Uscire dall’economia?

di Paolo Cacciari (ripreso da comune-info.net)

(Ringrazio Serge Latouche per avermi pazientemente offerto molte delucidazioni, che tuttavia non sono bastate a sciogliere alcune mie perplessità).

Premessa

Serge Latouche in alcune interviste (di Emanuele Profumi, Vi spiego perché dobbiamo abbandonare l’economia, in Economia Circolare, 24/1/2022; di Simone Lanza, Il Tao della decrescita, il Margine, 2022;) riprende l’espressione “uscire dall’economia” che aveva già usato in precedenti lavori (Uscire dall’economia, con Anselm Jappe, Nimesis, 2018, e, principalmente: L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, 2010).

Latouche afferma: «È chiaro che esistono delle alternative economiche al neoliberismo, come ad esempio il vecchio keynesismo. Il problema è che delle alternative economiche compatibili con la sostenibilità della nostra civilizzazione non esistono. Perché? Perché qualsiasi tipo di economia (keynesiana, liberista, socialista, etc) è incompatibile con l’ecologia. Per questo insisto spesso, quando parlo di decrescita, sull’esigenza di “uscire dall’economia.”» (dalla citata intervista a Profumi). Insomma dovremmo «fuoriuscire dal giogo dell’economia» nel suo insieme, «senza mezzi termini» (Jappe e Latouche).1

Tuttavia “uscire dall’economia” è uno slogan che incontra difficoltà di comprensione e genera confusione anche in molti lettori – io, tra questi – impegnati in vario modo nella invenzione di “economie altre”, poiché insorge il dubbio che il programma politico-culturale-antropologico della decrescita (niente di meno che un cambio di civiltà) sia tutt’altra cosa dall’iniziativa concreta volta a trasformare le basi economiche della società; terreno pratico, questo, prediletto dall’iniziativa di molti gruppi e movimenti che pure ritengono di agire in coerenza con l’idea dalla decrescita2. La mia preoccupazione è che la forte provocazione intellettuale (storica, antropologica, filosofica) lanciata da Latouche venga intesa come negazione di motivi validi per agire (anche) nel campo pratico e semantico dell’economico. Con la conseguenza di provocare un cortocircuito (un effetto boomerang) nella stessa “base sociale” della decrescita.

Penso che la decrescita abbia un problema principale: riuscire ad attivare una soggettività capace di incidere sulla società. Non solo un movimento di opinione formato da persone informate e indignate, tantomeno un club di cassandre, ma gruppi, comunità, movimenti capaci di intraprendere un percorso “post-gowth” (del tipo di quello indicato dallo stesso Latouche con le 8 R) in ogni luogo ed ora. Non dopo la catastrofe, perché dopo, forse, non avremmo nemmeno la magra soddisfazione di poter dire: “ve lo avevamo detto”. Vorrei quindi tentare di dissipare il rischio di una contrapposizione ontologica, che a mio modo di vedere sarebbe del tutto assurda, tra l’ipotesi teorica della società della decrescita (vale a dire, di una civiltà equa e in armonia con il mondo naturale) e l’azione concreta di trasformazione dal basso delle basi materiali delle relazioni economico-sociali-istituzionali-giuridiche-politiche oggi esistenti. Meglio ancora, vorrei che emergesse la interdipendenza dei due piani: quello del pensiero eticamente connotato e quello dell’azione pratica, della sperimentazione e del conflitto sociale e politico contro il potere dei dominanti. Vorrei sostenere la complementarietà tra un punto di vista alto e radicale, capace di liberare la mente dall’attuale dimensione economica totalizzante (la “decolonizzazione dell’immaginario” economico) e l’azione concreta, quotidiana, localizzata capace di riorientare e autogovernare le esigenze delle persone. Nulla di nuovo, in realtà. Le idee senza esperienze di vita diventano ideologie; le “buone pratiche” senza una visione trasformativa rimangono consolazioni, facilmente assorbibili nella metamorfosi continua del sistema economico dominante.

Penso quindi, che la “base sociale” della decrescita, il suo “motore”, sia proprio la galassia delle esperienze di “economie altre”, volte a creare valori d’uso non commerciali, ecosolidali, trasformative, mutualistiche, non-profit e fuori mercato, fondate su relazioni di scambio paritarie e reciproche, non mercificate e mercantilizzate. A partire dai movimenti che si battono per la sovranità alimentare (agroecologia), energetica (autoproduzione, generazione diffusa e giustizia climatica) e l’autodeterminazione territoriale (dai popoli indigeni alle popolazioni investite da progetti di grandi opere dannose). In genere penso ai movimenti ambientalisti (contro il consumo di suolo, per la rigenerazione urbana, per la difesa della biodiversità e del paesaggio, ecc.) che si muovono sia a scala locale che bioregionale, che planetaria. Penso anche ai movimenti per la salute pubblica, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Ai movimenti ecofemministi e, in generale, a tutti coloro che si battono per smantellare ogni sistema di potere come dominazione sugli altri e sulla natura. Abbandonare Cartesio, quindi, ma, andando più in profondità, bandire anche i testi genesiaci relativi al dominium terrae3. Uscire dall’antropocene, abolire il patriarcato e ogni altra forma di inferiorizzazione, sottomissione e sfruttamento di qualsiasi forma di vita.

Uscire dal dilemma

Si pone quindi il quesito: uscire dall’economia, o rifondarla, risignificarla, reinventarla, reincorporarla, scioglierla in una inedita dimensione etica e politica, sociale ed ecologica?

Mi rendo conto che il quesito posto in modo così semplificato possa apparire una disputa nominalistica astratta. Al fondo basterebbe intendersi sul significato da attribuire alle parole “economia” o “economico”4. È infatti molto difficile riuscire a concepire una economia che non poggi su un qualche tipo di società o, viceversa, una società che non faccia aggio su una qualche forma di economia. Se è pur vero che sono le società (intese come sistema di valori condivisi, rappresentazioni, norme comportamentali, ecc.) che si creano come meglio credono le forme di economia che le sono più consone, è pur vero che le diverse modalità con cui le civiltà umane hanno risolto i problemi della sussistenza e della riproduzione hanno contribuito non poco a plasmare le loro stesse caratteristiche principali. Ogni economia è figlia di una politica ed ogni politica è economica. Non esiste una economia in natura. Non esiste nessuna autonomia della sfera economica se non quella concessa dalla società politica. Tuttavia esiste – banalmente – una natura biogeochimica con cui ogni società (anche quelle animali non umane) deve fare i conti. Tra i paradigmi fondanti di una civiltà ci sono sicuramente anche i diversi modi di cooperazione sociale finalizzati alla creazione, distribuzione e utilizzazione di beni e servizi (per usare termini di oggi) ritenuti necessari dalle popolazioni. Mi è difficile riuscire a immaginare una forma di civiltà che non faccia i conti con le proprie esigenze (biologiche e spirituali, bisogni e desideri – “bi-sogni”) in un mondo naturale inevitabilmente limitato (per materia). Lo stesso Latouche riconosce che «c’è qualche cosa di universale [sostanziale, materiale, naturale, biologico, ndr] alla base dell’economia, ma non per questo l’economia stessa è universale». E che: «Naturalmente, come ogni società umana, una società della decrescita dovrà organizzare la produzione della propria vita, vale a dire utilizzare ragionevolmente le risorse del proprio ambiente e consumarle attraverso beni materiali e servizi» (L’abondance frugale comme art de vivre). Per esempio ad un “individualismo metodologico” (secondo cui un essere umano è solo “un atomo di egoismo”) corrisponderanno determinati comportamenti “economici” come la corsa competitiva all’accaparramento privato delle risorse, il produttivismo, il consumismo edonistico. Al contrario nelle prime comunità cristiane e nei falansteri socialisti e anarchici prevaleva l’economia della comunione dei beni, poiché si pensava che “il senso morale [fosse] una facoltà naturale, proprio come l’olfatto e il tatto” ( P.A. Kropotkin, La morale anarchica). Così come nelle società matrifocali corrisponde un’economia materna della cura. Le società patriarcali sviluppano invece inevitabilmente una economia di guerra (servono esempi?). Quelle contadine una economia di permanenza (Joseph Kumarappa). Alle società schiavistiche corrisponderà una drastica “divisione” del lavoro. E molte altre …  ibridando e, soprattutto, oggi, omologando (occidentalizzazione).

Tutti d’accordo nell’uscire dall’economia oggi esistente

È tristemente noto come l’economia capitalista nella sua trionfale avanzata sia progressivamente riuscita a inglobare e asservire l’intero costrutto umano, annichilendo ogni forma di relazione sociale, fino ad avvolgere al suo interno la vita intera (onnimercificazione, biocapitalismo). Siamo giunti così a percepire la crescita economica (assieme all’innovazione tecnologica) come un dogma metafisico. Il posto che prima occupava la divina provvidenza, oggi è preso dall’innovazione tecnologica. Mentre quello dello spirito santo è stato sussunto dalla finanza. Chi altro sarebbe capace di fare soldi con i soldi!

Dobbiamo riuscire a demistificare la teoria della “scienza economica” moderna, figlia (tra le tante) della rivoluzione scientifica di Francis Bacon, come costruzione monologica razionalistica, che accompagna la nascita, giustifica le basi e teorizza le magnifiche sorti del capitalismo. Questa idea di economia codificata unica (come del resto avviene per tutte le discipline scientifiche sempre più specializzate e separate: dalla medicina alla sociologia, dall’astronomia alla meteorologia, dalla fisica alla matematica …) ha una data di origine (il Seicento), una fonte battesimale (l’Inghilterra), un profeta (Locke) e una stola di officianti negli economisti.

La “scienza economica” da cinquecento anni non ha fatto altro che studiare, misurare, pianificare i meccanismi più efficienti al fine di massimizzare i rendimenti delle risorse appropriabili, a partire dalla terra e dal lavoro, per giungere ai saperi e ai sentimenti, dai beni materiali a quelli cognitivi. Ciò è potuto avvenire perché l’economia, con i classici, si è dotata di un proprio statuto autonomo, scientificamente sperimentabile e replicabile (imitando le scienze naturali “dure”), autoreferenziale e quindi libero da qualsiasi condizionamento esterno (religioso, filosofico, etico e persino biofisico). Continuo a pensare che nessuno meglio di John Locke (ricordato spesso da Latouche) abbia espresso i fondamenti materiali ed etici del pensiero economico moderno: “Colui che recinta un terreno e da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarne da cento acri lasciati allo stato naturale, dona novanti acri all’umanità” (Trattato sul governo, 1662). Magistrale! C’è già tutto: l’iniziativa privata, il calcolo razionale utilitaristico, l’appropriazione, la competizione, il riconoscimento sociale, la totalizzazione della ragione economica.

Essendo la sussistenza il primo bisogno degli esseri viventi è abbastanza facile immaginare che coloro che sarebbero riusciti a organizzarsi per “donare all’umanità” più generi di consumo, attraverso il meccanismo economico descritto da Locke (cioè con le enclosures, le colonizzazioni, ecc.), avrebbero potuto acquisire ed esercitare un maggiore potere politico. Nascono così le nuove classi sociali e la “economia politica”, il campo dentro cui vengono stabiliti quali devono essere i rapporti sociali (e quindi i comportamenti individuali) più funzionali all’espansione dei rendimenti economici dei capitali (naturali e umani) posseduti. Ovviamente, le teorie e le pratiche di “economia politica” si sono evolute nel tempo, diversificate ed adattate alle condizioni materiali e culturali nelle varie parti del mondo. Fino a giungere alla “occidentalizzazione”, al pensiero unico, all’omologazione nella globalizzazione.

non c’è dubbio che il capitalismo, nella sua travolgente evoluzione abbia dimostrato di essere un sistema efficiente (più produttivo di qualsiasi alto) e capace di rigenerarsi attraverso metamorfosi spettacolari. Il capitale ha esteso i suoi tentacoli su tutta la società, riuscendo ad estrarre valore ovunque; dalla fabbrica alla società, dalle conoscenze ai sentimenti (Foucault, Negri …). È riuscito a sopravvivere all’abolizione della schiavitù, al suffragio universale, a due guerre mondiali, alla rivoluzione russa e al ‘68… E c’è chi è pronto a scommettere che riuscirà a metabolizzare anche il cambiamento climatico vestendosi di verde. In forza di questi successi l’economia è potuta salire al cielo come nella pala della Vergine Maria di Tiziano nella basilica dei Frari!  L’economia è uscita dal novero dei saperi razionali per diventare, da una parte (quella della economia politica) una teologia e, dall’altra (quella dell’economia aziendale) un sistema meccanico, matematicizzato di calcolo dei flussi di materia e di energia che generano valore.

Esiste una economia senza crescita?

Latouche dice di no. Afferma che non esiste un’economia che non sia mossa al suo interno da una logica implicita di accrescimento. A essere messa in discussione, quindi, non è solo l’economia politica in tutte le sue forme storiche “realmente esistite”: classiche, liberiste, stataliste, socialcomuniste, miste, ordoliberali, neoliberiste, finanziarizzate …. Non si tratta solo di smascherare l’economicismo come forma ideologica. Non è sufficiente passare dall’economia politica all’economia ecologica (Martinez Allier). Latouche mette in discussione l’intero campo semantico dell’economia. Non è quindi più la sola economia della crescita (e i suoi sinonimi: sviluppo e progresso) ad essere indicata come la causa della catastrofe ecologica e sociale in corso, ma l’economia in sé stessa. Comunque concepita, nella sua essenza ontologica e sostanza metastorica.

Se è così, i quesiti che si pongono sono due. Uno d’ordine più teorico e uno con implicazioni politiche.

Economia integrata nell’ecologia

È immaginabile concepire una forma di civiltà ultraeconomica, indifferente ai problemi posti dalla sussistenza e dalla riproduzione delle basi materiali della vita? Mi pare evidente che non sia possibile. Non so chi ci abbia inflitto questa condanna, ma mi pare evidente che ogni essere vivente (umano e non umano) è inserito in una catena trofica che obbliga ciascun individuo a procurarsi di che vivere. Ciò non vuol dire necessariamente che questo tipo di attività debba essere l’unico scopo della vita (nemmeno per gli animali non umani è così), né che tale attività debba essere separata da ogni altra dimensione del vivere (come in effetti avviene nelle società schiaviste e, attraverso la “divisione scientifica del lavoro”, nelle società salariate). Mi pare di capire che la ricerca di una buona vita dipenda, banalmente, da una accettabile integrazione tra le varie esigenze umane: materiali e spirituali, individuali e relazionali, produttive e contemplative, ludiche ed erotiche … Non è saggio, quindi, pensare che le pratiche economiche (intese come tecniche e metodi per far fronte alla limitatezza delle risorse naturali e alla loro utilizzazione ottimale) possano occupare l’intera gamma dei pensieri umani, ma non è nemmeno saggio non tentare di economizzare il dispendio delle energie e delle risorse materiali necessarie alla soddisfazione delle esigenze delle persone così come si vanno determinando storicamente e socialmente. Il pensiero economico (il sapere economico) è esattamente questo, banalmente: economizzare le energie e gli sforzi necessari a creare i beni e i servizi utili in ambienti biofisici limitati (che non è sinonimo di scarsi). Il primo significato di frugalità è parsimonia.

Quindi, la società della decrescita che abbiamo in mente potrebbe essere definita tanto aneconomica (per dirla con Jaques Derrida) in quanto non dipendente dall’economia, quanto transeconomica, capace cioè di sussumere integralmente al suo interno l’esigenza di usare al meglio (durevolmente, equamente, eticamente) le risorse, umane e non, disponibili. L’economia, insomma tornerebbe ad essere incorporata nella società (per dirla con Polaniy) e nei cicli naturali (per dirla con Georescu Roegen o Martinez Allier) e, così facendo, muterebbe natura, statuto scientifico, considerazione sociale, sistemi di governo. Volendo, potremmo anche cambiargli nome: non più economia, nemmeno economia politica, ma “cura”, “rigenerazione”, “convivio” o “ecologia integrale”, per usare una efficace espressione di Bergoglio che sta ad indicare proprio la inseparabilità della dimensione ecologica e socioeconomica.

Decrescita come movimento di liberazione e riappropriazione

La seconda questione è d’ordine più pratico e investe il rapporto del movimento per la decrescita con i movimenti sociali ed ecologici. Tutti i movimenti anticapitalisti e antisistema (compresi quelli più radicali e rivoluzionari, gli antiutilitaristi, gli ecologisti profondi e gli anarchici, gli zapatisti …- esclusi forse solo i situazionisti) pensano che sia non solo possibile, ma necessario reinventare e risignificare le attività economiche mettendole al servizio della prosperità (seppur frugale) dell’intera umanità. L’idea è di prefigurare e sperimentare forme di “economie altre” fondate su relazioni mutuali, non utilitaristiche, non predatorie ed estrattiviste, ma rigenerative, orientate al dono, alla reciprocità, alla comunanza e convivialità solidale, all’equità, alla prossimità, alla permanenza… Non si tratta di rinunciare a nulla, ma esattamente il contrario: reimpossessarsi di beni inestimabili (incommensurabili in termini monetari) che la società della crescita ci hanno fatto venire meno: l’aria pulita, l’acqua, il paesaggio… il tempo per coltivare relazioni umane … le attività libere che rigenerano la mente e i corpi. Insomma la realizzazione delle condizioni essenziali per un buen vivir. Non smetto di pensare che la decrescita sia un processo di liberazione e di riappropriazione (beni comuni).

Ogni forma di civiltà sviluppa un corrispondente sistema economico. Se per economia intendiamo sistemi di cooperazione sociale volti a soddisfare la produzione di beni e servizi utili al buon vivere delle popolazioni, allora un’altra economia risulta necessaria alla costruzione di un’altra civiltà.

È come per il lavoro. Un conto è volere abolire il lavoro salariato (schiavo, subalterno, eterodiretto, astratto, alienante, impersonale… “di merda”, per citare Graeber). Un altro conto è negare l’esigenza di svolgere attività umane volte a migliorare le condizioni di sussistenza e di cura della propria persona così come degli altri esseri viventi (Ernst Friedrich Schumacher) e migliorare la vivibilità del pianeta.

È come per le tecnologie. Un conto è l’automobile – diceva Illich – un altro valore ha la bicicletta. Ci sono strumenti che debilitano e disabilitano il corpo e la mente, e altri che invece li possono fortificare.

È come per ogni branca del sapere. La lotta per uscire dalla civiltà della crescita passa sicuramente per la riappropriazione e la integrazione di tutti i saperi (complessità e olismo), anche di quelli più parcellizzati e specialistici. Compreso quello economico. Un conto è mettere in discussione lo statuto scientifico codificato, autoreferenziale, isolato di una disciplina5 e, soprattutto, contestarne la sua pretesa prescrittiva. Un altro conto è negare l’esistenza di specificità (sempre parziali) che compongono il pluriverso umano, le diverse forme di conoscenza e i possibili, infiniti, diversi comportamenti sociali.6

Se è vero che l’economia è inseparabile dalla società (non c’è alcun automatismo spontaneo nelle prassi economiche, se non quello che la politica gli concede), in un’altra auspicabile forma di civilizzazione le funzioni ora così malamente svolte dall’economia (“malsviluppo”, lo definisce Vandana Shiva) dovranno essere completamente riconsiderate. Così come del resto dovrà accadere per tutte le altre forme del sapere parcellizzato e scomposto. Penso ai casi eclatanti della medicina, della bioingegneria submolecolare, della psicanalisi, della sociologia politica… e così via. Ogni sfera del sapere deve diventare un campo dentro cui le forze della trasformazione devono dare battaglia.

La società a cui miriamo è quella in cui le donne e gli uomini sono capaci di prendersi cura della propria vita, di quella degli altri e del pianeta. Per riuscirci, ritengo, ci sarà bisogno di sperimentare e definire altre forme di approvvigionamento, lavorazione, distribuzione, utilizzazione, rimessa in circolo degli stock e dei servizi che la natura ci mette gentilmente (gratuitamente) a disposizione (comprese le nostre stesse capacità di lavoro). In attesa di trovare un nome diverso a questo modo di agire e di pensare, proporrei di chiamarlo “economia della cura”.

NOTE

1 Latouche scrive nell’introduzione a L’invenzione dell’economia; «Noi rifiutiamo l’idea di una essenza o di una sostanza, in altre parole di un universale ‘economia’. L’economia è in quanto tale una costruzione culturale e storica» (p.XV). In tal senso Latouche critica Polanyi, che distingue tra «un’economia sostanziale che costituirebbe uno zoccolo universale e trans-storico e un’economia formale che riguarderebbe unicamente il calcolo economico» e la stessa bioeconomia di Georgescu Roegen, perché non giunge a «rinunciare all’economia come “scienza economica”». La decrescita, invece, individua «il cuore dei problemi (…) nella logica stessa di crescita, percepita come  essenza  dell’ economico». Quindi l’economia ha una sola sostanza: quella della crescita. Un’economia senza crescita (per esempi quella “stato stazionario” ipotizzata da Herman Daly, sarebbe impossibile. E prosegue: «In questo senso, il progetto della decrescita è radicale. Non si tratta di sostituire una buona economia a una cattiva economia, una buona crescita o un buono sviluppo a una cattiva crescita o a un cattivo  sviluppo, con una colorazione di verde o di socialità od equità, immettendo dosi più o meno forti di regolazione statale o di ibridazione con la logica del dono e della solidarietà. Si tratta piuttosto di uscire senza mezzi termini dall’economico» (p. XI).

Ancora più netto Latouche in un altro suo lavoro, L’abondance frugale comme art de vivre. Bonheur, gastronomie et décroissance (estratto datomi dall’autore): «Si tratta né più né meno di uscire dall’economia. Questa formula è generalmente fraintesa perché i nostri contemporanei trovano difficile rendersi conto che l’economia è una religione (…) Il progetto della decrescita non è altro che la costruzione di un’altra società, una società di abbondanza frugale o di prosperità senza crescita (T. Jackson). In altre parole, non è fin dall’inizio un progetto economico, anche se di un’altra economia, ma un progetto sociale che implica abbandonare l’economia come realtà e come discorso imperialista».

2 In una parola, la decrescita è uscire dall’ossessione della crescita del volume dei beni e dei servizi prodotti e venduti sul mercato, contabilizzati in valori monetari. La decrescita, nel suo significato basico, è la ricerca della diminuzione dei flussi di energia e di materia impegnati nei cicli economici, quel tanto che serve a rientrare nei “confini planetari” ecosistemici. Questo, però, è solo l’”argomento debole”, difensivo. Quello forte, capace di mobilitare le persone è «presentare una visione della vita buona come qualche cosa da perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e speranza» (R. e E. Skidlsky, Quanto è abbastanza, p. 167, 2013).

3 E Dio disse: “Facciamo l’essere umano come nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, perché domini sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Quindi li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”. (Genesi 1,26-28). Se c’è una debolezza di Bergoglio nella stessa Laudato si’ è proprio nel non essere riuscito a mettere in discussione le basi antropocentriche del pensiero giudaico e greco.

4 In fondo (mi si perdoni la puerile semplificazione) basterebbe tornare ad Aristotele e distinguere tra crematistica ed economia – Oikonomiká, la buona gestione della dimora – ed allargare il concetto all’intero mondo, fino a far coincidere il campo semantico dell’economia con quello dell’ecologia. Che è come dicono gli ecologi da più di mezzo secolo che l’economia è un sottosistema dell’ecosfera. Scriveva E.F. Schumacher: «L’economia è una scienza derivata, che accetta istruzioni da ciò che io chiamo meta-economia. Cambiano istruzioni, cambia il contenuto dell’economia». Piccolo è bello p.57)

5 Quello che Edgar Morin definisce «il nostro modo di conoscenza parcellizzato [che] produce ignoranze globali» (La Via, 2012)

6 Sempre E.F. Schumacher: «Ogni scienza è benefica entro i propri limiti, ma diventa cattiva e distruttiva appena li supera» (p.54, Piccolo è bello). È quello che Castoriadis chiamava “predominio dell’economico”, come valore esclusivo e unico e dominio totale della società che «oltrepassa infinitamente il mero soddisfacimento dei bisogni funzionali alla sopravvivenza» (La rivoluzione democratica, 1990).

 

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