Una rapper per l’Afghanistan

di Maria G. Di Rienzo

Anisa muore il 2 dicembre scorso mentre torna da scuola, grazie ai sette colpi d’arma da fuoco che un gruppo di uomini le scarica addosso. Aveva, forse, 18 anni (spesso in Afghanistan le nascite delle femmine non sono registrate) ed era una volontaria del ministero della Sanità del suo Paese: vaccinava bambini contro la poliomielite. In queste due frasi sono racchiuse tutte le sue “colpe”: era una donna, andava a scuola, lavorava volontariamente fuori casa. Il governo afgano, per cui i diritti di metà della sua popolazione non sono mai stati una priorità, è rimasto zitto.

Otto giorni dopo, un altro commando armato uccide Nadia Sediqqi, a capo del Dipartimento per le donne della provincia di Laghman (a circa 150 chilometri da Kabul), mentre si reca al lavoro. La sua predecessora era saltata in aria con la propria auto cinque mesi prima. Nadia aveva più volte, inutilmente, chiesto la protezione del governo: che non riesce a dire nulla neppure per questo caso e che, si può presumere, nulla farà.

In questo scenario, c’è una giovane donna che vive in una casa fatta di mattoni di fango. Ha 23 anni ed è tornata in Afghanistan, con la sua famiglia, nel 2005: ha passato la sua infanzia come rifugiata in Iran e in Pakistan. Si chiama Sosan Firooz ed è la prima rapper afgana. Il suo unico, per il momento, video autoprodotto dal titolo «I nostri vicini» viaggia attorno alle 90.000 visioni su YouTube. Sosan vi appare come veste di solito, in jeans e blusa, i capelli sciolti, il volto libero e gli accessori tipici (come la bandana) degli artisti hip-hop e rap. E c’è un’intensità vibrante nel modo in cui si china sul microfono e sembra allo stesso tempo pregare e comandare attenzione:

«Ascoltate la mia storia! Ascoltate il mio dolore e la mia sofferenza! Ascoltate la mia storia di rifugiata senza casa. Eravamo perduti, perduti, perduti in giro per il mondo. Quando la guerra è cominciata nel mio Paese non vi erano che pallottole, artiglieria, missili. Tutti i nostri alberi sono bruciati. La guerra ci ha scacciati dal nostro Paese».

Ma è meglio non lasciarlo più, canta Sosan, per andare a lavare piatti e raccogliere insulti in altri luoghi: «Abbiamo speranza per il futuro del nostro Paese e chiediamo ai Paesi nostri vicini di lasciarci in pace». Dovunque si trovasse con la sua famiglia, spiega la giovane nelle interviste, era «la sporca afgana». Così la chiamavano in Iran, rimandandola indietro a far la fila per il pane non appena arrivava al banco di vendita. Così la chiamavano in Pakistan. In Afghanistan la minacciano di continuo in modo diretto e trasversale; l’ultima chiamata telefonica è stata fatta a sua madre ed è relativa al fatto che Sosan ha recitato piccoli ruoli in sceneggiati televisivi: «Se tua figlia appare ancora in tv ti taglieremo la testa». E mentre i parenti fingono di non conoscerla o addirittura tagliano ogni legame con l’intera famiglia, il padre di Sosan si è licenziato dall’agenzia governativa per la fornitura elettrica per permettere alla figlia di seguire la sua vocazione artistica, per poterla accompagnare e proteggere: «Sono il suo segretario e la sua guardia del corpo. Ogni genitore ha il dovere di sostenere le sue figlie e i suoi figli, di aiutarli a progredire».

Sosan ribadisce che le minacce non la ridurranno al silenzio: «Il sostegno della famiglia mi dà la forza di lottare contro i problemi della nostra società». E quando sembra afferrare la musica per le braccia, abbracciandola e scuotendola con la sua voce, scandisce a tempo di rap il problema principale: «Vogliamo mettere fine a tutte le crudeltà commesse contro le donne e contro i bambini».

CONSUETA NOTA

Gli articoli di Maria G. Di Rienzo sono ripresi – come le sue traduzioni – dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/. Non mi stanco di consigliarvi il suo ultimo libro, “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo: una mia recensione è qui alla data 2 luglio 2011. (db)

 

Redazione
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  • UN AGGIORNAMENTO
    ricevo da CISDA (cisdaonlus@gmail.com) questo messaggio:

    Donne afghane da salvare: Safia, Sabira… Continua il progetto Vite Peziose
    Filed under: Donne e diritti umani

    l’Unità, 23/12/2012, di Cristina Cella
    Selay Ghaffar, direttrice esecutiva di Hawca, ha inviato all’Unità nuove storie di ragazze da salvare e ha raccontato del grande valore che il progetto «Vite Preziose» ha avuto ed ha per le donne, vittime di violenza, del suo Paese. Non solo per gli effetti pratici e immediati del sostegno economico ma anche per la forza dell’incoraggiamento che ricevono per continuare a lottare per un futuro di dignità.

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