Una guerra di menzogne
articoli e video di David Sacks, Michele Santoro, Pino Arlacchi, Domenico Gallo, Manlio Dinucci, Silvia Nocera, Pepe Escobar, Fiammetta Cucurnia, Marco Bertolini, Paolo Sylos Labini, Pino Cabras, Leonardo Mazzei, Sara Reginella, Alessandro Di Battista
Una guerra di menzogne – David Sacks
Un post in materia di Ucraina apparso su «X», a cura dell’imprenditore David Sacks (nato in Sudafrica come Elon Musk e con una carriera da investitore che è andata in parallelo con quella di Musk), segnala che anche in seno all’establishment anglosassone qualcuno comincia a farsi domande radicalmente in contrasto con la narrazione atlantista dominante. Questa impressione è rafforzata da un commento di plauso al post: il commentatore è proprio Musk che dice: «accurate» (“esattamente”).
Leggiamo dunque il post di David Sacks:
«UNA GUERRA DI MENZOGNE
La guerra in Ucraina si basa su bugie: bugie su come è iniziata, su come sta procedendo e su come finirà.
Ci viene detto che l’Ucraina sta vincendo quando in realtà sta perdendo.
Ci viene detto che la guerra rafforza la NATO quando in realtà la sta esaurendo.
Ci viene detto che il problema più grande dell’Ucraina è la mancanza di fondi dal Congresso degli Stati Uniti quando in realtà l’Occidente non può produrre abbastanza munizioni: un problema che richiederà anni per essere risolto.
Ci viene detto che la Russia sta subendo più perdite quando in realtà l’Ucraina sta finendo i soldati: un altro problema che il denaro non può risolvere.
Ci viene detto che il mondo è con noi quando in realtà la Maggioranza Globale ritiene che la politica degli Stati Uniti sia il colmo della follia.
Ci viene detto che non c’è possibilità di fare pace quando in realtà abbiamo rifiutato molteplici opportunità per un accordo negoziato.
Ci viene detto che se l’Ucraina continua a combattere, migliorerà la sua posizione negoziale quando in realtà i termini diventeranno solo molto peggiori di quelli già disponibili e rifiutati.
Tuttavia le bugie riusciranno a trascinare la guerra. Il Congresso stanzierà più fondi. La Russia prenderà più territorio. L’Ucraina mobiliterà più giovani uomini e donne da mandare al macello. Il malcontento aumenterà. Alla fine ci sarà una crisi a Kiev e il governo di Zelensky sarà rovesciato.
E poi, quando la guerra sarà finalmente persa, quando l’intero paese giacerà in rovine fumanti su una pira funeraria di propria costruzione, i bugiardi diranno “beh, ci abbiamo provato.” Avendo impedito qualsiasi alternativa, avendo diffamato chiunque dicesse la verità come burattini del nemico, i bugiardi diranno “Abbiamo fatto del nostro meglio. Abbiamo resistito a Putin.”
In realtà, affermeranno, ce l’avremmo fatta se non fosse stato per la quinta colonna degli apologeti di Putin che hanno pugnalato gli ucraini alle spalle. Poi, dopo aver scaricato su altri la colpa ed essersi autocelebrati, passeranno con disinvoltura alla prossima guerra, come sono passati all’Ucraina dopo i loro disastri in Afghanistan e Iraq.
Le menzogne sono pervasive e inesauribili: ma funzioneranno.»
(David Sacks, 17 febbraio 2024).
——- «Esattamente»
——— (Elon Musk)
Meloni-Zelensky: un accordo bilaterale per scongiurare la pace – Domenico Gallo
Abbiamo già segnalato il ruolo nefasto svolto dall’accordo bilaterale stipulato dalla Gran Bretagna e l’Ucraina il 12 gennaio. Con questa inusitata alleanza militare il Governo inglese, ancora una volta, ha scongiurato la possibilità di un negoziato per porre termine al conflitto, finanziando e armando l’Ucraina, al fine di consentire la prosecuzione della guerra, alla quale Zelensky, come Netanyahu, ha legato le sue fortune politiche. Dopo la Gran Bretagna, nuovi accordi bilaterali sono stati stipulati con la Germania e la Francia. Secondo una fonte giornalistica, con l’accordo, valido dieci anni, Germania e Ucraina hanno concordato che, in caso di un futuro attacco russo, ciascuna delle due parti potrà richiedere consultazioni e che i passi successivi saranno decisi entro 24 ore. Se la Germania riterrà necessario intervenire, fornirà all’Ucraina «assistenza rapida e duratura in materia di sicurezza, equipaggiamento militare moderno in tutti i settori, se necessario, e assistenza economica». L’accordo con la Francia, invece, delinea un quadro per gli aiuti umanitari e finanziari a lungo termine, il sostegno alla ricostruzione e l’assistenza militare. Parigi si è in ogni caso impegnata a fornire nel 2024 «fino a 3 miliardi di euro» in aiuti militari «supplementari» a Kiev, dopo un aiuto stimato a 1,7 miliardi nel 2022 e 2,1 miliardi nel 2023. Da ultima si è aggiunta la Danimarca che, il 22 febbraio, ha firmato un accordo bilaterale con l’Ucraina che prevede la fornitura in dieci anni di aiuti militari per 250 milioni di dollari.
Non poteva mancare l’Italia. Nella scadenza del secondo anniversario dell’invasione russa, la Meloni si reca a Kiev per firmare, in occasione del Forum dei leader del G7, un accordo bilaterale sulla “sicurezza” con l’Ucraina. Per questo, all’ultimo momento, il 22 febbraio, il Ministro degli esteri ha fornito un’informazione preliminare alle Commissioni esteri e Difesa di Camera e Senato. L’accordo italiano, illustrato ieri da Tajani, prevede «la consultazione e la collaborazione con l’Ucraina per aiutarla a costituire una sua capacità nazionale nel settore della difesa» per «provvedere alla propria sicurezza nel medio-lungo termine». Un altro pilastro sarà «l’assistenza in campo economico» e per la «ricostruzione». E poi ancora, «la tutela delle infrastrutture critiche ed energetiche», il «sostegno umanitario per i civili». Ampio spazio verrà riservato anche alle prospettive europee dell’Ucraina.
Tajani ha cercato di edulcorare il significato dell’accordo, assumendo che «non sarà giuridicamente vincolante [poiché] dal testo non derivano obblighi sul piano del diritto internazionale né impegni finanziari. Non sono previste garanzie automatiche di sostegno politico o militare». Orbene, a parte la gaffe giuridica (tutti gli accordi sono giuridicamente vincolanti per chi li stipula: pacta sunt servanda), il ministro evidentemente intendeva dire che dal testo dell’accordo non emerge un obbligo automatico dell’Italia di entrare in guerra in soccorso all’Ucraina nel caso di un nuovo attacco della Russia. Ciò non toglie nulla alla natura di alleanza militare del Patto stipulato con l’Ucraina. I Patti bilaterali stipulati da Gran Bretagna, Germania, Francia, Danimarca e Italia sono delle alleanze militari: non hanno altro significato se non quello di istigare il governo Zelensky a continuare la guerra con la Russia, con il miraggio della “vittoria”, assicurandogli sostegno militare e finanziario.
Stipulare un’alleanza militare con un paese in guerra, che prevedibilmente per molti anni rimarrà in una situazione di conflitto con la Russia, anche se domani intervenisse il cessate il fuoco, è quanto di più insensato e pericoloso si possa immaginare. Significa vincolare il nostro futuro alle sorti di un conflitto che noi stessi stiamo alimentando in virtù dei patti stipulati.
L’esperienza storica ci insegna che l’Italia è precipitata nella tragedia della Prima e della Seconda guerra mondiale a seguito della stipula di due trattati di alleanza militare, il Patto di Londra del 26 aprile 1915 e il Trattato bilaterale con la Germania, stipulato il 23 maggio 1939, più noto come “Patto d’acciaio”. Il Patto di Londra fu negoziato in gran segreto dal Ministro degli esteri Sidney Sonnino, con l’accordo del Re, e rimase segreto perché il Parlamento, la grande maggioranza del popolo italiano e il Vaticano erano contrari all’entrata in guerra dell’Italia. Oggi viviamo in una situazione di fervore bellico delle classi dirigenti e dei media, non condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, ma non siamo nel 1915 e non possiamo consentire di essere coinvolti in una guerra per procura contro la Russia, combattuta sulla pelle del popolo ucraino. Certamente il Patto Meloni-Zelensky più che un “Patto d’acciaio” è un “Patto di latta”, data la natura dei contraenti, però è ugualmente pericoloso.
Putin e Carlson: considerazioni sull’intervista più vista (forse) nel web – Silvia Nocera
Il 6 febbraio il noto giornalista Tucker Carlson ha realizzato a Mosca un’intervista al Presidente della Federazione russa, Vladimir Putin. Per alcuni media indipendenti si tratta di una intervista ‘storica’, che, cioè, potrebbe cambiare la storia. Per i media generalisti o mainstream si è trattato di pura propaganda e per altri, come me, vale la pena osservare e analizzare questo avvenimento e valutarne l’effetto da ‘colpo di scena’.
Quando ho saputo di questa intervista, confesso, mi è venuto da ridere seguendo il ritmo saltellante delle mie sinapsi. E ho pensato, mentre sorgeva in me un sottile apprezzamento per la genialità della cinematografia nordamericana: è l’uomo giusto, al momento giusto…
Tenendo conto che cinematografia e politica sono ogni volta più interrelazionate nel nostro mondo, non solo negli stati uniti, che certamente ne sono maestri, vorrei fare alcune brevi considerazioni su questo evento.
L’effetto ‘annuncio’
Già l’annuncio dell’intervista ha generato una vibrazione nei media di tutte le categorie e correnti. Il solo fatto che un giornalista occidentale che su X vanta qualche centinaio di milioni di follower statunitensi e non solo, potesse entrare nei luoghi del potere a parlare con Putin per offrire al suo pubblico l’altra versione della guerra in Ucraina, è sicuramente stato irritante per tutti quei giornalisti che, in buona fede o meno, hanno contribuito alla mostrificazione del presidente russo e alla russofobia in questi ultimi anni. Nel frattempo a molti di loro, ma anche ad alcuni dei loro colleghi dissenzienti dalla linea ufficiale, deve essere sorta quella sottile invidia per lo scoop giornalistico, generando internamente un’ambivalenza quasi ridicola.
Che ci si creda o no, Carlson ha dichiarato di compiere questa azione in nome del pluralismo giornalistico americano, valore incontrastabile dell’occidente da sempre contrapposto al modello della dittatura russa. L’effetto annuncio ha generato curiosità e aspettative.
Curiosamente, dopo due anni dall’inizio del conflitto Russo Ucraino e dopo dieci anni dallo scoppio della guerra in Ucraina, questa brillante idea pluralista è stata realizzata a pochi mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti e in Russia.
Il personaggio Tucker Carlson
Per chi non sa chi è, stiamo parlando di un mio quasi coetaneo che, al contrario di me, è stato commentatore della CNN per cinque anni, dal 2009 ha lavorato come analista politico per Fox News diventandone uno dei volti più noti, fino a quando pochi mesi fa (aprile 2023) è stato licenziato in tronco. Da qui l’accoglienza su X dei suoi contenuti, spesso provocatori ma non privi di lavoro investigativo. Se andiamo adesso sul suo sito, troviamo in evidenza le interviste a Donald Trump, a Vladimir Putin e a Javier Milei come pietre miliari del suo lavoro.
Il personaggio è controverso e ambivalente e, proprio per questo, è il personaggio giusto per questa operazione che è caduta proprio al momento giusto, come se ci fosse un accordo win-win silente fra i due uomini politici che stanno per sfidare le urne nei rispettivi paesi. Non ci è dato sapere come siano andate le cose, stiamo parlando di persone che, in un modo o nell’altro si conoscono, fanno parte di uno stesso ambiente o livello sociale. E a quei livelli tutto è scivoloso.
Parliamo sul serio o facciamo spettacolo?
Entrando nel merito del contenuto dell’intervista, mi ha colpito il lungo prologo storico proposto da Putin (con copia dei documenti che lui cita in una cartellina sul tavolo, in omaggio a Carlson). Nonostante le piccole interruzioni il presidente russo ha ripreso più di una volta il discorso ricordando al giornalista che all’inizio dell’intervista gli aveva chiesto se voleva ‘parlare seriamente o fare spettacolo’. E così si è pappato quasi un’ora di intervista! Devo dire che per me è stata la parte più interessante e istruttiva, ignorante e affamata di storia come sono, ma dal punto di vista editoriale, credo che abbia ammazzato l’attenzione di oltre la metà del pubblico statunitense e non solo. E questo Carlson lo sa. Mentre ascoltavo la ricostruzione storica, mi venivano in mente i discorsi fiume di Fidel Castro o le argomentazioni infinite dei Serbi e dei Kossovari riguardo alle origini delle proprie terre. La prospettiva storica non può giustificare nessuna azione di aggressione o ritorsione nel momento attuale, ma senza alcun dubbio aiuta a comprendere la profondità degli elementi in gioco ed è un vero peccato che lo spettatore medio sia stato abituato a vedere e consumare la cultura come ‘spettacolo’ e a ridurre tutto a spot e slogan di pochi minuti.
La dietrologia negata
La ricostruzione storica fatta dal presidente russo tende a dimostrare che il popolo ucraino e quello russo sono da sempre amici e fratelli, che questa vicinanza è così profonda nella storia che, anche se nell’attualità l’occidente sta alimentando una separazione fra loro, nel futuro si riavvicineranno. Questo è il messaggio che ho colto in sintesi, un messaggio che evidenzia da una parte la capacità di riconciliazione dei popoli, dall’altra la forza dei governi illuminati, quelli che rispettano le culture di tutti all’interno di una ‘grande famiglia’. All’inizio dell’Operazione militare speciale, come è stata denominata dalla Russia l’invasione dell’Ucraina, in Occidente i media hanno bollato come “dietrologia” qualsiasi tentativo di ricostruzione storica che cercasse di fare chiarezza o almeno di dare più dati per comprendere quello che stava accadendo. Oggi chi cerca di raccontare la storia della Palestina è accusato di antisemitismo. A questo è giunta la nostra informazione, a ridurre la storia in simboliche date spartiacque: 11 settembre 2001, 24 febbraio 2022, 7 ottobre 2023. Molto peggio del Bignami.
Chi è più aggressivo?
In questi due anni abbiamo assistito impotenti all’abbrutimento giornalistico in cui, prima di parlare della guerra in Ucraina, i giornalisti o gli esperti invitati a parlare erano costretti a ripetere la litania ‘dell’aggressore e dell’aggredito’. Nei media indipendenti si è fatto luce in modo esaustivo sulla storia dell’occidente e delle sue politiche in ambito internazionale, che fino ad oggi di pacifico non hanno quasi niente. Chi è più aggressivo? Non c’è modo di rispondere a questa domanda. Quando il diritto internazionale, che si basa sui trattati firmati e sulla consuetudine nei rapporti internazionali, è stato più volte infranto e interpretato come ricatto, estorsione o prepotenza; quando si parla di un nuovo diritto internazionale basato su fantomatiche regole, che non si sa quali sono ma si sa chi le ha dettate in modo unilaterale, è difficile parlare di ragione e torto. Ma non possiamo neanche ignorare che mentre il blocco orientale, dopo la caduto del muro di Berlino nel 1989, si è dissolto implodendo da dentro (non senza vittime) e ha cercato nuove forme per ricostruire legami e relazioni, il blocco occidentale si è trincerato dietro all’alleanza militare capeggiata dagli USA e dietro a una vittoria che, in realtà, non c’è mai stata. La serie di crisi finanziarie degli ultimi decenni, la decolonizzazione, la dedollarizzazione sono i segnali concreti dell’imminente crollo del blocco legato al Dollaro USA e alle politiche sfruttatrici dei paesi del cosiddetto ‘miliardo d’oro’.
Chi ha paura di solito diventa anche aggressivo.
Anche su questo punto un conciliante Putin ricorda a Carlson che i Russi hanno firmato gli accordi di Minsk e hanno lavorato per gli accordi di Istanbul e che sono ancora in attesa della possibilità di negoziare, se l’Ucraina annullerà il decreto che glielo impedisce. Ricorda anche al pubblico che non esiste solo la popolazione dei G7, che il resto del mondo sta crescendo e si sta riorganizzando.
E questi due importanti elementi della dinamica attuale sono innegabili.
Conclusioni
Da osservatrice ignorante trovo che questa intervista si presenta come un importante bug nel sistema di informazione occidentale, indipendentemente dal suo contenuto che presumo sarà visualizzato integralmente da una percentuale minima della popolazione che avrà fatto click sull’icona del video. Ci sono coloro che, sicuramente, staranno pensando che tutto ciò è solo un piccolo passo verso l’apertura (con l’assunzione della presidenza USA da parte di Trump) che porterà al governo mondiale a cui siamo destinati per un oscuro complotto, un governo che adotterà le milizie delle potenze militari e la tecnologia e delle potenze tecnologiche per controllare e assoggettare i popoli del mondo.
Senza negare che esistano correnti elitarie che considerano il pianeta con tutti i suoi abitanti come la propria scacchiera dove giocare al governo mondiale, penso che niente sia scritto e che oggi più che mai sia interessante e importante non evitare di ascoltare le diverse voci e non degradare chi non la pensa come noi, poiché siamo tutti su questo pianeta e, come dice Putin nell’intervista, i vicini di casa non si scelgono ma si deve imparare a conviverci.
Pepe Escobar – “Quello che ho visto in Donbass”
[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]
“… La guerra ti ha dato un nome: / è un nome in codice, non un soprannome – molto di più. / Qui mancano auto di lusso e iPad, / ma hai APC e MANPADS. / I social sono stati lasciati da tempo alle spalle, / i disegni dei bambini con la “Z” rimangono impressi nella mente. / I “like” e i “pollici in su” sono valutati come polvere, / ma ci sono le preghiere delle persone di cui ti fidi. / Tieni duro, soldato, fratello mio, amico mio,/l’ostilità giunge alla fine. / La guerra non è in grado di fermare il suo decesso, / il dolore e la sofferenza si trasformeranno in pace. / La vita ritorna al formato placido, / con il tuo nome in codice, iscritto nel tuo cuore. / Dalla guerra, come un piccolo souvenir: / lontano, ma eternamente vicino. …”
– Inna Kucherova, “Nome in codice”, estratto da “Una lettera a un soldato”, pubblicato nel dicembre 2022
È una mattina fredda, piovosa e umida nella profonda campagna del Donbass, in una località segreta vicino alla direzione di Urozhaynoye; una casa di campagna indistinta, sotto la nebbia che impedisce il lavoro dei droni nemici.
Padre Igor, un sacerdote militare, sta benedicendo un gruppo di volontari locali arruolati nel battaglione Arcangelo Gabriele, pronti ad andare in prima linea nella guerra per procura tra Stati Uniti e Russia. L’uomo a capo del battaglione è uno dei più alti ufficiali delle unità cristiane ortodosse della RPD.
In un angolo di una piccola stanza angusta è stato allestito un piccolo santuario, decorato con icone. Vengono accese delle candele e tre soldati tengono la bandiera rossa con l’icona di Gesù al centro. Dopo le preghiere e una piccola omelia, padre Igor benedice ogni soldato.
Questa è l’ennesima tappa di una sorta di road show itinerante di icone, iniziato a Kherson, poi a Zaporozhye e fino alla miriade di linee del fronte della DPR, guidato dal mio accompagnatore gentilissimo Andrey Afanasiev, corrispondente militare del canale Spas, e poi raggiunto a Donetsk da un combattente decorato del battaglione Arcangelo Michele, un giovane estremamente brillante e coinvolgente, nome in codice Pilot.
Ci sono tra i 28 e i 30 battaglioni cristiano-ortodossi che combattono nel Donbass. Questa è la forza del cristianesimo ortodosso. Vederli all’opera significa capire l’essenziale: come l’anima russa sia capace di qualsiasi sacrificio per proteggere i valori fondamentali della sua civiltà. Nella storia della Russia, sono gli individui a sacrificare la propria vita per proteggere la comunità, e non viceversa. I sopravvissuti – o i morti – nell’Assedio di Leningrado sono solo uno degli innumerevoli esempi.
Così il battaglione cristiano ortodosso è stato il mio angelo custode quando sono tornato in Novorossia per rivisitare la ricca terra nera dove il vecchio ordine mondiale “basato sulle regole” è venuto a morire.
Le contraddizioni dal vivo della “Strada della vita”
La prima cosa che colpisce quando si arriva a Donetsk, quasi 10 anni dopo Maidan a Kiev, è l’incessante rumore dei boati. In entrata e soprattutto in uscita. Dopo un periodo così lungo e noioso, un interminabile bombardamento di civili (invisibili all’Occidente collettivo) e quasi 2 anni dopo l’inizio dell’Operazione militare speciale (OMS), questa è ancora una città in guerra; ancora vulnerabile lungo le tre linee di difesa dietro il fronte.
La “Strada della Vita” è uno delle più grandi denominazioni improprie della guerra a Donetsk. “Strada” è un eufemismo per indicare una palude tenebrosa e fangosa percorsa avanti e indietro praticamente senza sosta da veicoli militari. “Vita” si applica perché i militari del Donbass in realtà donano cibo e aiuti umanitari agli abitanti del quartiere di Gornyak ogni settimana.
Il cuore della Strada della Vita è il tempio di Svjato Blagoveschenskij, curato da padre Viktor – che al momento della mia visita era fuori per la riabilitazione, poiché diverse parti del suo corpo sono state colpite da schegge. Vengo accompagnata da Yelena, che mi mostra il tempio, impeccabilmente pulito, con icone sublimi – tra cui quella del principe Alexander Nevsky del XIII secolo, che nel 1259 divenne il supremo sovrano russo, sovrano di Kiev, Vladimir e Novgorod. Gornyak è un diluvio di fango nero, sotto la pioggia incessante, senza acqua corrente ed elettricità. Gli abitanti sono costretti a percorrere almeno due chilometri a piedi, ogni giorno, per fare la spesa: non ci sono autobus locali.
In una delle stanze sul retro, Svetlana sistema con cura i mini-pacchetti di generi alimentari di prima necessità da distribuire ogni domenica dopo la liturgia. Incontro Madre Pelageya, 86 anni, che viene al tempio ogni domenica e non si sognerebbe mai di lasciare il suo quartiere.
Gornyak si trova nella terza linea di difesa. I forti boati – come ovunque a Donetsk – sono quasi ininterrotti, in entrata e in uscita. Se seguiamo la strada per altri 500 metri circa e giriamo a destra, siamo a soli 5 km da Avdeyevka – che potrebbe cadere a giorni o al massimo a settimane.
All’ingresso di Gornyak si trova la leggendaria fabbrica chimica DonbassActiv – ora inattiva – che ha effettivamente fabbricato le stelle rosse che brillano sul Cremlino, utilizzando una speciale tecnologia del gas che non è mai stata riprodotta. In una strada laterale alla Strada della Vita, i residenti locali hanno costruito un santuario improvvisato per onorare i bambini vittime dei bombardamenti ucraini. Un giorno tutto questo finirà: il giorno in cui l’esercito della RPD controllerà completamente Avdeyevka…
La Nato abbaia ancora alle porte della Russia – Paolo Sylos Labini
I tamburi di guerra rullano. Rob Bauer, presidente del Comitato militare della Nato, ha affermato che “dobbiamo renderci conto che vivere in pace non è un dato di fatto. Ed è per questo che noi (la Nato) ci stiamo preparando per un conflitto con la Russia”. Nel Regno Unito il ministro della Difesa e il capo delle Forze armate parlano della generazione attuale come di quella “pre-guerra” perché “l’era dei dividendi della pace è finita”. La retorica che sta montando è gravissima e sta passando nella narrativa quotidiana senza problemi. Quando leggo commenti che sostengono che “se vuoi la pace prepara la guerra” mi viene in mente la famosa poesia di Trilussa L’eroe ar caffè, quello che “spiana li monti, sfonna, spara, ammazza, ‘per me – borbotta – c’è na strada’ sola e intigne li biscotti ne la tazza”. Se questi personaggi patetici spuntano come funghi nel dibattito pubblico non è un caso: la militarizzazione della società procede per mano di una élite che non ha alcuna legittimità per farla, ma sa che è l’unica maniera di tenere in piedi un potere ogni giorno più delegittimato.
La guerra in Ucraina ha messo in evidenza la debolezza della Nato, che probabilmente è entrata in una crisi irreversibile. Dietro la retorica di un probabile attacco della Russia a un Paese Nato come i baltici o la Polonia, c’è proprio il sintomo della inutilità di una alleanza che ha definitivamente perso, di fronte a qualsiasi osservatore del “Sud globale”, il senso della sua esistenza e che cerca nel “nemico esterno” la ragione per nascondere la sua sconfitta militare e politica. La Russia non ha alcun interesse, o anche possibilità, di attaccare un Paese Nato. Da una parte è in una fase di calo demografico quando invece le guerre di conquista presuppongono una forte espansione interna, e d’altra parte l’invasione di un Paese come la Polonia necessita di un esercito di milioni di uomini ben armati, cosa che al momento non si vede all’orizzonte.
La guerra ha messo di nuovo in evidenza la sostanziale non democraticità delle istituzioni politiche, sia nei singoli Paesi che si sono mostrati completamente succubi verso le decisioni di Bruxelles, sia della Commissione europea sia della Nato: ma mentre la prima ha una vaga legittimazione democratica in quanto designata dai governi dei Paesi membri, la seconda con la democrazia non c’entra nulla e non si capisce a che titolo il segretario generale Jens Stoltenberg possa dettare le scelte politiche chiave. Ricordiamo, ad esempio, che non c’è nessun obbligo di arrivare a una spesa per la difesa del 2% del Pil.
Se è difficile immaginare che i cittadini europei possano seguire questa politica insensata e possano accettare misure come la reintroduzione della leva obbligatoria, mobilitando le giovani generazioni, o un aumento rilevante della spesa militare (che è il vero e unico fine di questo fuoco di sbarramento) è anche possibile che quello che si delinea all’orizzonte, la guerra, potrebbe rivelarsi come una profezia che si autoavvera e che quando ci sarà consapevolezza pubblica e diffusa dell’assurdità della situazione sarà troppo tardi. La sensazione è che, come sempre nel trentennio unipolare a guida Usa, si facciano i conti senza l’oste in quanto una crisi regionale potrebbe in maniera incontrollata sfociare in una guerra più vasta.
Il vero problema, infatti, è il cosiddetto “dilemma della sicurezza” secondo il quale in un confronto tra due Paesi in competizione, se uno dei due contendenti interpreta erroneamente le azioni difensive dell’altra parte come offensive, può aver luogo una spirale di insicurezza reciproca che conduce inevitabilmente al conflitto. Il dilemma della sicurezza in campo internazionale è spesso chiamato in causa quando le azioni di un Paese per proteggere la propria sicurezza, come l’installazione di basi militari a scopo difensivo, l’approvvigionamento di armi o solamente la provocazione verbale, sono percepite come minacce da parte di un paese vicino. Le continue dichiarazioni di politici e militari ai vertici dei Paesi europei e della Nato stessa, rilanciate in maniera acritica da stampa e televisione, non potranno che essere interpretate in maniera provocatoria da parte della Russia, anche alla luce degli avvenimenti nella lunga questione ucraina.
I governi europei sembrano procedere come nel 1914: “Chi aveva le leve del potere era come un sonnambulo, apparentemente vigile ma non in grado di vedere, tormentato dagli incubi ma cieco di fronte alla realtà dell’orrore che stava per portare nel mondo”. Per questo è importante, anzi cruciale, riflettere sui cambiamenti dell’epoca attuale, sulle loro ragioni e sui possibili, se non probabili, sviluppi e, nel proprio piccolo, cercare di fermare la marea che avanza.
Terza guerra mondiale – Leonardo Mazzei
Parlare di “Terza Guerra Mondiale” è impegnativo, ma necessario. E’ impegnativo perché può sembrare esagerato, è necessario perché è l’immagine che meglio rende l’attuale situazione.
In questo inizio 2024 c’è in giro una pericolosa illusione. Secondo molti la guerra d’Ucraina starebbe per finire, o quantomeno per spegnersi per poi congelarsi magari in una “soluzione” alla coreana. Secondo questa visione, qualcosa del genere dovrebbe accadere pure in Medio Oriente, con l’allentarsi della presa di Israele su Gaza, cui seguirebbe non si sa bene che cosa.
Sfortunatamente le cose sono molto, ma molto più complicate.
Cosa vuol dire “Terza Guerra Mondiale”?
Questo articolo non ha lo scopo di affrontare l’insieme delle questioni geopolitiche che si stanno avviluppando davanti ai nostri occhi. Quel che qui ci interessa è fissare un dirimente punto di analisi. La “Guerra Grande” (copyright Lucio Caracciolo) ha la sua origine nella scelta occidentale, dunque in buona sostanza americana, di non cedere l’attuale supremazia su scala planetaria. Una supremazia messa in discussione dall’emergere della Cina, dallo sviluppo dei Brics, dal minor peso economico dell’Occidente complessivo, dall’evidente tendenza generale al multipolarismo, dall’insostenibilità di un sistema monetario dollaro-centrico.
A Washington hanno da tempo deciso di lottare per impedire il passaggio dal “nuovo secolo americano”, teorizzato venti anni fa, a un sistema policentrico in cui dover ricontrattare i nuovi equilibri di potenza.
E lo strumento principale di questa lotta, anche se di certo non l’unico, è quello militare. Da qui la guerra in corso in Ucraina, da qui la tendenza generale alla guerra che permea tutto l’Occidente in questo preciso momento.
Tuttavia, la guerra non è mai un fatto esclusivamente militare. Non solo perché, come ci ricorda von Clausewitz, essa è “la prosecuzione della politica con altri mezzi”, ma anche perché nella guerra entrano in campo altri fattori, tra i quali l’economia, il commercio, le relazioni internazionali, le capacità propagandistiche e quelle relative all’egemonia culturale e al consenso.
Chiamiamo quindi “Terza Guerra Mondiale” un periodo – nel quale siamo già entrati – caratterizzato dallo scontro, prevedibilmente sempre più violento, che potrà concludersi solo con la definizione di nuovi equilibri su scala planetaria e, a cascata, nelle diverse realtà regionali.
Nella pratica, i vari fattori della guerra tendono sempre a intrecciarsi. Ad esempio, nel caso specifico dell’Ucraina, l’offensiva occidentale ha visto prima un fatto politico con evidenti ricadute militari (l’espansione della Nato a est), quindi il rifiuto politico di un qualsiasi confronto diplomatico con Mosca, poi il pieno appoggio militare all’Ucraina, combinato con quella che nelle intenzioni di Washington doveva essere l’arma definitiva: le sanzioni economiche alla Russia.
Quell’arma qualche risultato l’ha raggiunto, ma ha fallito clamorosamente il bersaglio grosso: il rovesciamento di Putin, come premessa per lo smembramento della Federazione Russa. Si tratta di un fallimento pesante assai, ma questo significa che la guerra in Ucraina sia già finita con la vittoria russa? Chi scrive lo auspicherebbe, ma non lo pensa affatto. In ogni caso, il semplice congelamento dell’attuale linea del fronte sancirebbe sì il fallimento della strategia ucro-occidentale della “riconquista”, ma pure la Russia si ritroverebbe con un controllo solo parziale dei 4 oblast formalmente annessi nel 2022 e, soprattutto, con un’Ucraina ben lungi da ogni ipotesi di neutralità e denazificazione.
Solo una decisa offensiva russa, ben oltre la portata delle battaglie attualmente in corso, potrebbe modificare sostanzialmente lo stato delle cose. Certo, in ogni caso l’Ucraina è ormai uno Stato fallito, ma la prosecuzione di una guerra di usura (che include anche numerosi attacchi diretti sul territorio russo, come vediamo in continuazione) potrebbe alla fine logorare anche la Russia.
E’ evidente come gli strateghi Usa-Nato guardino proprio a questa possibilità, viceversa non avrebbero senso i giganteschi finanziamenti europei (vedi i 50 miliardi stanziati la scorsa settimana), ma pure quelli che continueranno di sicuro a fluire dagli Usa.
Tuttavia, anche qualora ammettessimo la possibilità di una decisiva avanzata delle truppe di Mosca, tale da imporre un “cessate il fuoco” ai fantocci di Kiev, questa non sarebbe la fine della guerra, ma solo la conclusione della sua prima fase.
Il punto dirimente, scusate la banalità, è che chi ha scelto la guerra non ha certo intenzione di perderla senza prima aver messo in campo tutte le sue potenzialità. Detto in altri termini: il blocco Usa-Nato studierà (anzi di certo sta già studiando) le prossime mosse. Ed esse saranno tutt’altro che accomodanti. Guai a sottovalutare il nemico! Errore che di certo a Mosca non faranno.
In Ucraina l’imperialismo occidentale mirava al massimo risultato con il minimo sforzo, lasciando alle sole truppe di Zelensky il classico ruolo di carne da cannone. Non ha funzionato, e il problema non è stato infatti quello delle armi, quanto piuttosto quello degli uomini. Si è disposti, adesso, a mandare a morire i soldati americani, inglesi, tedeschi, polacchi, italiani? E’ questo il vero nodo che l’Occidente collettivo si trova ora davanti. Un nodo classico, nel quale tornano in gioco la politica, la propaganda e il consenso…