Una pagina inedita nella storia di monseñor Romero

di Maria Teresa Messidoro (*)

MT-OscarRomero

E’ fin troppo facile scrivere su monseñor Romero, l’arcivescovo ucciso in El Salvador il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte, divenuto San Romero d’America molto prima della sua canonizzazione ufficiale: la voce di chi non ha voce, colui che viene ancora oggi chiamato semplicemente Monse dai contadini, le donne, i catechisti che l’hanno conosciuto. Ma è altrettanto facile cadere in banalità e ovvietà, per il molto che è già stato pubblicato in questi anni, sulla sua vita, la sua conversione, le omelie che denunciavano torture ed assassini, il suo esempio, il martirio finale.

Mi piace allora raccontarvi una pagina inedita, durata 127 giorni, che si riferisce alla prigionia di un giovane Romero, a Cuba, complice una spia nordamericana… di nome Ernest Hemingway.

Ecco la storia: Romero, all’età di ventisei anni, terminati i sei anni di studio a Roma, il 16 agosto 1943 intraprese il viaggio di ritorno con destinazione El Salvador, dove lo attendeva l’inizio della sua attività pastorale in una diocesi del Paese centroamericano. Dopo un breve viaggio fino in Spagna, si imbarcò sulla nave Marchese di Comillas, per attraversare l’oceano e finalmente tornare a casa; in compagnia di padre Rafael Valladares, a quei tempi il suo migliore amico, si accinse a compiere una traversata tranquilla, contento di essersi lasciato alle spalle i pericoli connessi con la guerra in corso in Europa. Ma Romero e Valladares non potevano immaginare che l’Oceano Atlantico fosse in quel momento un mare di intrighi e sospetti, accuse di spionaggio e cospirazioni, luogo di una vera guerra fra le navi degli Alleati e i sottomarini tedeschi.

Il 18 settembre, quando ci fu il primo scalo nell’isola di Trinidad Tobago, Romero venne minuziosamente interrogato; di sicuro non sapeva che nel dicembre precedente Ernest Hemingway, spia nordamericana infiltratosi in una nave peschereccio, aveva comunicato a Fbi e autorità cubane di un contatto sospetto fra sottomarini tedeschi e una nave, probabilmente con scambio di combustibile e trasferimento di spie tedesche. Quella nave era proprio la Marchese di Comillas, che l’anno successivo trasporterà l’ignaro Romero. Le quaranta persone che componevano l’equipaggio della nave e gli allora passeggeri erano stati interrogati e trattenuti alcuni giorni nel porto dell’Habana, senza portare ad alcun riscontro sulle presunte attività di spionaggio; ciononostante, Hemingway continuò a controllare i movimenti della Comillas, fino appunto al viaggio di Romero. E fu così che quando la nave attraccò a Cuba, il 21 settembre 1943, Romero e Valladares furono immediatamente trattenuti negli uffici del Servizio indagini di attività nemiche della Divisione Centrale di Polizia. Non li salvò certo la tonaca talare, anzi: proprio nel luglio dello stesso anno, quindi alcuni mesi prima, le autorità cubane avevano arrestato tre sacerdoti domenicani, accusati di propaganda hitleriana. Poco servì a discolpare Romero e Valladares il loro mancato appoggio diretto o indiretto al governo fascista. Furono così trasferiti in un campo di concentramento, dove in quel momento si trovavano poco meno di cinquecento detenuti, quasi tutti rifugiati senza documenti; furono sicuramente costretti ai lavori forzati, da cui li salvarono alcuni missionari in visita al campo, dichiarando sotto la propria responsabilità che Romero e Valladares erano effettivamente sacerdoti e, soprattutto, non spie. Furono così trasferiti in un ospedale della capitale, dove vennero curati.

Riottenuta la libertà, ripresero il viaggio giungendo nello Yucatan, sulle coste del Messico, da cui per terra arrivarono finalmente in El Salvador, giovedì 23 dicembre, con grande soddisfazione dei loro famigliari che li avevano già dati per morti. Così Romero entrò trionfalmente nel suo paese natale il 4 gennaio 1944, quasi tredici mesi dopo la sua partenza da Roma. E’ suo fratello Gaspar a ricordare quel giorno di festa e allegria: «tutto il paese smise di lavorare per accoglierlo!».

Un giovane Romero dunque, che emerge anche da quattrocento fotografie inedite, che lo ritraggono nella sua esperienza di sacerdote nella zona orientale di El Salvador, accanto a comunità contadine in commemorazioni religiose, o in viaggio in Messico e in Vaticano. Il giovane Oscar Arnufo Romero amava la fotografia e alcune di quelle immagini sono state scattate proprio da lui, confermando ancora una volta la sua attenzione ai più umili, ai bambini scalzi, alle anziane analfabete.

Questo prezioso contributo è stato consegnato da una semplice donna salvadoregna, Santi Delmi Campos, al Museo de la Palabra y de la Imagen di San Salvador nel 2010, proprio a trent’anni dal martirio di monseñor Romero. Alcuni mesi prima di essere assassinato, Romero aveva visitato la casa di Delmi, come era sua abitudine, e le consegnò un bauletto contenente le fotografie, pregandola di conservarle gelosamente; lei lo ha fatto, in silenzio e nel rispetto di Monse, fino a quando deve aver pensato che non c’era più nessun pericolo e che si poteva rendere omaggio al «San Romero di America» donandole a quel popolo che lui amava tanto e per cui aveva dato la vita.

Monse, un uomo semplice, convertito dal suo popolo, martire e profondamente attuale e scomodo ancora oggi.

Dalla Terza Lettera Pastorale di monseñor Romero, 1978: «… (la violenza istituzionalizzata) si manifesta nelle organizzazioni e nel funzionamento quotidiano di un sistema socioeconomico e politico che accetta come normale e attuale che il progresso non sia possibile se non con l’utilizzazione della maggioranza della popolazione come forza produttiva da parte di una minoranza privilegiata. Incontreremo storicamente questo tipo di violenza tutte le volte in cui la macchina istituzionale della vita sociale funzioni a beneficio di una minoranza e sistematicamente discrimini quei gruppi e quelle persone che difendono il vero Bene Comune.

(La violenza repressiva dello Stato) è una vera violenza ed è ingiusta perché con essa lo Stato difende, soprattutto con i propri poteri istituzionali, la persistenza di un sistema socio politico in atto, impedendo di fatto la vera possibilità che il popolo, come soggetto ultimo della volontà politica, possa trovare un nuovo cammino istituzionale verso la giustizia».

Bibliografia su Mons Romero

Geraldina Colotti, «Oscar Romero beato tra i poveri», Edizioni Clichè 2015;

Ettore Masina, «L’arcivescovo deve morire», Edizioni Gruppo Abele 1996;

Anselmo Palini, «Oscar Romero Ho udito il grido del mio popolo», AVE 2010;

Maria Lopez Vigil, «Oscar Romero Un mosaico di luci», Bologna EMI, 1997.

(*) Maria Teresa Messidoro fa parte dell’associazione «Lisangà culture in movimento»: questo suo articolo uscirà sul numero di aprile della rivista «Tempi di Fraternità». Le informazioni sulla prigionia di Romero a Cuba sono tratte da «El Independiente» (San Salvador) del 14 gennaio 2016 e le fotografie dal numero 6-2010 di «Trasmallo», rivista del MUPI, Museo de la Palabra y de la Imagen di San Salvador.

 


Teresa Messidoro

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