apprezzati. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e notoriamente baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro … o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche “testata” (contro il muro, come dice la battuta) una recensione che poi rimane sospesa per molti mesi. Ogni tanto ho perso e magari ritrovato e riperso quel tal libro… Tempo fa ho deciso che avrei rimediato in blog a questi buchi, con una rubrica apposita, appunto chiedendo venia. Questo caso è un po’ diverso: prima ho faticato a trovare «Piccolo, rosso e altri racconti», poi il mio libraio di fiducia mi ha “dato buca”, poi la smemoratezza… Ma qui c’è un doppio «chiedo venia» perché oltre a trascurare questa antologia (che immaginavo dovesse essere bella, dunque… come ho potuto aspettare tanto?) sono stato disattento negli ultimi tempi verso la collana che lo ospita – «Kumacreola Scritture migranti» – che ha superato quota 20. Anche a questo mi impegno a “rimediare” se il futuro sarà clemente con me, cioè mi darà tempo anche per leggere e scrivere. (db)

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