Unnt-meah! Chi ha paura dell’anima cattiva?

di Fabio Troncarelli

Nella notte tra il 28 e il 29 novembre 1981 Nathalie Wood morì improvvisamente in circostanze mai chiarite. Aveva solo 43 anni e alle spalle una vita tumultuosa, in cui era stata trascinata continuamente dalle stelle alle stalle. La sua morte fu paragonabile alla sua esistenza: durante la notte scomparve misteriosamente in mare e il suo corpo fu ritrovato il giorno dopo non lontano dall’isola di Santa Catalina in California e dallo yacht dove aveva passato le sue vacanze insieme col marito Robert Wagner e con l’attore Christopher Walken. Da allora le ipotesi sulla sua fine si sono moltiplicate. Suicidio? Omicidio? Fatalità? Ci sono state ben due inchieste ufficiali della polizia, nel 1981 e nel 2013, che non hanno risolto il problema. Di sicuro c’è solo che la donna era ubriaca fradicia, imbottita di farmaci e reduce da una lite furiosa col marito, un personaggio ambiguo che la umiliava notte e giorno con i suoi tradimenti di carattere omosessuale o eterosessuale, ma montava su tutte le furie se un malcapitato osava farle la corte. Questa morte drammatica è beffardamente appropriata per un personaggio come la Wood, simbolo della Gioventù bruciata, insieme a James Dean: i due infatti recitarono insieme nel celebre film di Nicholas Ray e sembrarono subito l’emblema dei giovani sbandati e ribelli degli anni Cinquanta.

In ogni caso, il vero problema per tutti coloro che hanno subito il fascino di questa ragazza inquieta e disperata non è sapere se il marito abbia spinto la moglie fuori bordo o l’abbia incoraggiata al suicidio. Il vero problema è sapere che cosa abbia veramente detto Nathalie Wood a metà di Sentieri selvaggi di John Ford, il film successivo a Gioventù bruciata che la lanciò definitivamente nel cinema. Paradosso per paradosso, se è vero che la morte dell’attrice è un enigma, è un super-enigma anche che la Wood sia divenuta quello che è divenuta, e cioè un’autentica star di Hollywood, pronunciando parole incomprensibili. Infatti nel bel mezzo di un film coinvolgente come Sentieri selvaggi, la Wood – che era stata rapita dai Comanches e veste da indiana – grida ai suoi soccorritori «Unnt-meah» e tutti restano annichiliti. A dire la verità, gli spettatori restano basiti non solo perché non capiscono le parole che vengono pronunciate, ma anche e soprattutto perché non capiscono come mai la ragazza cacci via in malo modo i due disgraziati che l’hanno cercata per anni e anni, affrontando ogni sorta di pericolo e difficoltà e sopravvivendo a stento.

Il problema di cui vorremmo occuparci è proprio questo. Nathalie Wood era un’attrice che ha avuto un successo clamoroso. Eppure ha avuto una vita disastrosa. Sembra che non abbia saputo tirarsi fuori dai suoi problemi. Come la protagonista del film di Ford. Una giovane disperata, che è stata rapita, violentata, umiliata, che alla fine di un’Odissea tragica potrebbe salvarsi e che invece manda via i suoi salvatori in modo incomprensibile, dicendo parole incomprensibili.

Si dirà: “Ma dopo però arrivano gli indiani e i due devono scappare.”. D’accordo. Saranno gli indiani scatenati a far fuggire i due uomini. Però un istante prima, quando gli indiani ancora non c’erano, era stata la ragazza a cacciarli via. Avevamo avuto l’illusione che la sua terribile storia potesse finire. E invece no. E’ lei stessa a dire di no. E lo dice pronunciando parole misteriose «Unnt-meah».

Cominciamo da zero. Innanzi tutto, che vuol dire «Unnt-meah»? Si tratta di un’espressione della lingua Comanche. Beh, Comanche… per modo di dire. Frank Nugent, che ha scritto la sceneggiatura del film, ha storpiato a modo suo la lingua degli indiani. Per carità, ha fatto uno sforzo eccezionale per l’epoca. Scaraventato a viva forza da Ford nel bel mezzo delle riserve dei “pellirosse” tra Okhlaoma, Utah e Nuovo Messico, col preciso scopo di imparare tutto dagli indiani per usarlo nel film, Nugent ha gettato alle ortiche la sua divisa di giornalista di successo newyorkese e ha fatto una full-immersion di cultura Navajo e Comanche, procurandosi informatori che l’hanno imbeccato a dovere. Però lui, poveraccio, non era un linguista e capiva facilmente fischi per fiaschi. In Comanche «Unnt- meah» si dovrebbe scrivere e pronunciare “ǝun’ mia” (più o meno «aeuneu mia»): che vuol dire “Tu vai”. Per rendere il suono «aeun» della parola “ǝnǝ”, che significa “tu”, Nugent ha cercato di riprodurlo con una grafia inglese: «un» che in inglese si legge «an» (senza la “nt” finale) e «meah» che si legge «miah» (M. García Rejon, Vocabulario del idioma Comanche, Mèxico D.F., Ediz. I. Cumplido, 1865, pp. 19 e 14). Peccato però che nel doppiaggio la parola sia stata letta come era scritta, visto che i Comanches pronunciano le parole senza distorcere il suono dei fonemi come fanno gli inglesi. E così la frase in Comanche diventa incomprensibile a un vero Comanche.

Comunque il punto non è questo e va assolutamente elogiato lo sforzo pionieristico di Ford e di Nugent di usare la vera lingua dei Comanches in tutto il film. Il punto è: cosa ha voluto dire la ragazza? Ha detto «vattene», d’accordo, e questo si capiva pure senza sapere il Comanche. Ma cosa significava veramente?

Qualcuno potrebbe rispondermi che il film lo spiega subito: infatti la ragazza, che si chiama Debbie, risponde in inglese a Martin, uno dei due uomini che le ha chiesto: «Ma non ti ricordi di me?» e gli dice. «Mi ricordo. Lo ricorderò per sempre. All’inizio ho pregato tanto che venissi a prendermi, ma tu non sei venuto». E l’altro, dolorosamente stupito, ma pieno di coraggio e di affetto risponde: «Ma sono qui adesso…». A queste parole Debbie, quasi impietrita, risponde: «Questa è la mia gente. Il mio popolo». E poi, quasi supplicando grida: «Va via».

Non si spiega dunque così il problema che avevo posto? Debbie non si sente più una bianca, ma si sente ormai Comanche e quindi manda via i suoi “salvatori”. E poi, in fondo, vuole farli scappare, che si salvino… Non basta capire questo?

Già. Eppure non è chiaro lo stesso. Se la ragazza sapeva benissimo l’inglese, da prima, perché ha parlato in Comanche? Nella sceneggiatura originale l’uomo che sta con Martin, il razzista Ethan che vorrebbe solo uccidere Debbie perchè ormai è “disonorata” dice sprezzante: «Non vedi che non parla neppure più l’inglese?». Ma la battuta è stata tolta da Ford girando la scena. E non a caso. Debbie parla Comanche solenne e misteriosa e poi rivela “misteriosamente” di ricordare perfettamente l’inglese. Senza nessuna spiegazione. E questo ribadisce l’enigma da cui siamo partiti. Ci si aspetterebbe un comportamento diverso. Poco prima, Ethan e Martin avevano incontrato altre due ragazze rapite dai Comanches ma le due, quasi impazzite, non sapevano parlare più la lingua madre e chiamavano i due uomini «Pabo-Taibo» che vuol dire «Uomini bianchi». Debbie invece, pur proclamando di appartenere ormai ai Comanches, non si sente affatto estranea al suo mondo originario. E ricorda perfettamente di avere pregato di essere salvata e di avere provato una cocente delusione perché nessuno ha ascoltato le sue parole. Tutto questo è rimasto incastonato nel suo cuore e coesiste accanto alla sua nuova identità di Comanche.

In sostanza Ford ci sta dicendo a chiare lettere che Debbie ha una doppia personalità: che la ragazza indiana è una sosia di sé stessa, un “doppio” misterioso che esiste nella stessa persona. Il tema non è nuovo per Ford: era già comparso in Tutta la città ne parla, dove narrava la storia di un uomo mite che era il sosia di un gangster. Riaffiorerà ancora nel bellissimo L’uomo che uccise Liberty Valance, in cui una stessa azione nobile e coraggiosa viene compiuta contemporaneamente da due uomini opposti e complementari, che sono in un certo senso le due facce della stessa medaglia. Ma torniamo a Debbie. Dunque, per Ford non è strano che la ragazza parli prima in Comanche e poi in inglese. In lei ci sono due esseri che coesistono a fatica: una bambina smarrita, che prega e piange perché nessuno la consola. E una donna indiana, che mostra ai bianchi gli scalpi dei nemici appesi a una lancia e vuole solo che vadano via dal suo mondo.

Questa contraddizione psichica ci proietta nell’universo mentale del Doctor Jeckyll and Mr Hyde di Stevenson, amatissimo da Ford. Ma anche nell’universo di Freud, altrettanto amato da Ford, anche se amato in segreto.

Il ritratto di Ford sulla parete nel film di Ford «L’Ultimo urrà».

Ho già mostrato altrove che Sentieri selvaggi si ispira dichiaratamente ai Misteri di un’anima di Pabst, il primo film sulla psicoanalisi1. Di conseguenza, indiani e cowboys sono solo allegorie dei misteri dell’anima: più o meno come lo scarafaggio è un’allegoria dell’uomo ridotto a una vita subumana secondo Kafka; e il prode guerriero Orlando è un’allegoria dell’innamorato deluso per Ariosto. Di conseguenza è stupido cercare in tali allegorie la precisione etnografica o la correttezza politico-morale, così come è stupido chiedersi se lo scarafaggio di Kafka è descritto con l’accuratezza di un entomologo o se Orlando somiglia davvero a un cavaliere medievale, con tanto di armatura. La cosa può lasciare stupefatti ma in realtà è stupefacente solo per quei critici sprovveduti che continuano ancora oggi a chiedersi se il film è razzista e altre scemenze, come se fosse un documentario sui Comanches invece di un ‘opera d’arte. Posso rassicurare i critici poco dotati: il film è talmente lontano dal mondo mediocre di oggi, con le sue polemiche ipocrite e di retroguardia, che non parla affatto di indiani e cowboys veri, ma dei problemi affrontati dalla psicoanalisi all’epoca di Pabst e di Freud. Ne volete una prova? Guardate qualche foto e ve ne accorgerete da soli.

Del resto, a parte le citazioni visive, il richiamo ai misteri dell’anima c’è sin dall’inizio del film. Non è un caso se la canzone dei titoli di testa, che sentiamo altre volte nel corso del film e che fu ispirata da Ford, ripete con un ritornello ossessivo che accompagna le avventure dei personaggi: «Un uomo cercherà il suo cuore e la sua anima / errando lontano, via da qui. /Sa che troverà la pace della sua mente… / Ma dove, Dio mio, dove…» (“A man will search his heart and soul/Go searchin’ way out there/ His peace of mind he knows he’ll find/But where, oh Lord, Lord where?”).

Lo stesso richiamo alle profondità della psiche è nella straordinaria colonna sonora del viennese Max Steiner, che nella prima battuta della musica del film cita alla lettera l’ultima battuta della Sinfonia n. 6 del suo maestro Gustav Mahler2: un fortissimo che toglie il respiro e rappresenta come disse Mahler «un colpo del destino». Iniziando dove Mahler aveva finito, Steiner ci suggerisce che la sua Vienna è ancora lì e che la musica più adatta alla storia disperata della ragazza rapita è quella della sinfonia soprannominata «Tragica», in cui Mahler, che stava per perdere sua figlia, esprimeva la sua più profonda disperazione («Nessun altro pezzo di musica eguaglia questo finale per la sua cupa e profonda desolazione»: così Henry-Louis De La Grange).

Ma se tutto questo è vero e il film parla dell’anima umana e dei suoi tormenti, cosa rappresentano allora i Comanches e perché si cerca di riprodurre addirittura puntigliosamente il loro linguaggio? Io credo che la rappresentazione di indiani più veri del vero abbia lo stesso valore della ricerca del Vero per Caravaggio: la cruda raffigurazione del cadavere di una prostituta ripescata dal Tevere, presa a modello per l’immagine della Madonna morente, accentua ed esaspera il dolore per la morte, rompendo ogni stereotipo convenzionale. Gli indiani di Ford – quegli indiani lì, apparentemente iperrealistici e invece metafisici e astratti, nella loro drammatica condizione di “alieni” dal mondo dei bianchi di cui non parlano la lingua – raffigurano un mondo indicibile, irrappresentabile secondo i canoni dell’estetica di allora. Un mondo selvaggio, violento, feroce, senz’anima, del tutto simmetrico a quello dei bianchi razzisti, feroci e senz’anima.

Intendiamoci bene: non voglio dire che gli indiani siano solo pallide ombre o figure di sogno. Il film non avrebbe la sua forza drammatica se non ci fossero indiani in carne ed ossa. Anzi, se proprio la vogliamo dire tutta, sul set di indiani Navajos ce n’erano almeno trecento, enormemente di più degli attori di pelle bianca: alcuni facevano addirittura contemporaneamente due parti, una volta travestiti da feroci pellirosse e un’altra da pionieri. Ford è sempre stato sempre dalla parte dei Navajos, aiutandoli economicamente e moralmente e i Navajos lo consideravano una specie di capo. Nel film ci sono molte allusioni alle ingiustizie e alle atrocità dei bianchi che si definiscono “civili” e nella versione originale c’era perfino una scena in cui Ethan prendeva a male parole il terribile George Armstrong Custer, accusandolo di essere un vigliacco e un assassino di donne e bambini. La scena fu poi tagliata, ma non per motivi di censura: come ha mostrato con finezza Arthur Eckstein questa tirata antirazzista e antimilitarista avrebbe rovinato la coerenza del personaggio di Ethan, che deve invece essere “cattivo” e quasi pazzo perché altrimenti il film non funzionerebbe3. Tuttavia la sua presenza nella sceneggiatura di Nugent e nella prima versione del film ci dice chiaramente che cosa i due pensassero dei soldati yankee.

Il contrasto con Custer nella scena eliminata di “Sentieri selvaggi”

E tuttavia gli indiani del film sono anche allegorie. Come avviene nella cultura medievale, come avviene in Dante le allegorie sono allo stesso tempo concrete e astratte: esprimono una realtà terrena e simultaneamente una realtà metafisica, hanno un senso letterale e un senso spirituale. Ford ci spiazza e mescola le carte in modo bizzarro per non farci credere che esista un solo significato in ciò che rappresenta. Per questo i Comanches – che Frank Nugent si era sforzato di far parlare nella loro lingua – parlano anche Navajo, alla faccia della sceneggiatura: e il loro capo che dice «Puetzé», cioè “Domani” in Comanche, dice anche «Bilagaana biyooch’íd» cioè “I visi pallidi mentono!” in Navajo (L. Wall-W. Morgan, Navajo-English Dictionary, Window Rock, Ar.Navajo Agency Press, pp. 20 e 22) mentre avrebbe dovuto esclamare: «Pabotabebo isaap» (che in Comanche significa la stessa cosa) come è scritto nella sceneggiatura di Nugent, che Ford ha cambiato durante le riprese. L’effetto è surreale: è come se un ufficiale dell’Armata Rossa desse ordini ai suoi soldati in tedesco durante l’assedio di Stalingrado. Per la stessa ragione è piuttosto sconcertante che il capo degli indiani, il terribile Scar, sia interpretato da un attore con gli occhi azzurri, nato a Berlino, Heinrich von Kleinbach, conosciuto col nome d’arte di Henry Brandon. Non meno sconcertante è che questo prode guerriero, la cui unica ossessione è non perdersi la prima del Tannhäuser, fermi una carica di cavalleria per mettersi il copricapo di piume da cerimonia: il che equivale a Rommel che blocca la battaglia di El Alamein per mettersi il cilindro e il frack.

Gli indiani di Ford sono figure inquietanti e irreali, vestite come Arlecchino da pezzi di stoffa colorati, ricuciti casualmente. Sono esseri proteiformi come la Chimera. Il regista ha raccomandato molte volte ai suoi collaboratori di non avere paura di mescolare costumi e oggetti di varie tribù, come si vede dalle note inviate a Nugent durante la preparazione di Sentieri selvaggi, conservate nella Lilly Library dell’Università dell’Indiana (Bloomington, The Lilly Library, John Ford Papers, Box 6, Folders 19-22) e come è stato messo in evidenza da un bell’articolo di Cristine Soliz4.

Il risultato di tutta questa confusione è che gli indiani che vediamo sono uno, nessuno e centomila e stanno a significare qualcosa di diverso da quello che ci aspetteremmo in un documentario. Sono in sostanza maschere della Commedia dell’Arte che hanno valore solo all’interno dello spettacolo rappresentato. Parlano con efficacia realistica il loro dialetto come Pulcinella e Arlecchino parlano il loro. Ma la loro funzione artistica non è affatto dare un tocco di realismo all’opera ma essere comprimari efficaci dei protagonisti. Se ci è consentito il paradosso, il film sembra girato da Buñuel, una specie di Via lattea nella quale i protagonisti hanno strane visioni e incontrano soldati e persecutori di varie epoche e Paesi, uno dopo l’altro, senza capire se appartengono al passato o al presente, tutti accomunati dal desiderio di uccidere, ferire, distruggere.

So bene che queste affermazioni provocheranno reazioni indignate nei patiti del western e nei neo-conformisti politically correct dei nostri giorni. Mi dispiace per voi: Ford non è quello che sembra ma un uomo perennemente in maschera che nasconde i suoi veri sentimenti avvolgendoli dietro una nuvola di fumo. E non solo i sentimenti, ma anche i suoi film, che tanto spesso (compreso Sentieri selvaggi) sono ispirati da Shakespeare senza che ce ne accorgiamo5.

Allo stesso modo la ricerca di Debbie, che sembra la ricerca del Graal, non ha un valore realistico, ma piuttosto simbolico. E’ la ricerca della metà di un essere umano che sopravvive, prigioniero di un mondo disumano. La ricerca di quella parte dell’anima che sopravvive nonostante tutto, prigioniera di un mondo violento e feroce.

Debbie si è identificata con l’aggressore, ha avuto, per così dire, una sorta di “Sindrome di Stoccolma” che l’ha trasformata in una complice dei suoi aguzzini. Ma questa maschera, che le ha permesso di sopravvivere e di neutralizzare le conseguenze del suo trauma è una falsa identità. E’ una variazione sul tema della sua profanazione che continua nel corso del tempo, apparentemente attutita ma in realtà ancora dolorosa. Ridotta a una specie di automa, a un animale addomesticato, Debbie sillaba impietrita «ǝun’ mia». Ma è la prima a non crederci. E se dice «Va via!» vuole dire “Resta!”.

Il grande psicoanalista Franz Alexander ha scritto una pagina bellissima sulla conversione di Jean Valejan nei Miserabili e ha fatto notare, con finezza, un particolare apparentemente sconcertante. Subito dopo essersi pentito, l’ex forzato devastato dalla sua vita violenta che vorrebbe essere un uomo migliore, ha un sussulto di cattiveria che gli impedisce di cambiare. Questa “crisi di rigetto” verso la salvezza ci sgomenta e Hugo, sgomento come noi di quello che gli è uscito dalla penna, aggiunge: «Era forse un ultimo effetto, quasi un supremo sforzo dei cattivi pensieri portati via dal carcere, un avanzo d’impulso, un risultato di quella che in statica si chiama forza acquisita?».

Senza dubbio, quest’ultimo inspiegabile rifiuto di cambiare sembrerebbe quasi una sconfessione dei buoni propositi dell’uomo. Sarebbe facile giudicarlo con il metro del moralista e dire: “Tu che vuoi cambiare, non cambierai mai. Sei marcio fino al midollo!”. Ma le cose non stanno così. Questo lo può capire solo chi è come il Martin del film: pieno di coraggio e di affetto per gli esseri umani. Osserva lucidamente Alkexander: «Valjean in risposta alla sua improvvisa e imprevista presa di coscienza dovette ristabilire il suo equilibrio scosso con una vendicativa insistenza nell’essere cattivo. In questo, Hugo descrive una esperienza ben conosciuta in psicoanalisi: ogni volta che un sintomo o un atteggiamento nevrotico è attaccato dalla terapia, di solito avviene una recrudescenza del sintomo prima che il paziente sia capace di abbandonarlo del tutto. Lo psicoanalista esperto conosce questa tempesta prima della calma, questa esacerbazione della condizione morbosa che precede il miglioramento, e osserva con impaziente aspettativa la sua apparizione6».

Ed ecco allora la risposta al problema che ci ponevamo all’inizio. Debbie, che risponde in Comanche «Vattene!» a chi cerca di salvarla, ha una specie di “recrudescenza” del suo male: si aggrappa disperatamente alle sue difese che le hanno permesso di sopravvivere e preferisce andare avanti stancamente umiliata, piuttosto che vivere una vita nuova e incerta, riaprendo tutte le sue ferite. Come cantava una volta Matteo Salvatore, il contadino povero dice: «Padrone mio ti voglio arricchire / come un cane voglio lavorare. / Se io sbaglio dammi le botte. Voglio la morte, ma non mi cacciare…» (“Padrone mije, te vojo arrecchire / come ‘nu cane i’ vò fatijà ./ Quanno sbajo, damme le botte. / Vojo la morte, nun me caccià…”).

Ma dietro all’apparenza c’è ben altro. Lo spettatore, come lo psicoanalista esperto “osserva con impaziente aspettativa” quello che succede a Debbie e al razzista Ethan. Alla fine i due cambieranno. Misteriosamente. O forse no. La loro doppia personalità tornerà una sola: e i due saranno uno, uniti da un meraviglioso abbraccio, identico a quello che conclude I misteri di un’anima, simbolo trasparente della ritrovata armonia. La falsa identità di Debbie, come la pelle di un serpente è caduta per sempre: ed è caduto per sempre il Falso Sè razzista di Ethan, che diceva di voler trovare Debbie per ucciderla e che invece cercava la “ragazza disonorata” solo per stringerla con un abbraccio sublime in una delle sequenze più straordinarie mai girate. Un abbraccio che non ha bisogno di parole – né Comanches né inglesi – perché esprime tutto quello che c’è da dire con la lingua del corpo e del calore umano.


NOTE

1 F. Troncarelli, Il mistero dietro la porta. Il cinema senza maschere, Bari, Adda, 2019, pp. 95-104.

2 Steiner amava molto fare questo tipo di citazioni: nella colonna sonora di Mission to Moskow utilizzò una romanza di Tschaikovsky (Op. 5) e in Beast with 5 fingers, inserì nella musica dei titoli di testa la Ciaccona di Bach. Come ha scritto Bill Wrobel: “Era estremamente raro che Steiner non incorporasse nella sua musica quella di altri compositori” (B. Wrobel, Nature of Max Steiner’s music, http://filmscorerundowns.net/steiner/, pag 29.

3 The Searchers: Essays and Reflections on John Ford’s Classic Western, a cura di A. Eckstein-P. Lehman, Detroit, MI, Wayne. State University Press, 2004, pp. 22-23.

4 C. Soliz, The Searchers and Navajos: John Ford’s retake on the Hollywood Indian, in “Wicazo Sa Review”, 23, 1 (2008), pp. 73-95.

5 F. Troncarelli, Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood, Bari, Deadlo, 1994. Sentieri selvaggi è ispirato al Pericle principe di Tiro di Shakespeare.

6 F. Alexander, Psychoanalytic Therapy: Principles and Application. New York, Ronald Press, 1946, cap. 17.

 

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Francesco Masala

    nel film Annette, adesso al cinema, ambientato a Los Angeles (Hollywood), la protagonista Ann (Marion Cotillard) muore come Nathalie Wood, chissà se è una citazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *